martedì 7 agosto 2018


Appendice a “Passioni, speranze, illusioni…”

 Comunicazione importante.

Con oggi termino l’inserimento degli scritti di “Passioni, speranze, illusioni…”, cioè delle vicende relative alla storia della grande “fabbrica” di Larderello (Pisa, Toscana, Italia) negli anni 1972-1985, il periodo che mi vide tra i protagonisti sindacali, da quando cioè fui eletto nella Segreteria della Fidae/Cgil (1972) a quando, eletto nel Consiglio Comunale di Castelnuovo di Val di Cecina (1985), rassegnai le dimissioni dagli incarichi sindacali per incompatibilità con cariche elettive amministrative. A chiusura posto sul blog alcune delle poesie relative alla Fabbrica Amica, nel ricordo dei meravigliosi compagni, maestri ed amici che mi guidarono in questi anni pieni di entusiasmo e di passione, ringraziando gli sconosciuti lettori che qualche volta si sono soffermati sul mio blog personale.

Lettera dei compagni della Segreteria Fnle-Cgil di Larderello (12 giugno 1985)

         Caro Carlo, come già sai, il nostro Comitato Direttivo di Larderello ha preso atto, seppure a malincuore, della tua precisa  volontà di dimetterti, a conseguenza del gravoso impegno assunto di recente nell’ambito della Amministrazione Comunale di Castelnuovo V.C. dopo le recenti elezioni del 12 maggio 1985.

         Non ti nascondiamo il nostro forte dispiacere, certamente condiviso dagli altri compagni, di dover rinunciare al tuo insostituibile contributo alle nostre discussioni del Comitato Direttivo, o alla Segreteria, o alla creazione del “giornalino”, o così via, che ha rappresentato, per noi dell’attuale generazione, una ferma garanzia di guida politica e di tranquillità operativa, anche dopo che hai lasciato la carica di Segretario Responsabile.

         Ora più che mai possiamo apprezzare la traccia indelebile che lasci con anni di impegno disinteressato (contributo non secondario alla crescita, in tutti i sensi, della nostra organizzazione), grazie anche alla tua fantasia, alla tua forte carica ideale e umana e ai rapporti di sincera amicizia (ai quali tieni molto e teniamo molto) che hai contribuito enormemente a creare fra i compagni e, spesso, fra le stesse nostre famiglie. Rapporti che, ovviamente, non mutano con il mutare delle circostanze.

         Questa nostra lettera non vuole essere un commiato, poiché non dubitiamo che muovendosi il tuo nuovo impegno nella stessa direzione ideale, ci ritroveremo spesso a fianco nelle lotte e sui problemi comuni. Essa va invece interpretata come un tentativo, modesto e certamente inadeguato, di fugare ogni eventuale, probabile, sensazione di indifferenza verso certi avvenimenti, la cui importanza è spesso sopraffatta dal rapido evolversi dei fatti che non lascia spazio alla riflessione.

         Siamo certi che quanto non siamo stati capaci di scrivere, saprai leggerlo ugualmente nell’animo di ognuno di noi: perciò non ci dilunghiamo oltre, anche per non sembrare patetici. Concludiamo quindi con un ringraziamento sincero per il ricco patrimonio che hai lasciato a noi ed alla nostra Organizzazione (ed a tutti i lavoratori di Larderello e della Zona), pregandoti di voler gradire il nostro fraterno saluto.
                                                                                                                                     Pacini Graziano.

Risposta ai compagni della Segreteria e del Comitato direttivo della Fnle-Cgil di Larderello (29 giugno 1985)


         Caro Graziano,cari compagni, volevo uscire dal Comitato Direttivo alla chetichella, senza commiati, elogi e auguri, ma voi mi avete scritto una lettera bellissima – che conserverò tra le cose più care – alla quale mi sento obbligato di rispondere. 

Tuttavia la risposta più significativa si può trovare nella poesia dedicata a tutti i compagni – “Per un amore inaspettato e forte” – e pubblicata sul nostro “giornalino”, la quale, benché riferita ad una donna, esprime bene anche i miei sentimenti verso il sindacato e verso tutti voi.

