PASSIONI, SPERANZE, ILLUSIONI.
CAP. XII
18.
Il “buon Natale” di Nixon (24 dicembre 1972)[1]
E’
Natale. Due mesi sono trascorsi da quando, il 26 ottobre, venne annunciato che
era stato raggiunto in linea di massima un accordo tra il Vietnam del Nord e
gli Stati Uniti e che restavano ancora da risolvere solo “questioni
relativamente poco importanti” per avere finalmente la pace. Oggi sappiamo che
Nixon stava barando e che tutto l’accordo è stato stracciato con la richiesta
di apportare 162 modifiche al testo originale su questioni qualificanti.
Dimostrando ipocrisia e brutalità il Presidente
americano ha ordinato i più massicci bombardamenti sul Nord Vietnam che questa
guerra ricordi. Vengono colpite le grandi e popolose città di Hanoi e Haiphong,
vengono massacrati donne e bambini. Il mondo assiste inorridito e indignato
alla vendetta che gli Usa stanno perpetrando con i loro criminali
bombardamenti, mentre per intorbidare le acque manovrano cinicamente gli ultimi
rigurgiti dei loro fantocci.
In questa aggressione gli Usa hanno commesso tutti i
peggiori crimini, le più canagliesche atrocità. Hanno voluto dimostrare al
mondo di cosa sono capaci ed hanno confermato, a scopo dimostrativo ed
intimidatorio, che essi, da veri fascisti, possono violare qualsiasi
convenzione ed ogni diritto internazionale. Sconfitta ed umiliata, ma sempre
potente ed arrogante, la casta dominante Usa si regge economicamente sulla
produzione industriale della guerra che ha scatenato per sopraffare e
distruggere il Vietnam.
Dignitosi e decisi i vietnamiti ricostruiscono, ora
dopo ora, quello che l’America distrugge e continuano a produrre per la loro
sopravvivenza, e a combattere per la loro libertà. Questa guerra è l’esempio
più tipico di un conflitto tra due mondi in opposizione: l’imperialismo capitalista,
con tutti i suoi vizi, i suoi sprechi, le sue follie, i suoi lussi, pronto a
sopraffare ed a sfruttare, a distruggere, da un lato e, dall’altro, un piccolo
popolo contadino, laborioso, parsimonioso, intelligente, ma soprattutto pronto
a battersi per cacciare gli oppressori.
Questa è la lezione del Vietnam. Noi siamo oggi di
fronte ad una scelta totale che investe ogni azione della nostra vita:
accettare l’oppressione o schierarsi contro gli oppressori; con la reazione o
con la rivoluzione. La nostra lotta, la lotta dei democratici di tutto il
mondo, la mobilitazione degli “uomini di buona volonta”, dei cristiani e dei
marxisti, significa anche la pace per il Vietnam, la sua indipendenza, la sua
unità, la sua libertà.
Questa mobilitazione darà un senso concreto alle
parole, ai pensieri ed ai propositi che questi giorni di festa ci suggeriscono,
sarà il segno di un amore tangibile per l’uomo, per i fratelli che soffrono.
Sarà la prova decisiva che la nostra bontà non è ipocrisia.
19. Intervento alla Conferenza operaia
della Valdicecina (2 febbraio 1974)[2]
Condivido
pienamente l’analisi sulle difficoltà che presenta attualmente la situazione
italiana. Siamo investiti dalla crisi monetaria, energetica, economica e
politica e i lavoratori ed i ceti meno abbienti sono in prima fila a sopportare
i colpi della recessione, delle restrinzioni economiche, della fluttuazione
delle monete, di una inflazione che riduce ogni giorno il potere di acquisto
dei salari.
Sono state analizzate, giustamente a mio avviso, le
ragioni di questa crisi. Essa deriva storicamente dalla gestione capitalistica
dello Stato, le cui conseguenze più vistose sono quelle degli squilibri tra
Nord e Sud, città e campagna, tra poli di sviluppo ed aree depresse. Deriva
anche dal ruolo subalterno che l’Italia ha nei confronti degli Usa e delle
imprese multinazionali. In questa crisi, che non è crisi congiunturale, ma del
sistema, ci sono contraddizioni positive e grandi pericoli.
