giovedì 7 agosto 2014


Dal: “Diario partigiano di Mauro Tanzini”,
“La piccola banda di Ariano”, altri appunti sparsi e “I
preti nella Resistenza delle Colline Metallifere Toscane”, di Carlo Groppi.

(VIII)

 In Frantisek Langer, I fanciulli e il pugnale, Garzanti, Milano, 2001 (romanzo scritto nell’esilio a Parigi e pubblicato a Londra nel 1942 ed in Italia nel 1947), si racconta la storia dell’occupazione tedesca, nel marzo 1939, di un piccolo villaggio della Repubblica Cecoslovacca, Podolì, ubicato nei pressi della città mineraria di Kladno. La maggior parte degli uomini di Podolì erano o erano stati minatori. Iniziano gli atti di sabotaggio e di Resistenza contro nazisti. I partigiani agiscono nella clandestinità tessendo una vastissima rete di contatti. A Kladno esplodono alcune miniere e a Podolì è ucciso misteriosamente un maestro elementare, tedesco dei Sudeti, fanatico nazista, che era stato introdotto nel villaggio per conquistare subdolamente la fiducia dei fanciulli riuscendo in tal modo a carpire informazioni delicate su tutti gli abitanti e scoprendo i nomi dei partigiani e degli oppositori. Nel momento in cui la rete si sarebbe dovuta chiudere con l’arresto e la fucilazione di molti paesani, genitori e fratelli degli scolari così vilmente ingannati, il maestro è trovato morto all’interno della scuola e le prove, da lui pazientemente raccolte, sono sparite. Le indagini condotte dalle SS si concentrano sui fanciulli del villaggio (in realtà è proprio uno di loro che ha ucciso il maestro!), ma alla fine un vecchio soldato decorato della prima guerra mondiale se n’assume la responsabilità. Il colonnello delle SS ordina un “processo regolare” di fronte a tutto il villaggio, processo che, pur lasciando molti lati oscuri sulla vicenda, porta all’impiccagione del vecchio soldato che, con il suo sacrificio, impedisce l’effettuazione di una tremenda rappresaglia contro la popolazione. I nazisti partono da Podolì per rientrare a Praga: «…il colonnello se ne tornava verso Praga. La sua automobile sussultava su di una strada secondaria tortuosa e scavata dal passaggio dei carri a cavalli, riusciva soltanto ad avanzare lentamente nelle carreggiate e nelle buche; ci voleva ancora qualche poco, prima di raggiungere la strada principale. Il colonnello aveva quindi tutto il tempo e la tranquillità per riandare con la mente alla mattinata e, riflettendoci su, si sentiva molto insoddisfatto del risultato. Tutto l’avvenimento gli era sfuggito di mano, diceva fra sé, e, nonostante i bei discorsi con cui aveva motivato gli imprevisti davanti ai suoi ufficiali e a se stesso, la cosa era finita in modo contrario alle sue intenzioni. Come mai era potuto accadere un fatto simile? Si era proposto, e l’aveva creduto molto spiritoso, di ottenere dai ragazzi notizie su quanto di sovversivo si tramava nel sottosuolo di quella regione; aveva mandato in mezzo a loro il falso maestro, il tenente Helmuth, simpatico e promettente giovanotto, e uno di quei bambini lo aveva ucciso. Non era stato possibile punire il colpevole, un bambino sicuramente, perché non soffrisse il prestigio della potenza tedesca dimostratasi così vulnerabile…e così si era dovuto accontentare di un tipo che si era offerto spontaneamente per la forca. La cosa sembrava del tutto logica, ma il bilancio totale era misero…ma in qualcosa c’era stato un errore. Dove? Il colonnello se lo confessava: in lui stesso. Si era allontanato dalla pratica abituale…si era baloccato col tribunale e con l’accertamento della colpa, perché aveva voluto punire secondo giustizia e il Reich tedesco era rimasto soccombente nel duello con quel miserabile villaggio ceco e coi suoi mocciosi. In nome loro aveva vinto quell’uomo volgare, poco interessante, a cui la morte era indifferente o rappresentava persino un onore. Per giunta il colonnello ammetteva di aver sbagliato anche nel farlo impiccare sul grande albero in mezzo al paese. Così l’esecuzione era diventata quasi un’apoteosi e dell’impiccato egli aveva fatto un eroe paesano. Era evidente. Errori su errori. E la loro origine? Ora lo sapeva. Proprio perché aveva cominciato a gingillarsi con la giustizia, il tribunale, il diritto, la legge e simili concetti... Certo era stato soltanto un simulacro di giustizia, un tribunale da commedia, un giocare col diritto: soltanto una parodia e una beffa. Ma in cose quali il diritto e la giustizia vi è una concatenazione logica che comincia ad agire se tu le metti in moto, fosse anche nelle loro più povere e ridicole forme. Non ci devi scherzare…Era stata una mattinata disgraziata, se n’era ripromesso qualcosa di ben diverso. In avvenire si sarebbe attenuto sempre alla pratica che la potenza del Reich aveva codificato: in avvenire, se qualcuno dei criminali villaggi cechi avesse commesso qualunque cosa di punibile, semplicemente, senza investigazioni e processi egli avrebbe fucilato tutti gli uomini, deportato le donne ai lavori forzati, avrebbe dato i bambini da allevare in Germania. Questa genia non bisognava trattarla diversamente…la sua automobile attraversava in quel momento un villaggio molto lentamente, perché la strada stretta tra le casupole era dissestata in modo particolare. Il paese era pressappoco uguale, il gemello, quasi, di quello che aveva lasciato poco prima. Si, fucilare gli uomini, cacciare le donne, portare via i bambini e quella miserabile borgata incendiarla, o fracassarla a cannonate e raderla al suolo affinché sparisca uno dei nidi dove questa plebaglia può vivere e moltiplicarsi e che sono soltanto ostacoli al nostro cammino tedesco. L’auto passava lentamente accanto all’ultima casa sulla quale, come dovunque in Boemia, era attaccata una tavoletta ovale azzurra col nome del paese che aveva appena attraversato. Il colonnello la lesse. Vi stava scritto: Lidice».


                                                                                                          (continua)

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