Rimettendo a posto le mie carte, articoli, relazioni, lettere...di questi dodici-quindici anni di attività sindacale ho ripercorso mentalmente i fatti più significativi della mia militanza cercando di cogliervi il senso più vero e caratterizzante: stare nel sindacato ha significato per me, essenzialmente, rendere un servizio ai lavoratori, ricevere una gratificazione culturale, fare gli interessi più generali della nostra Zona e della sua gente.

Ho cercato le intese con gli altri, ho rinunciato talvolta allo spirito di bandiera, ho immaginato possibile una convergenza di interessi di fondo tra l’Azienda e il sindacato, mi sono sforzato di guardare lontano, oltre il contingente e la routine giornaliera, per capire e governare i processi di trasformazione e il nuovo che avanzava tumultuosamente.

E l’altro aspetto, non meno importante, è stato il desiderio di elevazione culturale che si è tramutato nel dare alla nostra “informativa” e ai contatti personali non solo il tratto – talvolta necessariamente arido e in codice – delle tematiche sindacali, ma quello più ampio e ricco dei sentimenti e dei sogni degli uomini.

Da oltre trent’anni in questa “fabbrica amica” serbo ben viva la memoria del processo di crescita fatto dalla Cgil, delle lotte, dei successi che sempre nuove e capaci generazioni gli hanno assicurato. E che ancora gli assicureranno perché i giovani sono ansiosi di perfezione e sotto una scorza apparentemente cinica o distratta, pulsano forti ideali che tendono al bene, al nuovo, al progresso e all’unità dei lavoratori. Col nostro lavoro intelligente bisogna scoprirli e valorizzarli.

Adesso sono passato anch’io al “governo” di una piccola Comunità, per me la più amata perché vi affondo le mie radici, e ciò un po’ mi spaventa ed un po’ mi esalta. Io spero, in compiti istituzionali nuovi e diversi, di non deludere mai chi in me ripose fiducia, né chi, e siete tutti voi, mi ha insegnato ad essere un uomo che crede e lotta per una società più giusta, solidale, partecipata. Dunque non devo ricevere grazie, ma devo ringraziare, perché quello che ho ricevuto dal sindacato (e non da una sigla, ma dagli uomini in carne ed ossa di Larderello, della Zona, di Pisa e di Firenze, che ci sono dentro), è stato immensamente più grande e importante di quanto dato. E, per usare una frase ad effetto, ciò rappresenta uno dei significati più profondi della mia vita.

Lettera a Cesare, Amerigo, Enzo…, 12 maggio 1988[1]

Cari compagni,
poiché avete dimostrato un benevolo apprezzamento di ciò che sono andato scrivendo sul nostro “giornalino” sindacale, penso di farvi cosa gradita - mantenendo fede ad una promessa! – nel caso che un numero vi fosse sfuggito, inviandovi alcuni testi delle poesie che compongono il fascicoletto inedito “Fabbrica amica”.
        
         Le poesie hanno al centro me stesso e ciò è ricorrente fin dal “dolce stil novo”; il problema rimane sempre il come far diventare – e, quindi, vivere – la banalità, la quotidianità, l’intimo, su una scala più ampia e comprensibile (partecipata), nei sentimenti di altri uomini.

         Io sono consapevole che la mia poesia è come un filo di palero in una prateria immensa, dove crescono e sbocciano incessantemente erbe e fiori meravigliosi; non sogno né gloria e nemmeno quella modesta presenza editoriale pagata generalmente di tasca  propria dalla moltitudine poeticante di oggi (epoca che vede un boom della poesia, che rivela il bisogno, tanto più che cresce la presenza tecnologica, di riappropriamento dei sentimenti), la mia poesia nasce da una forza interna e guarda essenzialmente alla mia anima, io sono “padrone e donno”, mentre la parola, nel tempo che inesorabile scorre, resta specchio e sogno, paura e speranza.
        
         La parola, questo magico incantesimo, io penso resti comunque il segno – pur in uno spazio e in un tempo definiti – di una presenza comune che ha teso all’immortalità. Accogliete dunque, in questo spirito, la fragile essenza dei miei ricordi e pensieri, sperando che essa non deluda ciò che vi aspettate da me.


