lunedì 29 ottobre 2012


Libri editi ed inediti (news 3).



1) Ho vegliato le notti serene, Lucrezio tradotto da Enzio Cetrangolo, Sansoni Ed., Firenze,
    1990, pp. 118.

Magistrale traduzione (con testo latino a fronte) di brani dal De Rerum Natura di Lucrezio (Pompei, 98 a. C. – Roma, 55 a. C.?), in una operazione che riesce a espandere l’ansia del metro latino sul verso italiano, tanto che la fantasia del Poeta si ritrova fecondata in un allungamento spaziale senza termine, nel quale par di riudire la voce immortale di un classico.
           

2) Roy Lewis (Felixstowe, 1913 – 1996), Il più grande uomo scimmia del Pleistocene, romanzo, Mondadori, Milano, 1994, pp. 176.         

Si tratta di un libro di culto che vi cambierà la vita, in maniera sottile. E’ la vicenda del brillante ominide Edward che in un bel momento decide di abbandonare l’evoluzione naturale per passare a quella culturale. Detto fatto scopre il fuoco, poi decide di trasferirsi da una caverna fetida a una più lussuosa dove si possa “coltivare meglio l’intimità”, in seguito si impegna a “fondare” il matrimonio, a sterminare le altre specie, a creare la politica, la retorica, a sfruttare i brevetti delle scoperte e via architettando…fino a ridipingere tutto l’affascinante affresco dell’evoluzione tra le pagine di un romanzo intelligente, garbato e divertentissimo. Leggere per credere!

3) Giuseppe Viviani (San Giuliano Terme, 1898 – Pisa, 1965), Poesie scherzose di Maria Malagrazia, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, pp. 90, 1961, a cura di Vanni Scheiwiller, tir. 1000 copie numerate con 10 illustrazioni del pittore.

Attraverso la frequentazione del signor Belforte (alla fine degli anni ’50 del Novecento) titolare dell’omonima libreria in Via Grande a Livorno (oggi scomparsa) conobbi l’opera grafica e pittorica di Giuseppe Viviani, che, come un amore a prima vista, mi affascinò. Con le poche risorse economiche di cui disponevo acquistai due stupende opere litografiche (Uccelli rosa, La foce del Serchio), delle quali conservo  la prima, mentre con l’altra riuscii a fare un cambio con quella di un più titolato e amato Maestro del ‘900. In seguito ho raccolto una notevole bibliografia e cataloghi di Viviani, compresa una copia (la n. 742) della sua opera letteraria, questa segnalata. Opera che di “scherzoso” ha poco, essendo triste e accorata, polemica e fustigatrice di molti dei vizi italici che anticipavano la deriva morale d’oggi. Figura spigolosa e tenerissima, sognante e ispiratore di sogni, la tengo tra le più care.

4) William Blacker, Lungo la via incantata,  Viaggi in Transilvania, Adelphi , Milano, 2012, pp. 340.

Apparso in inglese nel 2009 con il più appropriato titolo “Along the Enchanted  Way. A Story of Love and Life in Romania”, è il primo libro di Blacker. William Blacker viene da una famiglia anglo-irlandese, ma ha trascorso buona parte degli ultimi suoi venti anni un Transilvania e nel Maramures. Vive ora fra Inghilterra, Romania e Toscana. E’ la cronaca di un viaggio, di un amore, di un giovane antropologo, libro bellissimo, specie di romanzo vero, che ti prende e ti possiede man mano che ti inoltri nei ventitre capitoli che lo scandiscono. L’ho letto in diciotto giorni tra maggio e giugno di quest’anno durante una degenza in ospedale e il successivo periodo di convalescenza nella casa di mia figlia, a Siena. Mi ha fatto rivivere un più modesto viaggio di 6400 Km., effettuato nell’estate 1981, con moglie e due figlie, con una Fiat 127, che aveva al suo attivo già 61611 chilometri, attraverso la Romania e, soprattutto, con i soggiorni più lunghi ed interessanti, nelle regioni attraversate da William più di vent’anni dopo, specialmente nel Maramures e nella Bucovina. Un viaggio, anche il nostro, eccezionale per gli eventi accaduti, i personaggi incontrati,  i problemi di cibo, alloggio, illuminazione, rifornimenti di carburante, viabilità…in pieno regime comunista di Ceaucescu, in villaggi poverissimi, praticamente tagliati fuori dal mondo civilizzato, dal quale provenivamo. Ed ora, grazie a William, di riscoprire e…di rimpiangere. Fu in quell’occasione che composi la poesia “Là dove il Danubio scorre maestoso…, che mi attirò elogi da parte di amici democristiani e perplessità e ostracismo da parte di compagni comunisti.  Quest’ultimi non mi turbarono più di tanto, avendo ormai, fin dai tempi precedenti la “primavera di Praga”, preso le distanze da quei regimi dittatoriali e polizieschi che nulla avevano a che fare con la mia concezione di democrazia e socialismo.

