sabato 28 marzo 2020





DECAMERON

Siamo nel 1348, quando a Firenze, come in altre nobilissime città italiane, “pervenne, ampliandosi, la mortifera pestilenza” che già era iniziata da alcuni anni in Oriente, tuttavia con differente maniera, deturpando i corpi con escrescenze e macchie livide o nere, che fu chiamata, appunto, “la peste nera”. Nessun consiglio di speziale o medicastro, né virtù di medicine, sembrava avesse profitto sul male. Il numero degli ammalati diventava grandissimo e solo pochi ne guarivano “anzi, quasi tutti infra il terzo giorno dell’apparizione dei segni della pestilenza, chi più tosto e chi meno, ed i più senza alcuna febbre o altro accidente, morivano”.

Il morbo si comunicava ai sani, attraverso il parlare ravvicinato, o toccandone i panni e gli stracci, o altra cosa del malato. Perciò nacquero diverse paure e immaginazioni in quelli che rimanevano vivi: in primo luogo “schifare e fuggire gli infermi e le loro cose”.  Altri si appartarono dentro la casa, altri, al contrario si dettero ai bagordi, a mangiare e bere ed altri sollazzi, anche della carne, andando di taverna in taverna e di postribolo in postribolo. Altri, invece ritennero di fuggire dai luoghi ove il morbo si manifestava, abbandonando le loro città, le proprie abitazioni, i loro parenti. Ma in ciò facendo infermandone molti altri in ogni luogo, che il male avevano addosso.

“E lasciamo stare che l’un cittadino l’altro schifasse, e nessun vicino avesse dell’altro cura, ed i parenti insieme rade volte o non mai si visitassero e di lontano…che l’un fratello l’altro abbandonava, ed il zio il nepote, e la sorella il fratello, e spesse volte le donne il suo marito…e li padri e le madri i figliuoli, quasi loro non fossero, di visitare e di servire schifavano”.

Ed i morti, in qualunque sepoltura disoccupata si trovasse, venivano gettati, senza l’amor  d’un pianto di commiato. E per difetto delle bare i corpi venivano stesi su una tavola. E messi due o tre per volta nella cassa. E tanti erano i morti che dietro al prete o chierico, quando c’erano, e senza altri a compiangerli, venivano seppelliti.  E non bastando la terra consacrata per tutti i cadaveri si facevano fosse grandissime nelle quali i morti si mettevano a centinaia. E così, tra marzo e luglio morirono a Firenze e suo contado oltre centomila creature umane.

Come sappiamo dagli storici, in Europa le morti assommarono a circa 20 milioni, cioè un terzo della intera popolazione di allora.

E’ in questo quadro terrificante che Boccaccio innesta il suo amore alla vita ed alla speranza attraverso un breve periodo felice tra sette ragazze e tre giovani, tutti tra i 20 ed i 25 anni, i quali, sotto l’abile regia di Pampinea, ritiratesi in una casa o villa delle campagna fiorentina, si impegnarono a narrare ognuno “una storia”ossia “una novella”, secondo i temi da loro stessi scelti e così nasce quel capolavoro immortale della lingua nostra che è il Decameron, cioè l’insieme delle cento novelle a consolazione della speranza, della solidarietà e dell’amore.

Ed ora lo ricomincio dalla prima novella: “Ser Cepparello, con una falsa confessione inganna un santo frate, e muorsi; ed essendo stato un pessimo uomo in vita, è, morto, reputato per santo e dichiarato san Ciappelletto”.

Lo spunto di riaprire dopo molti anni il Decameron pubblicato da Einaudi nel 1961 nei Millenni, me l’ha dato una trasmissione di VideoregistrazioniStudium dell’Università di Siena, ascoltando una fantastica docente Natascia Tonelli!

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