Da un lato grandi masse di lavoratori e di popolo
manifestano con ampie lotte, a vari livelli, l’ansia di rinnovamento e
l’esigenza di sbocchi politici avanzati; dall’altro, ci sono masse di
sottoproletariato agricolo e urbano del Mezzogiorno, strati di ceto medio, di
borghesia minuta, di piccoli proprietari agricoli e risparmiatori che,
disorientate, alimentano spinte reazionarie, incoraggiate dalle posizioni
sostanzialmente antioperaie che la Dc, sotto varie forme di governo, ha attuato
dal 1948 ad oggi e di cui il governo Andreotti-Malagodi ha segnato uno dei
limiti più negativi.
Sappiamo bene che si deve alla lotta dei lavoratori,
all’impegno del Pci, la caduta di questo Governo e la ripresa di una
collaborazione tra Psi e Dc per la formazione di un nuovo centro-sinistra che,
sul piano dell’antifascismo ha offerto molti elementi positivi anche se si
avverte l’insufficienza ad affrontare e risolvere i mali profondi del nostro
Paese. Sin dall’avvio del nuovo centro-sinistra abbiamo incalzato su tutti i
terreni il Governo perché lo abbiamo ritenuto inadeguato a fronteggiare la
crisi italiana, a fare una politica popolare, ad avviare le grandi riforme di
struttura, a favorire la piena occupazione, a migliorare le condizioni dei
pensionati, delle donne, a rilanciare l’agricoltura, a debellare il fascismo
ovunque esso si annidi e in particolar modo a democraticizzare i corpi separati
dello Stato (Forze armate, magistratura, polizia, carabinieri ecc.), a
sviluppare la democrazia in una visione di autonomia internazionale.
In questo quadro, e forti dell’insegnamento che offre la
vicenda del Cile, penso debba essere collocata l’azione del Pci e il rilancio
della sua proposta politica nota con il nome di “compromesso storico” e
definita compiutamente da Enrico Berlinguer nei tre articoli pubblicati su “Rinascita”.
Essa è originata dalla convinzione che per uscire dalla grave crisi e per
modificare il sistema capitalistico italiano, non sarebbe sufficiente
raccogliere il 51% intorno ad una maggioranza di sinistra e che l’unica
possibilità è un incontro tra le forze comuniste, socialiste e cattoliche per
assicuare il largo consenso necessario ad una trasformazione della società,
anche solo in una prospettiva democratica, non socialista. La classe dominante
ha tentato varie strade per spaccare frontalmente il movimento operaio ed emarginare
il Pci (unificazione Psi-Psdi, formazione del centro-sinistra), ma senza
successo. Di fronte a questi fallimenti, e alla pericolosità per la Dc di
riproporre la contrapposizione frontale (Andreotti) deriva per questo partito
una crisi di prospettiva e per l’Italia un incombente pericolo di scissione
nazionale. Credo che si possa uscire da questa crisi non ripercorrendo le
strade del passato, ma soltanto attraverso l’aggregazione di forze democratiche
e popolari trasversali a tutti i partiti italiani. Credo perciò, avendo
presente questa premessa generale, sia opportuno esaminare la politica del
Partito rispetto al “movimento” ed il suo andamento attuale, le sue finalità e
il ruolo originale e decisivo che dovrà assolvere la classe operaia.
Già nelle tesi preparatorie della VI Conferenza operaia
si analizzano approfonditamente i cambiamenti che dal 1968 ad oggi sono emersi
nella strategia rivendicativa della classe operaia, strategia sempre più
ugualitaria, estesa ai problemi esterni alla fabbrica, legata alle riforme
strutturali ed al problema della occupazione, investimenti, prezzi,
Mezzogiorno. Dalla fabbrica sono emersi, parallelamente a questa nuova
strategia, strumenti nuovi di potere operaio (i Consigli Unitari dei Delegati)
e dalla fabbrica essi si sono moltiplicati nei Consigli d’Azienda (Cda) e nei
Consigli di Zona (Cdz), in quella costruzione organica di strumenti
organizzativi ai quali anche Gramsci lavorò instancabilmente nel 1919-1920 e in
mancanza dei quali la presa del potere rivoluzionario fu impedita in Italia,
gli operai accerchiati dentro le fabbriche, isolati, sconfitti.
