mercoledì 13 agosto 2014

Dal: “Diario partigiano di Mauro Tanzini”,
“La piccola banda di Ariano”, altri appunti sparsi e “I
preti nella Resistenza delle Colline Metallifere Toscane”, di Carlo Groppi.



Nota finale.

Nel 2006 è uscito l’interessante lavoro di Marco Palla, docente di storia contemporanea all’Università di Firenze ed autore di studi sul fascismo e sulla Seconda guerra mondiale, dal titolo Storia della Resistenza in Toscana, volume I, edito da Carocci  sotto l’egida della Regione Toscana. Sono 333 pagine fitte fitte di testo e di note alle quali, purtroppo, come spesso accade per le opere importanti, che potrebbero essere di ausilio alle ricerche di microstoria territoriale, mancano tutti gli indici, in particolare quello dei luoghi e dei nomi di persona. Per tali motivi ho saltato le prime 188 pagine andando al capitolo La resistenza armata in Toscana, redatto da Giovanni Verni. Naturalmente vi ho cercato riferimenti alla Resistenza in Maremma, agli eccidi, tra i quali quello degli 83 minatori di Niccioleta, all’internamento degli ebrei, alla emblematica morte di Norma Parenti. A pagina 228 ci sono 4 righe e mezza sul rastrellamento del Frassine del 16 febbraio 1944 E nella pagina seguente si fa riferimento ai capi delle province di Siena e Grosseto (Chiurco ed Ercolani) ed al loro ruolo di repressione dell’attività partigiana, citando alla nota 126 i lavori della T. Gasparri e N. Capitini Maccabruni, in modo molto generico. A pagina 243 si afferma  che….l’entità dell’afflusso di nuovi partigiani e la sua presenza su tutto il territorio regionale si possono desumere dall’andamento delle azioni di carattere strettamente militare in aprile e maggio 1944,  nelle quattro aree già in precedenza utilizzate (nota 163: Grosseto 74, 137; Pisa 23, 27; Siena 67, 157). Siamo nei due mesi precedenti la Liberazione della Toscana. A pagina 244 si sviluppa il tema derivante dall’incremento numerico di persone, soprattutto giovani renitenti alla leva e soldati sbandati, che entrano nelle formazioni partigiane, afflusso che obbliga ad una maggiore strutturazione delle medesime, sia per dare incisività alle azioni militari sia per ridurre le perdite. La brevità di vita di tali nuove Brigate, nonché, dopo la caduta di Roma, specialmente dalla metà di giugno, la velocità dell’avanzata degli Alleati, schiaccia la cronaca della formazioni presenti nelle Colline Metallifere Toscane, a cavallo delle tre province di Siena, Grosseto e Pisa. Cioè la Brigata Spartaco Lavagnini nel senese; la 23 bis Brigata Garibaldi Guido Boscaglia, nel senese-grossetano. E il Raggruppamento Monte Amiata collegato con il comando clandestino badogliano, nel quale, con una operazione “a tavolino” furono fatte confluire le Bande Camicia Rossa e Camicia Bianca della 3 Brigata Garibaldi al comando di Mario Chirici. Uno dei compiti di tali formazioni badogliane, in stretto contatto con gli alleati liberatori, fu quello di disarmare rapidamente tutti i componenti delle varie formazioni, non appena le medesime venivano in contatto con le truppe della V armata.  Dopo la seconda metà di maggio venne a scadenza il bando di amnistia per i renitenti e i disertori della RSI e contemporaneamente  in molti settori della Resistenza toscana vennero diffusi i bandi coi quali si comminava la pena di morte per chi avesse continuato a sostenere la RSI e il PFR, pene che furono in alcune zone immediatamente applicate. Intanto il disgregamento delle truppe germaniche era sempre più evidente e nel periodo dal 3 al 20 giugno 1944 i fenomeni di disgregamento furono così  grandi che si può parlare di “una soldataglia selvaggia tanto che lo stesso Feldmaresciallo generale Rease della XIV Armata, dovette emanare ordini severissimi per porre freno alle ruberie e ai saccheggi di appartenenti alla Wermacht, senza che gli ufficiali vi si opponessero. Ciò chiarisce