5) PACEM IN TERRIS, Lettera enciclica della Santità di Nostro Signore Giovanni per Divina Provvidenza Papa XXIII, Roma, 11 aprile 1963. Versione italiana pubblicata sull’Osservatore Romano in detto giorno.

Comprai il testo dell’enciclica Pacem in terris a Roma nel maggio 1964, in occasione del “viaggio di nozze”. Mi ero sposato, con “rito civile”, il 27 aprile di quell’anno. Eravamo laici, “battezzati non credenti”. Io c’ero arrivato attraverso un originale percorso “ideologico” ed in parte perché respinto dall’oscurantismo cattolico in quanto appartenente al Partito Comunista, e perciò scomunicato. In più avevo dentro di me il rancore per problemi familiari: i miei genitori si erano “separati legalmente” quando avevo l’età di 5 anni (e mia sorella di 2), successivamente mia madre s’era “accompagnata” con un altro uomo dal quale aveva avuto altri tre figli. Naturalmente il “divorzio” non esisteva ancora, era considerato un’opera del diavolo, e i figli portavano il cognome del “marito”, cioè il mio e di mio padre. Da ciò derivava una complicata situazione, su molti piani, per fortuna risolta sempre pacificamente tra persone buone, intelligenti e ragionevoli. Ma quando salì al soglio pontificio Giovanni Roncalli avvertii subito alzarsi un “vento nuovo”. La sua evidente “umanità”, amore per la pace e per “tutti gli uomini di buona volontà” fu manifesta fin dalle encicliche Ad Petri Cathedram e Mater et Magistra e poi dalla sua immensa opera, il Concilo Ecumenico, una grande opera di pace.  Perciò la Pacem in terris non è quindi una fugace apparizione, ma il consolidamento ed il proseguo di una percorso, il vertice umano e dottrinale del suo breve, ma rivoluzionario, pontificato. Con emozione mi soffermai a meditare sulla Parte III, “Disarmo”, paragrafi 109-119 e sulla parte IV, Rapporti degli esseri umani e delle comunità politiche con la comunità mondiale”,  nonché, sulla parte V, “Richiami pastorali”, in particolare sui paragrafi 158 e 159: praticamente mi sentii assolto dalla scomunica! Infatti si annunciava “…che la Chiesa non dovrà mai confondere l’errore con l’errante, anche quando trattisi di errore o di conoscenza inadeguata della verità in campo morale-religioso. L’errante è sempre ed anzitutto un essere umano e conserva in ogni caso la sua dignità di persona; e va sempre considerato e trattato come si conviene a tanta dignità. Inoltre in ogni essere umano non si spegne mai l’esigenza congenita alla sua natura, di spezzare gli schemi dell’errore per aprirsi alla conoscenza della verità. E l’azione di Dio in lui non viene mai meno. Per cui chi in un particolare momento della sua vita non ha chiarezza di fede, o aderisce ad opinioni erronee, può essere domani illuminato e credere alla verità. Gli incontri e le intese, nei vari settori dell’ordine temporale, fra credenti e quanti non credono o credono in modo non adeguato, perché aderiscono ad errori, possono essere occasione per scoprire la verità e per renderle omaggio”.

Novembre 2012, 50° Anniversario della apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II.

martedì 23 ottobre 2012

La buona poesia c’è ma è difficile da scovare.