Oggi occorre dunque costruire estese forme di potere
democratico, allargare le esperienze dei Cud, dei Cda e dei Cdz nelle città,
nelle campagne, nella scuola, partendo dalle tematiche attualissime del
carovita, dei consumi sociali, del modello di sviluppo, per realizzare un
raccordo indispensabile tra lotte sociali, Assemblee elettive, sulla
costruzione del quale, come ricordava Ingrao, siamo in notevole ritardo.
All’ultimo
direttivo nazionale della Cgil, e se ne parla in questi giorni nella Cisl e
nella Uil nell’imminenza del direttivo della Federazione previsto per il 12
febbraio, è venuto alla luce il problema dello sciopero generale. Esso esprime
chiaramente il giudizio negativo delle grandi Organizzazioni sindacali
sull’attuale governo e viene proclamato per dare uno sbocco positivo ai temi economici e sociali. Pur ritenendo lo
sciopero generale, in questo momento, necessario ed importante, credo che la
nostra attenzione debba essere posta sulle vertenze regionali e comprensoriali,
le quali negli ultimi tempi hanno assunto il carattere di “sciopero polverone”
a sostegno di investimenti generici, senza alcuna articolazione di obiettivi e
di controparti.
Mi sembra sia stato anche detto, ritengo troppo
frettolosamente, che una vertenza generalizzata per l’aumento dei salari,
nonostante l’erosione che gli stessi hanno subito e subiscono sotto l’incalzare
frenetico del costo della vita, sia oggi improponibile per non dare ancora
l’alibi a più estesi e profondi aumenti che ricadrebbero interamente e
drammaticamente sulle condizioni di vita dei ceti operai e sociali meno
abbienti. Eppure anche su questo terreno, respingendo la politica dei due tempi
di La Malfa (ripresa produttiva – riforme), la classe operaia sarà costretta a
un duro scontro come unica alternativa
alla politica padronale e governativa proprio in assenza di un processo
rapido di avvio delle riforme sociali.
La creazione e
l’estensione degli strumenti unitari, soprattutto all’interno delle grandi
aziende (Cud, Cdf, Cdz), l’istituzione in ogni categoria della Federazione unitaria
tra le tre Confederazioni Cgil, Cisl, Uil, i congressi dei sindacati tenuti nel
1973, hanno riproposto i temi dell’unità organica tra i lavoratori a tempi
brevi.
In questi giorni la Cgil ha dato prova della volontà
unitaria superando i problemi pregiudiziali della incompatibilità politica ed
elettiva a tutti i livelli e la collocazione internazionale di fronte alla Fsm
passando dalla affiliazione all’associazione. E’ questo un prezzo alto che
viene pagato nella convinzione di accelerare i tempi dell’unità. Man mano che
questi tempi si fanno più vicini vengono allo scoperto le forze antiunitarie, forze della destra Cisl
(tra le quali trova collocazione il Segretario nazionale della Flaei-Cisl,
Sironi), già battute al congresso nazionale insieme a Scalia (nonché dirigenti
socialdemocratici della Uil), tentando di colpire l’intero movimento e
riproponendo per il sindacato il ruolo di “consigliere del Governo”. Si rifiuta
quindi nettamente ogni iniziativa di lotta e si respinge la possibilità di far
compiere all’unità sindacale nuovi e decisivi passi in avanti.
Le decisioni della Cgil, facendo cadere gli ultimi
artificiosi pretesti ideologici e, soprattutto, la volontà di lotta dei
lavoratori, ribadita dallo sciopero del 25 gennaio alla Fiat, e dalle grandi
vertenze Alfa, Italsider, Pirelli, Montedison, contribuiscono ad isolare e
battere nel clima della lotta unitaria le posizioni subordinate delle forze che
all’interno di Cisl e Uil portano avanti il disegno della spaccatura dei
lavoratori nel tentativo di riportarci indietro nel tempo e nella storia.
