domenica 2 febbraio 2014



Kemal, Füsun e una foto ritrovata [i]

Un nodo di pianto mi moriva in gola
leggendo le ultime parole di Kemal,
proprio nell’istante in cui
infilandosi una mano in tasca,
tirava fuori  la fotografia di Füsun,
ed osservandola con tenerezza alla luce fioca
del lampione, mostrandola a Pamuk diceva
                  - E’ bella, vero? -

Erano due uomini soli sotto quel lampione,
che guardavano colmi d’amore l’immagine
in costume da bagno nero, spiavano estasiati
le sue braccia color miele, il viso severo,
                                               malinconico,
il corpo splendido e l’intensità che emanava
a distanza d’un tempo immemorabile la sua figura.

-         Deve assolutamente esporre quest’immagine
nel museo, signor Kemal, - sussurrò Ohran -
 Non se ne dimentichi - Non lo dimenticherò -.

Kemal al baciò con dolcezza infinita la foto
di Füsun e la ripose con cura nella tasca interna
della giacca, sorridendo vittorioso.
 
Così, mentre lacrime chiare m’inumidivano il ciglio,
non mi trattenni dal pensare  a come anch’io fossi
stato felice nella vita, possedendo le prove della
felicità. L’ultima è questa foto che vi mostrerò
e fu scattata a Firenze, al Piazzale Michelangelo,
      nell’aprile di cinquantacinque anni fa.

                                               Una gita scolastica.
Io sono quel ragazzo irrequieto, che ancora non ha trovato
dove collocarsi, mentre l’otturatore fa click! Nel gruppo
ci siamo tutti, all’apparenza giovani studenti, ma già uomini,
formati dalla vita. In passato, ogni volta che l’incontravo,
rivolgevo ad un compagno, l’ottavo da sinistra nella foto,
Aurelio, la stessa domanda: - Siamo tutti?
Fino a poco tempo fa rispondeva: - Tutti!

Adesso ho studiato l’istantanea e scrivo sopra ognuno
nome, cognome e residenza, e mentre lo faccio
mi chiedo – che ne sarà stato di loro? - I professori
ed il bidello, Ettore, sempre un poco alticcio, sono morti
e di noi, quattro li hanno innanzitempo raggiunti:
Franco, Silvano, Norberto, Romano…Caro Aurelio,
è tempo di prepararsi alla partenza, siamo come le rondini
sui fili del telegrafo che vedevo meste nei pascoli
del Carbonciolo, forse invecchiando si diventa patetici:
ma come mi appaiono luminosi
quei giorni a Larderello e come noi stessi
ci mostriamo d’una bellezza insolita, un misto
di fierezza e d’ardimento. Siamo quelli – no,
non abbiamo costruito le cattedrali! – che hanno
dato un senso ad una terra avara di opportunità
di lavoro e di speranza. Meriti vani, sogni infranti.
Ora eccovi qui, davanti ai miei occhi velati,
a me vi stringo con nostalgia,
mi pareva lontana Firenze, allora.
Lontana come il futuro,
come l’innocenza, come il paradiso terrestre
di liberi e uguali, come la vita
che abbiamo amato con gioia ed ora sta per finire,
o quasi. 





[i] La poesia si ispira alle pagine del romanzo di Ohran Pamuk “Il Museo dell’innocenza” per descrivere l’emozione del ritrovamento di una fotografia di gruppo, scattata nel 1954 al Piazzale Michelangelo di Firenze, agli studenti del 3° Corso delle Scuole Aziendali di Larderello.

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