E’ arcinoto che i poeti autentici siano pochi o, addirittura, pochissimi.  Nel nostro tempo, in quello passato e, molto probabilmente, in quello futuro, fino a quando le macchine pensanti e creative si sostituiranno alla mente umana, grazie agli sterminati, infiniti archivi dell’universo, della memoria e dei suoni delle parole. Sappiamo anche che ogni uomo è “poeta” e che la poesia aleggia intorno a noi, non si esaurisce con  i testi affioranti nei magri spazi concessi dalle librerie globalizzate,  né con quelli pubblicati da migliaia di sconosciuti, a proprie spese, da editori senza alcuna distribuzione (testi né migliori, ma anche né peggiori, di quelli degli autori ormai inseriti nella giostrina normalizzata della cultura accademica), se non nella cerchia di familiari e  amici. Mi domando spesso se le cose che annoto e scrivo, stendendo sulla carta la lunghezza dei righi in modo somigliante a quello di conclamati poeti, sia o no poesia oppure solo confusi segni a riempire spazio bianco e vuoto interiore. Ed anche un “diario” dell’anima, un ponticello fragilissimo fatto di carta e d’inchiostro, capace di collegare il presente con il futuro, lo spazio ed il tempo senza di me, là, dove vivranno i miei nipoti e pronipoti, per  illuminare, in parte, le loro memorie remote e le loro radici. Non mi preoccupo quindi più di tanto, di non affrontare tematiche “alte”, dei “massimi sistemi”, “epiche” o “didattiche”,  ma di rimanere saldamente ancorato a me stesso in uno sdoppiamento che ha costituito il tratto più significativo della lunga mia vita,  l’avere accanto, di giorno e di notte,  all’io materiale, l’io sognante e veggente del poeta. Prendo lo spunto dai versi danteschi per riassumere il mio incessante lavoro: I’ mi son un che, quando Amor mi spira,/noto, e a quel modo ch’a’  ditta dentro vo significando. Solitario canto per una gioia futura, e mi consolo con la musica che m’arriva da passati millenni:

La mela rosseggia sopra la cima d’un ramo,
in alto sulla vetta più alta , dove i coglitori la dimenticarono,
ma non la dimenticarono, non poterono arrivarci.

sabato 20 ottobre 2012


“Bendonde”.

Ieri mattina ho portato la mia gatta “Cirilla”, nata  marzo 1999, ad una visita medica dalla sua dottoressa a Saline di Volterra. Quando sono arrivato c’era soltanto un cliente con il cane, già dentro. Dopo di me è arrivato un uomo con un gatto anziano. Si pensava di far presto, ma in realtà l’uomo con il cane ne aveva molti, tutti da vaccinare, dato che ormai siamo prossimi all’apertura della caccia al cinghiale, fissata al 1 novembre. Io e l’uomo del gatto anziano abbiamo cominciato la solita conversazione tipica delle sale d’aspetto…dapprima sui nostri gatti, poi sulla bella stagione che quest’anno sembra non aver fine, infine dei nostri paesi, io Castelnuovo e lui Volterra, e, in rapida successione dei cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni, del nostro antico lavoro, per approdare ai tipi caratteristici che oggi non esistono più o sono in rapida estinzione. A questo proposito m’ha raccontato di aver conosciuto un vecchio alabastraio che aveva bottega vicino a Porta San Francesco, un certo “Bendonde” (a Volterra tutti avevano un soprannome”), la cui caratteristica era quella di pronunciare sentenze brevissime e acutissime, alcune delle quali passate alla “storia”. Dunque, la storia è stata pressappoco questa: “…nella chiesa di San Francesco, quella della famosa Cappella della Santa Croce, c’è una Madonna veneratissima dal popolo volterrano, la Madonna di San Sebastiano, opera di un pittore locale del Quattrocento, che una volta all’anno veniva portata in città con una importante processione. Due pie donne del Comitato dei festeggiamenti erano incaricate di far questua tra tutte le famiglie e gli artigiani che avevano bottega nel rione di San Felice, nei pressi della chiesa di San Francesco. Giunte alla bottega di “Bendonde”, al secolo Revo Michelotti,  le due signore gli chiesero l’offerta al che, l’interessato, facendo finta di non sapere, chiese il motivo della richiesta. “Fra poco è la festa della Madonna di San Sebastiano e dobbiamo portarla fuori…in processione…” “Bendonde”, come quasi tutti gli alabastri era molto laico, se non anarchico, ed anche questa volta espresse il detto fulmineo: “Care signore, io quando so’ diaccio…sto a casa!” E detto ciò rientrò in bottega lasciandole con un palmo di naso! Anche da noi, quando siamo rimasti proprio al verde, senza un quattrino, si dice “Siamo diacci”, cioè non possiamo nemmeno uscire di casa a prendere un caffè…
La sera medesima, ho preso un libro per leggere qualche pagina prima di addormentarmi, uno uscito alla fine del 2011, contenente storie, storielle e storiacce di Volterra, raccolte da Paolo Ferrini, mio carissimo amico morto qualche mese fa, uomo di grande cultura e di specchiata onestà, molto famoso non solo nella sua città, ma in ben più vasti ambienti culturali toscani e italiani, che prima di morire  ricopriva la carica di “Consolo” (ossia Presidente) della ultracentenaria istituzione volterrana “Accademia dei Sepolti”. Ebbene a pagina 43 cosa ho trovato?  Un breve ritratto di “Bendonde” e del suo famoso detto! Una curiosa coincidenza, essere stato per decenni all’oscuro di questo personaggio e aneddoto, e, improvvisamente, nello stesso giorno ascoltarne il racconto dalla viva voce di un suo concittadino e leggere poi l’episodio sulle pagine di un libro, scritto da un amico.