Si è fatta strada oggi tra i lavoratori, i tecnici,
gli impiegati, la convinzione che la migliore risposta alle minacce
all’occupazione, all’attacco ai salari, al tenore di vita, sia quella
dell’azione per conquistare obiettivi indirizzati verso profondi cambiamenti
nei meccanismi dello sviluppo.
Ci sono da parte dei padroni pubblici e privati posizioni
negative verso le piattaforme rivendicative attualmente sul tappeto. Queste
posizioni chiariscono e smentiscono la pretesa volontà del padronato di
cambiare modello di sviluppo. Il padronato respinge le richieste dei lavoratori
proprio perché vuole portare avanti la vecchia strategia dell’intensificazione
dello sfruttamento, della disoccupazione e della sottoccupazione, dei bassi
salari, degli investimenti in aree ristrette e privilegiate. Quando poniamo il
problema di un nuovo meccanismo di sviluppo dobbiamo affrontare anche quello,
ad esso legato, di un nuovo tipo di società.
E’ indubbio che il sistema capitalistico, quale si è
costituito nel nostro paese, non può sopportare riforme strutturali che ne
alterino l’essenza, senza esso stesso entrare in crisi. Se è vero che la
prospettiva del socialismo acquista nuova concretezza e credibilità, è anche
vero che manca ancora un serio impegno di aggregazione da parte del Partito
verso tutte quelle forze che rifiutano la società capitalistica, partendo in
primo luogo dalla fabbrica con iniziative reali per far avanzare il processo di
unità politica dei lavoratori.
Quindi non accordi di governo o di potere a due, tra Dc
e Pci, come strumentalmente è stato detto, ma incontro con le masse socialiste
e cattoliche affinché anche nella Dc vengano isolate e battute le tendenze
finora dominanti di marca conservatrice e reazionaria e si affermi sempre più
il peso della sua componente popolare e delle sue energie e tradizioni
democratiche e antifasciste, senza chiuderci in una rinuncia settaria che non
farebbe altro che riproporre la spaccatura del paese, con conseguente scontro
frontale e con il pericolo di innestare un movimento controrivoluzionario, come
testimonia lo scontro in atto sul referendum per il divorzio.
Mi pare utile ribadire che il tema di fondo rimane il
superamento della divisione politica tra i lavoratori, l’approfondimento del
ruolo dei ceti medi,la collocazione delle rivendicazioni dello specifico
femminile e della scuola, all’interno
dell’azione del Partito.
Adesso qualcosa sulla Valdicecina e sulla fabbrica.
Ritengo giuste le analisi fatte dal Partito nella recente Conferenza operaia,
sulla origine della crisi che ha investito la Valdicecina. La crisi è collegata
al tipo di sviluppo capitalistico italiano che, come abbiamo visto, si è basato
sull’accentramento industriale in aree privilegiate e sulla accelerazione di
spopolamento delle campagne per costituire riserve proletarie di forza lavoro
disponibili a buon mercato. Da noi emergono anche altri aspetti significativi:
la subordinazione delle imprese pubbliche ai monopoli privati con il
conseguente emarginamento delle originali e competitive produzioni elettriche e
chimiche e la carenza di un piano di investimenti nei settori della ricerca (Cnr,
Università, Cnen) e delle tecnologie produttive avanzate, perdurando una
sudditanza in questo campo decisivo ai grandi monopoli internazionali.
A questa politica la Valdicecina ha pagato in termini
di emigrazione, di mancato sviluppo industriale e agricolo, di carenti
infrastrutture, un prezzo altissimo.
Con fasi alterne si è sviluppato da sempre un
movimento di massa e di lotta per contrastare questi indirizzi. A tale
movimento il Partito ha dato il suo contributo determinante, ma tuttavia, la
divisione fra le forze politiche, anche coi socialisti, la configurazione di
una Dc per lunghi anni su posizioni totalmente subordinate alle linee
padronali, la presenza di una classe operaia “privilegiata”, per salari e
stipendi più alti e diritti normativi più estesi, rispetto alle altre categorie
di lavoratori del territorio, e le persistenti divisioni tra le oo.ss., spesso
su posizioni corporative, hanno impedito di creare un vasto e permanente
movimento di lotta capace di incidere veramente sulle scelte del Governo e
delle Aziende pubbliche della Valdicecina.