in un certo modo anche l’accentuazione della cruente “guerra ai civili” e “guerra alle bande”, che insanguinò le Colline Metallifere Toscane, dall’Amiata a Massa Marittima,. compreso l’eccidio degli 83 minatori di Niccioleta. Il 9 giugno il comandante del LXXV Armee Korps, con l’ordine di Corpo n. 35, disponeva l’estensione della repressione delle bande che dovevano essere accerchiate e annientate, in particolare nell’area Pomarance-Larderello-Castelnuovo di Val di Cecina, in provincia di Pisa e a quella di Riotorto-Montioni-Valpiana-Massa Marittima, posta a cavallo delle province di Livorno e Grosseto. In conseguenza di ciò l’11 giugno vennero effettuati numerosi rastrellamenti impiegando il gruppo Hoffman della 19 Lufwaffe-Feld Division; il Battaglione Lange della 16 SS-Panzergrenadier-Division e il Battaglione di Polizia Kruger, azioni nel corso delle quali persero la vita numerosi singoli partigiani. I partigiani frattanto effettuavano simboliche “liberazioni” di piccoli centri abitati dopo il noto appello ai patrioti del generale Alexander, trasmesso nella notte tra l’8 ed il 9 giugno, affinché i partigiani ostacolassero in tutti i modi possibili la ritirata tedesca. Ciò determino la decisione dal comando della LXXV Armee Corps tedesca di predisporre le forze per la repressione e l’annientamento e, su ordine del Feldmaresciallo Kesselring  del 17 giugno, a “procedere con draconiana severità”. Ma il comandante supremo dell’OB Sudwest si trovò in buona compagnia nell’ordinare l’escalation del terrore e fu addirittura anticipato dall’Oberfuhrer Karl Heinz Burger, fin dall’8 giugno, con un ordine che poneva i civili in completa balia di ogni ufficiale tedesco. E ciò avvenne, in particolare, nell’area delle Colline Metallifere nelle quali il generale Joachim Lemelsen, comandante della XIV Armata della Wehrmacht, di fronte ai crescenti atti di sabotaggio effettuate dalla popolazione e dai partigiani sulla direttrice Siena-Grosseto-Volterra aveva raccomandato e permesso che per ogni soldato ucciso o in presenza di accertati sabotaggi collegabili ai piani del nemico, dovessero essere fucilati fino a 10 abitanti maschi del luogo atto alle armi. Si identificavano in tal modo i civili coi partigiani. Questa direttiva fu ampliata nei giorni seguenti prevedendo l’incendio delle case di abitazione dove si trovassero i ribelli o da cui si fosse sparato sui soldati tedeschi. I tedeschi decisero  di impiegare reparti altamente specializzati nella repressione come ad esempio il Lufwaffe-Jager-Regiment della 19^ Lufwaffe D-Feld Division ed al 3 SS Panzergrenadier Division sostenuto dall’artiglieria nell’ azione su Roccastrada. E’ necessario rilevare che i principali massacri di cui si resero responsabili i soldati della Wermacht generalmente non si verificarono nel corso di attacchi a formazioni partigiane, che furono eventi secondari, ma ebbero carattere preventivo, cercando di paralizzare col terrore i civili rimasti nelle immediate retrovie del fronte come si verificò a Niccioleta (si citano solo 77 morti e non 83) e, nelle settimane seguenti, nel Pisano dove gli eccidi di massa furono sostituiti da un continuo stillicidio di singole uccisioni che si potrebbero definire “micro massacri”, i quali, nel loro complesso, però, raggiunsero una cifra tale da consentirci di parlare di un eccidio.  


Queste succinte note non tengono conto di molti studi storici (Pezzino, Battini. Taddei, Groppi, Spinelli, edi altri) che inquadrano in modo diverso gli eventi dell’uccisione degli 83 minatori di Niccioleta + 4 altri partigiani, la deportazione di 17 giovani e la successiva scia di sangue fino alla vigilia della Liberazione di Massa Marittima, Castelnuovo e Pomararance. Che, a mio avviso, potrebbero integrare l’analisi di questo interessantissimo lavoro di Marco Palla.

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