giovedì 11 ottobre 2012


Mancanza di prove...

Anche se non predichiamo "la vendetta", ma "la giustizia" e sappiamo che "i crimini contro l'umanità non verranno mai cancellati dalla storia" (e nemmeno dal Supremo Tribunale dell'Altissimo), la sentenza del Tribunale di Stoccarda, ci indigna e ci offende.

L’A.N.P.I. (Associazione Partigiani) di Volterra esprime tutto il proprio sdegno per la scandalosa sentenza di archiviazione per gli otto ufficiali tedeschi autori dell’eccidio di Sant’Anna di Stazzema. Non c'è giustizia per le 560 vittime innocenti dell'infame eccidio di Sant'Anna. Il tribunale di Stoccarda ha infatti deciso che non ci sono prove documentali sufficienti per processare i nazisti (tutti ancora in vita) accusati di aver preso parte alla strage. Finiscono così le speranze di giudicare gli accusati di una delle pagine più crudeli dell'occupazione nazista in provincia di Lucca ed in Italia. Non poteva essere altrimenti d'altra parte dopo decenni in cui le ragioni politiche hanno preso il sopravvento sulla volontà di punire i colpevoli non di azioni di guerriglia, ma di una vera e propria strage gratuita di innocenti. Nel comunicato stampa della procura di Stoccarda, che ha deciso di non procedere con la richiesta di imputazione, si legge che «dalle indagini, condotte in maniera ampia ed estremamente approfondita insieme all'ufficio criminale del Baden-Wuertemberg, è emerso che non è possibile dimostrare una partecipazione dei 17 indiziati - in particolare degli otto ancora in vita - agli avvenimenti del 12 agosto 1944 nel paese di S. Anna di Stazzema punibile con una pena che non sarebbe prescritta». Per i procuratori tedeschi decisiva, è scritto ancora nel comunicato, è stata l'impossibilità di dimostrare che il massacro di 560 persone, tra cui «almeno 107 bambini», compiuto dai 17 militari della divisione di granatieri corazzati "Reichsfuehrer SS" sia stato programmato sin dall'inizio come «un'azione di sterminio contro la popolazione civile».
Secondo le indagini svolte dalla procura è anche possibile che «obiettivo dell'azione militare originariamente fosse la lotta contro i partigiani e la cattura di uomini abili al lavoro per una deportazione in Germania e che l'uccisione della popolazione civile sia stata comandata solo quando si era reso chiaro che quell'obiettivo non poteva essere raggiunto».
La sola appartenenza alla divisione protagonista del massacro per i procuratori tedeschi non è sufficiente: per ciascuno degli indagati si sarebbe dovuto poter «dimostrare una responsabilità individuale», cosa «non riuscita».
L'inchiesta riguardava un gruppo di appartenenti alle SS già condannati in Italia. «Mi sento di assicurare ai sopravvissuti e ai parenti delle vittime che la procura di Stoccarda ha fatto tutto il possibile» per chiarire le responsabilità dei militari della Reichsfuehrer ss nel massacro di Sant'Anna di Stazzema, ha detto all'agenzia Ansa la procuratrice capo di Stoccarda Claudia Krauth, che ha coordinato le indagini. «Anche qui sentiamo il peso della nostra responsabilità» e «abbiamo investigato con grande interesse e impegno», ha aggiunto.
Enrico Pieri, uno dei superstiti della strage, non riesce a darsi una spiegazione per la decisione dei giudici tedeschi. «Non ci credo, che abbiano deciso una cosa del genere, non è possibile, è un’offesa per tutte le 560 vittime e tra queste, bambini e donne innocenti, non si può accettare un verdetto del genere». «In questo caso si disconosce anche il lavoro di un tribunale militare italiano che nel corso degli anni ha svolto un lavoro importante su quanto accaduto - dice il sindaco di Stazzema, Michele Silicani -. Quello che mi lascia interdetto è che tra i gerarchi delle ex SS tedesche c'è anche un reo confesso che ha dichiarato che ha considerato donne e bambini, come fossero alla pari degli adulti e che si è reso responsabile di questo crimine di guerra. Sono stati discolpati i soldati, ma gli ufficiali e i sottufficiali sono ritenuti responsabili di quanto accaduto quel lontano agosto. È una notizia che ci ha profondamente offesi e addolorati». Erano tutti donne, bambini e vecchi inermi a Sant'Anna di Stazzema quel 12 agosto 1944 quando, guidata da collaborazionisti fascisti, una colonna nazista in assetto da guerra si recò in paese e scatenò l'inferno. Eppure di partigiani e di resistenza non v'era praticamente traccia, già sopraffatti nei giorni precedenti, e gli uomini erano già tutti fuggiti per il timore della 'decimazione' in seguito al bando di evacuazione. Nonostante il massacro fosse più un atto di violenza fine a se stessa che non una strategia nazista, si volle ugualmente insabbiare la vicenda fino al 1994, quando dall'armadio della vergogna della Procura Generale Militare di Roma saltarono fuori tra l'imbarazzo generale i fascicoli e prese quindi il via l'inevitabile processo che portò alla sentenza di ergastolo per tre gerarchi, confermata dalla Corte di Cassazione di Roma nel novembre 2007. Vittime innocenti la cui memoria è stata più volte calpestata, prima dimenticate, poi oltraggiate e date in pasto al grande pubblico dalla ricostruzione cinematografica di Spike Lee (che nonostante i contenuti ricevette le lodi delle autorità e perfino del Presidente della Repubblica Napolitano) adesso definitivamente consegnati alla storia senza la possibilità di sapere con certezza i nomi di chi ebbe il coraggio di cancellare l'intera popolazione di un paese per semplice frustrazione e vendetta.

