domenica 17 dicembre 2017

I fratelli Mann.

PASSIONI, SPERANZE, ILLUSIONI.
CAP. 62.

La montagna incantata[1]

Thomas Mann (Lubecca, 1875 – Zurigo, 1955) concluse il suo più grande romanzo, “La montagna incantata” (Der Zauberberg) nel 1924, dopo dodici anni di lavoro, fermento narrativo e indagine saggistica, che in questa ambiziosa opera confluiscono.
         Diagramma dei complicati incontri di uomini sui quali incombe la morte, il romanzo intende rappresentare il disastro dei valori borghesi, riproponendo, al contempo, la continuità dello “spirito tedesco” nella Storia. Il significato psicologico è un incitamento alla speranza e a non soggiacere all’annichilimento dell’idea della morte.
         La trama è apparentemente molto semplice: Hans Castorp, recatosi a trovare il cugino Joachim, ammalato di tubercolosi nel sanatorio di Davos, in Svizzera, finisce per restarvi non i ventuno giorni che si era proposto, ma sette anni, ammaliato da quel piccolo mondo che è in sé un universo simbolico, ma completo. Il giovane ingegnere amburghese “pupillo della vita”, s’innamora di una pensionante, Madame Claudia Cauchat e passa il suo tempo in discussioni con l’italiano Settembrini, rappresentante della tradizione illuministica, e col violento gesuita Naphta, dogmatico negatore dell’umanesimo progressista, più tardi suicida. Entrambi si contendono l’anima dell’ingenuo borghese. Uscito dal sanatorio per andare in guerra, di Hans non avremo più notizia. Il suo ultimo destino è infatti incerto mentre si avvia verso la trincea.
         La “montagna magica” rappresenta un tempio di iniziazione, “una sede della pericolosa ricerca del mistero della vita e Hans Castorp, il viandante in cerca di cultura abbraccia volontaristicamente la malattia e la morte perché già il primo incontro con esse gli promette una comprensione straordinaria, un avventuroso progresso. Il Gral, la suprema verità a cui tende, e che egli intuisce nel suo sogno quasi mortale prima di essere trascinato dalla sua altezza nella catastrofe europea, è l’idea dell’uomo, la concezione di umanità futura, passata attraverso la più profonda conoscenza della malattia e della morte. In quanto all’intenzione e al fine dell’opera l’autore stesso ebbe a dire: ‘l’interesse alla morte e alla malattia, ai fenomeni patologici, alla decadenza, non è che una variata espressione dell’interesse alla vita, all’uomo, come dimostra la facoltà umanistica di medicina; chi si interessa ai fatti organici, alla vita, si interessa in particolare alla morte…’”.
         L’orizzonte interno del romanzo non solo è vasto, ma si direbbe, sconfinato: anatomia, fisiologia, patologia, farmacologia, botanica, radiologia, musica, psicologia, biologia, meteorologia, occultismo, filosofia, tecnologia, politica…L’uomo non ha misteri per Mann, egli lo spia con precisione realistica nei gesti, nell’espressione di uno sguardo, nell’intenzioni palesi o mascherate e nei particolari anormali del fisico e della mente. E nel capitolo in cui si legge la stupenda descrizione della tormenta di neve e del sogno di Castorp intorpidito dal gelo, la simbolica visione di un mondo ideale, sereno, armonioso e di un’umanità concorde e rispettosa del prossimo, gli spalanca gli orizzonti della mente e gli fa intendere il valore della morte e il mistero della sapienza e dell’amore.
         Comprende che la morte è una grande potenza, che ad essa dobbiamo, si, restare fedeli, ma senza dimenticare che la fedeltà alla morte e al passato è tetra voluttà e misantropia. Alla morte si oppone l’amore, al passato l’avvenire. Le riflessioni di Hans Castorp si condensano quindi nelle parole, punto più alto del romanzo, “per rispetto alla bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio sui propri pensieri”.
         Questo romanzo multiforme e complesso, romanzo del tempo e del suo fluire, è anche un esauriente ritratto della civiltà occidentale a cavallo tra i secoli XIX e XX e nella sua incantata fusione di prosa e poesia, di vastità scientifica e di raffinata arte, il libro forse più grandioso  che sia stato scritto nel Novecento.



[1] In “Ifcl”, n. 10, ottobre 1979.

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