Undici poesie, 1987

La memoria, madre della poesia, si volge nei miei più recenti scritti a un tema fondamentale della vita moderna: il rapporto con la Fabbrica, con il mondo del lavoro e con i personaggi, le situazioni, gli ambienti di quel microcosmo così diverso da quello infantile e del “villaggio materno”, eppure altrettanto determinante nella crescita umana, sociale e creativa. Non più le lacerazioni struggenti e l’abbandono delle persone amate, il vagheggiamento delle amicizie impossibili, gli amori-non amori nell’irreale spazio del Borgo natio, ma il consapevole farsi uomini, le lotte, le speranze, i ricordi dei compagni, degli incontri che hanno dato un senso più profondo all’esistenza. Mentre intorno par che tutti cambi e si trasformi rapidamente, solo apparentemente distolto da futili e quotidiane incombenze, ed anche da contatti sempre più superficiali e apatici, ho avvertito l’esigenza di fissare immagini a rischio soggette a cancellazione per quel “segno”, quella testimonianza di vita vissuta, quella forza che rifiutando il nulla guarda ancora con tenerezza e benevolenza alle vicende degli uomini mentre par che le rifiuti.                                                                                                     
                                                                 

Fabbrica amica

Fabbrica amica! Quanta fatica
mi sei costata in questi quasi quarant’anni
d’odio e d’amore.
Quanti sogni spezzati, vane illusioni,
muto dolore!
E quanta gioia inattesa
per incontri, pensieri, parole
dolcissime e vere;
per compagni forti e pazienti
che mi hanno guidato fuori
da tremende bufere.
A tutti voglio aprire il mio cuore,
ai vivi e ai morti,
con parole leggere come aquiloni
perché libere si cullino nel vento.

Al sismografo

Sulla carta affumicata
la penna registrava
della terra il pulsare
lontano e profondo:
montagne, abissi, vulcani
dell’ignoto mondo
aspettavo nell’onda sinuosa.
Fuori il sole giocava
su rose purpuree,
più tardi sorgeva la luna
e il vento del Nord
avvolgeva l’orto
in una trama di gelo.
Così m’é rimasta
quell’ansia antica
di scrutare oltre il visibile
e noto
dentro le cose,
per comprendere il nuovo
che multiforme sboccia.          

Alba di lotta

Venivano presto i crumiri
perché avevano vergogna e paura
                                        di noi.
Le sigarette ai vetri
- nel timido buio
che si scioglieva nell’alba –
brillavano come ferite.

La strada del Poggione

Strada di casa, strada rossa,
strada di polvere e sudore
tra lagoni e vasche fumanti,
officine dai lampi azzurri e tonanti,
e uomini come Dei
venire incontro alla sera.
Strada delle ombre invitanti
nel breve tempo d’estate,
strada proletaria che salivi
ai sogni perduti.

Scornello
                         A Lando Cellai

Era un mite autunno e noi s’andava
sulle crete di Scornello
discutendo di antichi mari e lagune,
foreste immense, potenti vulcani
e di quella dolce stagione
e di noi, dei nostri amori
romantici e vani. Ora la fila
dei cipressi e la strada bianca
che sale dalle vecchie moje
alla collina, mi stringe, nel vederla
il cuore. Di noi non rimarrà
nemmeno l’esile guscio della conchiglia
che la pioggia ha spezzato
e al sole brilla
nell’ultimo bagliore.

Scuola Aziendale

Volevo imparare i segreti del mondo
e i sogni dei poeti.
Prima dell’alba mi alzavo
e i merli volavano nell’orto
tra meli e ciliegi. Poi il sole
accarezzava di Raspino i legni antichi
e già s’udivano le donne
nelle piccole stanze
                 ridere felici.
Giornate immense, uomini grandi,
parole come leggi scritte col sangue
e Saba e Neruda mi tenevan per
                                               mano.
Sembravano gli astri essere immoti,
ferma la ruota del tempo,
senza male e tormento la vita,
puro l’amore, infinito il desiderio
negli occhi bambini.
Ora son morti tutti i professori
della Scuola Aziendale,
ce ne andiamo in pensione anche noi
uno ad uno e sembra incredibile
abbandonare per sempre la terra
come semi bruciati dal vento.