domenica 7 ottobre 2012




Libri editi ed inediti (news 2).

1)    C. Lapucci, A.M. Antoni, I proverbi dei mesi,  pp. 336, Garzanti-Vallardi, Milano, 1985.

E’ l’ultimo libro di proverbi che ho recentemente acquistato a Siena, nella Libreria Ancilli (vedi, per il Catalogo:  www.libreria.ancilli.it), una delle pochissime librerie di libri vecchi di tutto il mondo che hanno resistito alla globalizzazione dell’editoria a Siena (non dimentichiamolo, città con una delle migliori Università italiane e,  quindi, con un alto numero di potenziali lettori), che ha visto negli ultimi dieci anni scomparire dal centro storico prestigiose librerie, impoverendo, di fatto, il tessuto culturale di un vasto territorio. Non perdo mai l’occasione di farci una capatina per spendere 10 o 15 €. Questo volume, veramente ben fatto da due specialisti, con i proverbi commentati e un indice finale, una prima edizione 1985,  ben conservato, era prezzato 13 € e l’ho pagato 11 €. Ci ho ritrovato la filastrocca che recitava mia suocera buonanima, religiosissima, passando in rassegna le feste del mese di dicembre, che in sua memoria, riproduco:

Al primo di dicembre Sant’Ansano;
il quattro, Santa Barbara beata;
il sei, San Niccolò che vien per via;
il sette, Sant’Ambrogio da Milano;
l’otto, la Concezione di Maria;
per il nove mi cheto;
il dieci, la Madonna di Loreto;
il dodici convien che digiuniamo
perché il tredici c’è Santa Lucia;
il ventun San Tommè la chiesa canta;
il venticinque vien la Pasqua Santa
e poi ci sono i Santi Innocentini;
alla fine di tutto, lesto lesto,
se ne vien San Silvestro.