E’ dal 1969 che
viene avanti, pur tra innumerevoli difficoltà, la coscienza che per favorire un
cambiamento profondo occorrano l’unità sindacale e una unitaria volontà di
lotta che veda protagonisti i lavoratori, i sindacati, i partiti politici, gli
studenti, gli Enti locali e la Regione Toscana.
Gli scioperi del 1969, i convegni, gli interventi
della Regioni, hanno consentito di giungere al grande sciopero generale del
marzo 1972. E quella lotta ha conseguito un primo importante risultato:
sbloccare le assunzioni, permettere l’ingresso all’Enel di 190 giovani
lavoratori, creare favorevoli condizioni per assunzioni all’Eni ed alla Salina
di Stato, impedire lo smantellamento dell’Idrill di Saline e il suo trasferimento
a Bologna.
A questi importanti risultati non ha fatto seguito
però uno sviluppo produttivo che, specialmente nel settore energetico, era
possibile compiere immediatamente, dando così un contributo importante alle
carenze energetiche della Toscana. Il giudizio che da più parti viene formulato
mette in evidenza che, ad esempio, in mancanza di uno sviluppo produttivo che
abbracci sia il campo della ricerca che dello sfruttamento delle forze
geotermiche, si metterà tra breve in discussione, nella più grande industria
della zona, anche il livello occupazionale duramente conquistato, con minori
possibilità di fronteggiare un ridimensionamento dello stesso per il fatto che
i trasferimenti (non i licenziamenti) saranno incoraggiati con tutti i mezzi ed
i giovani, perdurando le condizioni di crisi e di arretratezza di tutte le
strutture socio-culturali della Valdicecina, saranno disponibili a spostarsi in
altre località ove esistono impianti di produzione (Livorno, Piombino).
Ritengo che è pertanto sul tema dello sviluppo
produttivo, degli investimenti nella ricerca, nella programmazione, che devono
essere concentrati i nostri sforzi e la nostra attenzione.
Sia a livello di fabbrica che di territorio, per
quanto concerne le Organizzazioni sindacali, sia per altri organismi elettivi,
siamo in presenza di condizioni mutate rispetto al passato. A livello di
comprensorio, l’insediamento della Comunità Montana dell’Alta Valdicecina, con
la partecipazione piena e diretta di Pci-Psi-Dc, è un fatto estremamente
positivo. Già uno dei primi atti unitari di questo Ente sulla crisi energetica
e la proposta politica e pratica per le forze geotermiche, è significativo. Il
26 gennaio si è inoltre costituito il Consiglio di Zona che vede rappresentate
le Organizzazioni sindacali, di tutte le categorie. Anche se qualche
perplessità si può nutrire per come è avvenuto il suo insediamento, senza un
dibattito preliminare tra i lavoratori, e pur sapendo che al suo interno
operano forze che non sono unitarie, o che non lo sono in modo adeguato,
riteniamo lo strumento positivo e dobbiamo, come comunisti, dedicargli molto
impegno e lavoro.
Così nella nostra fabbrica, l’Enel-Larderello, in
condizioni difficili, a tutti note, viene lentamente maturando la condizione
per una collocazione diversa della Flaei-Cisl che, forte dei suoi 700 iscritti,
ha fin qui condizionato tutto il movimento su basi moderate. Il rinnovamento
dei quadri all’interno della Fidae-Cgil ha ridato maggiore credibilità al
sindacato che ha conseguito un notevole balzo in avanti nel reclutamento, con
oltre 140 nuovi iscritti dal 1 gennaio 1973 al 31 maggio 1974. Il processo
unitario è in questa fabbrica all’inizio. Esso dovrà a mio avviso passare
attraverso il decentramento del potere al Cud, attraverso l’esplodere di contrasti
dentro la Flaei-Cisl, attraverso un suo ridimensionamento organizzativo, ma
anche su un ruolo sempre più aperto, attivo, democratico della Fidae-Cgil e
quindi su una partecipazione diretta dei comunisti, a tutti i livelli, alla
vita della fabbrica.
