domenica 22 marzo 2020






Ricordo di mia nonna paterna Enélida (1884-1974).

In questi giorni senza uscir di casa, ho approfittato di aprire vecchie scatole di fotografie, di sistemarne alcune centinaia in un album, e di riporne alcune, tra le più, per me, care. La mia passione per la fotografia me ne ha fatte scattare tantissime, tutte di qualità scadente, ma riviste a più di 60 anni di distanza esse son diventate un bene prezioso!

Ne metto due o tre scattate alla donna che mi aveva allevato, la mia nonna Enélida! Tra l'altro era sopravvissuta alla epidemia "Spagnola" che fece migliaia di vittime in Italia negli anni '20 e che lei mi ricordava sempre. Tuttavia questa gravissima epidemia non lasciò un'Italia più coesa e fraterna, ma da lì a poco si scatenerà la violenza del fascismo. Speriamo che almeno questo non accada quando finalmente usciremo dal tunnel del Corona Virus!

Parlando con Paolo
di mia nonna Enélida.

Da tempo son diventato nonno,
godo dell’amor che mi circonda
e mi consola, riportandomi 
alla ricerca di chi m’ha amato,
nonna Enélida, e che, lo spero,
dal Paradiso non m’avrà dimenticato.

La rivedo qualche volta lungo
le strade dei casolari lontani, 
dove s’andava a giornata
a rammendar le vesti dei mezzadri,
o lungo i viottoli del castagneto
a far fastelli di stecchi per il fuoco,
e d’autunno a raccattar  marroni
e ruspolar tra le ricciaie
che i padroni del bosco avean lasciato,
per un manciato di arrostite
e di castroni.
                    
Si beveva alle sorgenti e nei fossi
dicendo due versetti  a Gesù
per render l’acqua pura,
mentre calava la notte
e noi ciarlieri non avevam paura,
che già filtrava tra gli alberi
il tenue lucore della luna.

A casa nessuno avevam
che ci aspettava.

Ho dormito accanto alla nonna,
fino alla primavera del ‘64,
l’anno che mi sposai, e sempre
con premura le fui  di conforto.

Detta una preghierina al nonno morto,
le davo lo strofanto
per il cuor che si fingeva stanco,
poi  l’aiutavo  a metter  la ciambella
nell’utero abbassato, per un parto
doppio, al ritorno, dopo tanti anni,
del marito dall’America. 

Abbiamo scherzato e riso
tanto, insieme, per le parole strane
che diceva, in russo credo,
per aver servito una principessa 
slava sull’isola di un grande lago.
Non eran fiabe che mi raccontava, 
e fu felice quando con Grazia
ci siamo andati, trovando i luoghi
da lei mai dimenticati.

Di politica non s’intendeva,
ma era contenta che suo figlio,
Renzo, mio padre, ed io
si dichiarasse il nostro amore
al Partito Comunista;
amava l’Unità, la cronaca nera,
Vie Nuove, e per non sbagliar
nel voto, quando sulla scheda
si moltiplicaron le falci ed i martelli,
 per quel simbolo con la stellina
che splendeva.

Da  ottuagenaria ogni tanto ripensava
al suo unico amore,  
morto vent’anni prima, e gli parlava:
 “Dario, aspettami in Cielo, io qui sto’ bene
 ho la stufa, il frigo, il televisore,
 e una donna  bella e gentile
 mi viene  ad aiutare,
 non mi manca niente, credimi amore!”

Infine, a me  diceva:
“Carlo, se mi vedi in fin di vita
non chiamarmi il prete,
perché se lo vedessi entrare,
pur senz’essere ammalata,  
dallo spavento morirei!” 

Serena se ne andò, senza soffrire, 
vicina a me che la vegliavo.
Sembrava in coma, senza respiro,
mentre la mia figlia piccina
correva per la camera, sì che la sgridai!

E allora, inaspettatamente,
aprì si suoi occhi lacrimosi e chiari
dicendo le ultime parole:
“ non la leticar, non ho più male!”   

La mattina seguente venne il medico
ed io presente le scoprì il corpo
e  le sue gambe nude, bianche
e liscie,  si ch’egli mormorò:
“sembra una ragazzina!”


Aveva attraversato la vita,
non sempre facile, con la grazia
e l’innocenza di  una bambina.

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