sabato 22 marzo 2014

Io e gli ebrei.


La fratellanza stabilita nella Resistenza tra la classe operaia e gli ebrei italiani  si ruppe nel 1967 con la “guerra dei sei giorni” vinta da Israele. L’ebreo e il comunista, che erano allora vicini, si separarono. Gli avvenimenti libanesi, Sabra e Chatila accentuarono, nella percezione popolare, l’aggressività dello stato di Israele, identificato con “gli ebrei”. La simbolica bara lasciata davanti alla Sinagoga di Roma durante una manifestazione dei metalmeccanici della CGIL, il diffondersi sui muri delle città delle scritte anti ebraiche, i casi di discriminazione a macchia di leopardo in Italia, misero in evidenza il male oscuro alimentato da duemila anni di intolleranza religiosa verso gli ebrei, accusati, nelle passioni del venerdì santo, di aver assassinato Gesù, e definiti perfidi durante la messa preconciliare; un male apparentemente incurabile, che richiederà una “cura disintossicante” lunga generazioni. Erano i tempi del culto per Arafat e delle sciarpe coi colori di El Fatah palestinesi. I giovani di sinistra scrivevano sui muri: “Begin=nazista=genocidio”. Io stesso ero assai confuso. Avevo in corso dalla metà degli anni ’50 un rapporto epistolare con una giovane maestrina ebrea di Praga, studentessa di italiano, e fu lei a raccontarmi, per esperienza familiare, il dramma delle comunità ebree della Boemia, di Terezin ed Auschwitz. Poi agli inizi degli anni ’60 strinsi un rapporto di amicizia con alcuni ebrei della Boemia Occidentale, rapporto che ha portato, dagli anni ’70 fino ai nostri giorni, a scambi di visite e soggiorni, lettere, documenti, amicizia profonda, quasi fraterna. Questi rapporti mi salvarono dall’estremismo tanto che, all’interno delle piccole comunità ebraiche della Boemia, pur sapendo della mia militanza nel PCI, venivo accettato come un amico fraterno: in famiglia, nelle feste, nella Sinagoga. Da allora ho dedicato molto del mio tempo allo studio, alla ricerca del dramma della Shoah, fino alla scoperta del Campo di Internamento per gli ebrei maremmani a Roccatederighi, nel comune di Roccastrada (GR). Parlo di queste cose dopo aver svolto due incontri con una cinquantina di studenti delle Scuole Medie ed aver rivelato loro il dramma di Roccatederighi, le responsabilità di un vescovo, e l’uccisione  della piccola Gigliola, nata nel Campo di internamento, deportata all’età di quattro mesi ad Auschwitz e uccisa all’arrivo del vagone blindato, precedendo di poco babbo e mamma. E’ così che ho ripreso in mano il libro di Gina Formiggini, acquistato nel 1970 entro il quale ho trovato due ritagli del giornale l’Unità, dicembre 1982 e gennaio 1983, articoli che mostrerò, di un giornalista che amavo, Emilio Sarzi Amadè. Emilio sarebbe stato contento di leggere il “romanzo” dal vero scritto da Laura Paggini sulla vicenda dei bambini ebrei rinchiusi a Roccatederighi e passati per i camini di Auschwitz con il silenzio di un vescovo, l’omertà popolare, la dimenticanza che per decenni è stata più pesante della loro morte, di Autorità e Istituzioni della Repubblica Italiana.







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