Nelle assemblee preparatorie della Conferenza del Pci
degli operai delle fabbriche fu rilevato che spesso il comunista, impegnato
magari attivamente come amministratore o con cariche di partito, o in
organizzazioni di massa, non svolge attività politica dentro la fabbrica, come
se questo terreno non fosse di sua competenza. E’ stato anche giustamente
rilevato che i quadri comunisti presenti in fabbrica (sindaci, assessori,
segretari di sezione, consiglieri comunali o di circoli e cooperative, membri
di Comitati direttivi) sono disponibili in un numero notevole, ma che a livello
di fabbrica, dei Cud, dell’attività sindacale, delle Assemblee generali dei
lavoratori, tranne qualche eccezione, la loro presenza è inesistente.
E’ questo un elemento molto importante perché proprio
per i compiti urgenti e nuovi che siamo chiamati ad assolvere e per l’unità
politica dei lavoratori, è invece indispensabile a livello di fabbrica,
disporre di una organizzazione forte ed efficiente del Pci. In una parola
occorre a mio avviso oggi riconsiderare la funzione del Partito e privilegiarlo
dentro la fabbrica, ricostituire i nuclei comunisti sui luoghi di lavoro, da
noi molto decentrati, le cellule operaie nell’ambito delle sezioni
territoriali, fino ad arrivare alla creazione di un organismo intersezionale
che operi a livello di fabbrica. Il terreno della fabbrica non può essere
gestito solo dalle Organizzazioni sindacali. Nelle rispettive autonomie lo
spazio che deve ricoprire il Partito è vasto e in primo luogo parte dall’esigenza
che esso è all’avanguardia nell’elaborazione di una linea politica di
prospettva strategica, offrendo in tal modo al sindacato importanti punti
d’appoggio; favorendo la costruzione
dell’unità e non ostacolandola, come spesso si sente dire.
Ma soprattutto è importante per quel balzo di qualità
che la classe operaia deve compiere per superare visioni ristrette, di
categoria, di determinati privilegi e legarsi ai problemi sociali nazionali e
di zona, per riaffermare la propria volontà alla trasformazione della società
in senso socialista. La ripresa della propaganda, partendo da forme molto
semplici, dal volantino, dal manifesto, dalla diffusione dell’Unità e della
nostra stampa non fatta saltuariamente in occasione delle elezioni, deve essere
l’occasione di una ripresa della nostra presenza a livello di fabbrica. Sembra
esista oggi un falso pudore, un senso d’impaccio, manifestarsi pubblicamente
per comunisti. Con i tempi che corrono lavorare nel sindacato è certamente più
facile. Senza sottovalutare il nostro impegno in tale organizzazione,
estremamente necessario, lo riteniamo tante volte come una posizione di comodo,
di fuga da un impegno che richiede, oltre al lavoro oscuro, sacrifici negli
orari, nell’imporci un modello di vita di elevati principi morali, nella
rinuncia a tanti elementi di egoismo e piccolo privilegio che invece sono un
po’ la norma per tanti di noi.
Questa riunione sarà quindi veramente importante se
riusciremo a tradurre con urgenza nella realtà delle fabbriche e dei nuclei
operai della Valdicecina le indicazioni programmatiche e organizzative
scaturite, se sapremo fare del nostro Partito, intorno ai suoi ideali, alle sue
scelte, un centro di aggregazione e di propulsione per tutto il movimento, se
sapremo ricostruire e rinnovare i quadri esistenti, anche con audacia nella
fiducia verso i giovani, costruire rapporti nuovi con i ceti medi, le donne,
gli impiegati, i tecnici, i contadini, gli studenti, tradurre cioè in politica
credibile, la funzione rivoluzionaria del Partito comunista italiano[3].
[1] mns., c., volantino a nome
Pci Sezione di Castelnuovo V.C. 24/12/1972.
[2] Vedi il saggio di Enrico
Berlinguer su “Rinascita” del 28 agosto 1973, “Riflessioni sull’Italia dopo i
fatti del Cile”.
[3] Il 16 gennaio 1974 si è
svolto a Larderello il Convegno Regionale dei comunisti toscani sul tema: “Per
una nuova politica di utilizzazione delle risorse geotermiche”.
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