2)    M. Bucciantini, M. Camerota, F. Giudice, Il telescopio di Galileo. Una        storia europea, pp. 322, Einaudi (PBE), Torino, 2012.

Il libro, già segnalato dal Sole24Ore, costa un po’caro (25 €), ma bisogna assolutamente comprarlo (o prenderlo in prestito in una Biblioteca) e leggerlo tutto di un fiato! E’ meraviglioso! Confesso di aver letto poco delle opere di Galileo, di Keplero e di Copernico, e la spinta emotiva me l’ha data un’opera teatrale, il “Galileo” di Bertolt Brecht che vidi nella magistrale interpretazione di Buazzelli al teatro Sistina di Roma nel 1964. Ma adesso devo leggere assolutamente il “Sidereus Nuncios”  di Galileo, ed anche la “Dissertatio cum Nuncio sidereo” di J. Keplero. Per cominciare! Non vi fate impaurire da questi temi e titoli altisonanti ed eruditi…il libro si legge facilmente e fin dalla prime pagine riesce ad avvincere il lettore. Parla di un delitto e, naturalmente, di Galileo, il suo autore, al quale tale delitto costerà molto caro. La vicenda si svolge tra l’autunno del 1608 ed il gennaio del 1610, “quando il cielo che si credeva di conoscere viene distrutto. Il cielo contemplato da Omero e Ovidio, da Aristotele e Tolomeo, da Dante e Tommaso d’Aquino, ad un certo punto non esiste più. Anzi, ed è questa la cosa davvero terribile, non è mai esistito…”.

3)    I. Calvino, Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio,
     pp. 132, Mondadori, (Oscar), Milano, 1993.

Testo celeberrimo, le ultime riflessioni del grande scrittore, lasciato incompiuto come edizione per la morte dell’autore nel 1985, non ha certo bisogno di esser commentato. E’ questo piccolo libricino degli Oscar che mi attrae: nella sua economicità, accuratezza, completezza. Con la presentazione di Esther Calvino, la dettagliata cronologia, l’essenziale bibliografia (per XLIII pagine), la nota bibliografica e l’indice dei nomi le 5 Lezioni tenute da Calvino all’Università di Harvard nel Massachusetts : “La leggerezza; La rapidità; L’esattezza; La visibilità; La molteplicità”, dovrebbero in realtà informare non soltanto l’attività degli scrittori, ma ogni gesto della nostra troppo sciatta, svagata esistenza.

4)    L. Paggini, Una gita lunga un giorno, pp. 160, Albatros, Roma, 2010. 

E’ il romanzo d’esordio di una scrittrice livornese, Laura Paggini, che, ne sono convinto, saprà farsi apprezzare ben oltre il limite “provinciale”. Un romanzo intenso, ben costruito, accurato sia nell’ambientazione che nell’introspezione psicologica dei personaggi,  nel quale predominano due sentimenti, rimpianto e speranza. Il rimpianto per la fine di un mondo infantile (ed anche di un epoca, come sempre accade), l’incontro con un grande dolore che le da la forza di dare una svolta totale alla sua vita, per approdare ad un grande amore. In questa eroica lotta la descrizione di angoscia e speranza si confronta con l’aridità che caratterizza il nostro tempo, le meschinità e le insufficienze che si incontrano in luoghi, dove la vita umana è trattata con superficialità e arroganza…Un libro positivo, una lettura coinvolgente, tenera e moderna, che si alza molto al di sopra del livello abituale degli “scrittori di professione”. Una scrittrice da seguire attentamente.

mercoledì 3 ottobre 2012


Sinalunga piange la scomparsa di Shlomo Venezia

Si è spento lunedì 1 ottobre, l’unico sopravvissuto italiano al lavoro nei Sonderkommando (“unità speciali”) durante la deportazione ad Auschwitz-Birkenau 
A questo instancabile ambasciatore della memoria della Shoah la città di Sinalunga conferì nel 2011, per la prima volta nella sua storia, la cittadinanza onoraria

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Il conferimento della cittadinanza di Sinalunga a Shlomo Venezia
Sinalunga piange la scomparsa di Shlomo Venezia
. Si è spento lunedì 1 ottobre l’unico sopravvissuto italiano al lavoro nei Sonderkommando (“unità speciali”) durante la deportazione ad Auschwitz-Birkenau. Proprio a questo instancabile ambasciatore della memoria della Shoah la città di Sinalunga conferì nel febbraio 2011, per la prima volta nella sua storia, la cittadinanza onoraria.