La “ringhiera”

Era una casa ottocentesca
come se ne vedono ancora
nei sobborghi operai di città inglesi,
il privato inesistente
con le pareti sottili,
i nidi sui ballatoi,
gli arnesi riposti con cura
e le ragazze sempre qualcuna
ti sorrideva con gli occhi
e la veste fiorita:
proprio come fa in principio
all’uomo la vita!
Ma più amavo
la piccola bottega
odorante di zucchero e inchiostro
aperta su Piazza Leopolda
che offriva all’insaputa
di capi e guardiani
le dolci speranze
del nostro domani!
Dove sorgeva c’è ora un parcheggio
per autovetture
e nessuno pensa
che potevamo benissimo farne a meno:
ma il peggio non è ancora venuto.

C’era la neve

In gennaio fiorì il ciliegio
                              stento,
poi venne il vento freddo
e una gran neve
coprì la terra.
Si scavaron sentieri
fino ai gabbioni dei conigli,
nella casa di legno
si stava tutti insieme
intorno al fuoco
mangiando castagne,
genitori e figli.
Fu l’ultimo dolce assedio
della vita felice,
prima della guerra
d’ogni giorno
nella fabbrica amica,
quando il tormento del tempo
perduto
ci colmò in segreto
l’anima smarrita.

L’anno dell’Ungheria

Ora è meno avara
la mano dei padroni
più accattivante il sorriso
degli aguzzini.
Ma quella lotta dura,
quand’eravamo braccati
noi l’abbiamo fatta
compagni
perché vincesse l’amore
perché nella fabbrica muta
s’udisse di nuovo la voce
della speranza!

La tabella

C’è stata fino agli anni sessanta
alla porta della Direzione
la tabella di legno marrone
dove ogni giorno venivano
segnati i cattivi operai,
quelli che non rispettavano
il padrone.
Bastava una parola più ardita,
un lieve ritardo al mattino,
una fiducia tradita
per vedere il tuo nome
tra i compagni puniti, talvolta
senza saper perché e come.
Ora so’ che era un onore
- allora avevo paura -
venir messi in tabella,
aver dura la vita
pagar gabella al sistema
per non chinar la testa
di fronte a guardie e ruffiani,
spie e democristiani.
Sempre le vittime
costruiscono il futuro.

Omnia munda mundis

Fu per una mostra di acqueforti
e guazzi di Tavernari
uno scandalo grande,
il prete tuonò rimproveri aspri
per membra e torsi
senza veli e mutande.
Laura mi scrisse una lettera
amica, questa la realtà, questa
la fatica;
tutto è puro per i puri di cuore
e noi abbiamo purezza,
intelligenza, amore.
Si, lo sapevo e tuttavia
un poco mi dolevo d’aver turbato
                                   i pensieri,
scatenato desideri repressi
di gente innocente.
Era di maggio e nella chiesa antica
il canto dolce e forte
saliva alla Madonna
oltre il corrotto mondo
e la morte.
Così fu scoperto il passaggio
segreto tra l’ufficio-museo
e il Tempio austero
dove fanciulle in fiore
- a Dio piacendo –
vendevano l’onore al padrone
                                 gaudente.
Nella sera viola
il nostro riso
si mischiava al canto,
sul sagrato di Piazza Leopolda,
di Ser Cepparello, impavido impudente!



[1] Di queste diciannove poesie della raccolta “Fabbrica amica” ne stampo di seguito undici. Di alcune ne parlai con Cesare Salvagnini in un meraviglioso e casuale incontro a Firenze, poco prima della sua immatura morte, come accenno nell’articolo “Caro Cesare…le rose di Spagna, l’anno dell’Ungheria”, che esposi al Centro Studi della FIDAE/CGIL dell’Iimpruneta, nel Convegno-commemorazione a Lui dedicato.

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