Ebreo italiano, Shlomo Venezia venne arrestato con la famiglia ad Atene verso la fine del marzo 1944 e successivamente deportato nel campo di sterminio di Auschwitz-Birkenau. Qui fu assegnato al “Sonderkommando”, una delle “unità speciali” composte da internati che si occupavano delle operazioni di smaltimento e cremazione dei corpi dei deportati uccisi con il gas. Tali squadre venivano periodicamente uccise per mantenere il segreto. Shlomo Venezia era uno dei pochi sopravvissuti - l'unico in Italia, una dozzina nel mondo - di queste speciali squadre e aveva raccontato questa drammatica esperienza nel libro “Sonderkommando Auschwitz”, pubblicato nell'ottobre 2007 a cura dell'editore Rizzoli e presentato anche a Sinalunga in occasione delle celebrazioni per la Giornata della Memoria, nello stesso giorno gli venne conferita la cittadinanza onoraria. Vivo e prezioso il ricordo di quel momento, quando Venezia condivise con i numerosi partecipanti la propria drammatica esperienza.

L’amministrazione di Sinalunga, l’assessorato alla Memoria e tutta la città di Sinalunga rivolgono le più sentite condoglianze alla moglie Marika, ai figli e ai familiari di Shlomo Venezia, di cui continueranno a portare avanti l’impegno per tenere viva nelle nuove generazioni la memoria di quell’orrore senza fine che è stata la Shoah, affinchè simili tragedie non si ripetano mai più.

Leopardi , il perpetuo canto.

In una recente e illuminante  introduzione ai “Canti” di Giacomo Leopardi, Mario Andrea Rigoni  si sofferma sulla visione materialistica che Leopardi aveva del mondo. Già nel 1821 Leopardi  scrive: “…la mente nostra non può non solamente conoscere, ma neppure concepire alcuna cosa oltre i limiti della materia”. Poco più tardi,  il poeta si pone una questione fondamentale. “Che cosa è dunque il mondo fuorchè NATURA?”, sulla quale riflette profondamente (Zibaldone di pensieri, pp. 1693-1694, 13 settembre 1821) affrontando il tema della poesia e della letteratura. “…Qualunque poesia o scrittura, o qualunque parte di esse esprime o collo stile o co’ sentimenti, formali o con ambedue un abbandono una noncuranza una specie di dimenticanza d’ogni cosa. E generalmente non v’ha  altro mezzo che questo ad esprimere la voluttà!” La poesia canta ciò che non esiste, ciò che è altrove, ciò che si colloca al di fuori del cerchio della terra o, comunque, della storia: i giorni primevi; la quiete inorganica; la “donna che non si trova”; il fanciullo; il selvaggio; la greggia ignara della noia; la beata, misteriosa indifferenza della luna. Illusione suprema, errore divino, è l’amore, che sembra capace di dischiudere, come la bellezza e la musica, “alto mistero/d’ignorati Elisi”: e Leopardi ne ha cantato il miracoloso potere in più luoghi della sua opera. Ma il vero e la noia (ossia il sentimento della vacuità universale) accompagnano come un’ombra funerea il sogno dell’evasione.

Canto ciò che si perde…

Nell’ombra già odorosa della sera
m’inoltro in una via senza ritorno;
miro la luna che impudica sale
tra due infelici astri, nello spazio chiaro.
Mi son compagni confusi pensieri
e onde, onde ancestrali e volti
e nomi, desideri carnali e baci
su caste labbra, fugaci immagini
d’occhi ridenti e neri.
La ragazza che incontro nel giardino
ha d’una Dea il sorriso, la voce
dolcissima d’un nascente amore.
Cosa canti, poeta, ora che il buio
ha inghiottito l’albore della tua cometa?
Canto ciò che si perde ed ho perduto:
il sacro fuoco, che imprudente
accesi già vecchio, il suo
ricordo, che ancor mi brucia.