Dal:
“Diario partigiano di Mauro Tanzini”,
“La
piccola banda di Ariano”, altri appunti sparsi e “I
preti
nella Resistenza delle Colline Metallifere Toscane”, di Carlo Groppi.
Nota finale.
Nel 2006 è uscito
l’interessante lavoro di Marco Palla, docente di storia contemporanea
all’Università di Firenze ed autore di studi sul fascismo e sulla Seconda
guerra mondiale, dal titolo Storia della Resistenza in Toscana, volume I, edito
da Carocci sotto l’egida della Regione
Toscana. Sono 333 pagine fitte fitte di testo e di note alle quali, purtroppo,
come spesso accade per le opere importanti, che potrebbero essere di ausilio
alle ricerche di microstoria territoriale, mancano tutti gli indici, in
particolare quello dei luoghi e dei nomi di persona. Per tali motivi ho saltato
le prime 188 pagine andando al capitolo La resistenza armata in Toscana, redatto
da Giovanni Verni. Naturalmente vi ho cercato riferimenti alla Resistenza in
Maremma, agli eccidi, tra i quali quello degli 83 minatori di Niccioleta,
all’internamento degli ebrei, alla emblematica morte di Norma Parenti. A pagina
228 ci sono 4 righe e mezza sul rastrellamento del Frassine del 16 febbraio
1944 E nella pagina seguente si fa riferimento ai capi delle province di Siena
e Grosseto (Chiurco ed Ercolani) ed al loro ruolo di repressione dell’attività
partigiana, citando alla nota 126 i lavori della T. Gasparri e N. Capitini
Maccabruni, in modo molto generico. A pagina 243 si afferma che….l’entità dell’afflusso di nuovi
partigiani e la sua presenza su tutto il territorio regionale si possono
desumere dall’andamento delle azioni di carattere strettamente militare in
aprile e maggio 1944, nelle quattro aree
già in precedenza utilizzate (nota 163: Grosseto 74, 137; Pisa 23, 27; Siena
67, 157). Siamo nei due mesi precedenti la Liberazione della
Toscana. A pagina 244 si sviluppa il tema derivante dall’incremento numerico di
persone, soprattutto giovani renitenti alla leva e soldati sbandati, che
entrano nelle formazioni partigiane, afflusso che obbliga ad una maggiore
strutturazione delle medesime, sia per dare incisività alle azioni militari sia
per ridurre le perdite. La brevità di vita di tali nuove Brigate, nonché, dopo
la caduta di Roma, specialmente dalla metà di giugno, la velocità dell’avanzata
degli Alleati, schiaccia la cronaca della formazioni presenti nelle Colline
Metallifere Toscane, a cavallo delle tre province di Siena, Grosseto e Pisa.
Cioè la Brigata Spartaco
Lavagnini nel senese; la 23 bis Brigata Garibaldi Guido Boscaglia, nel
senese-grossetano. E il Raggruppamento Monte Amiata collegato con il comando
clandestino badogliano, nel quale, con una operazione “a tavolino” furono fatte
confluire le Bande Camicia Rossa e Camicia Bianca della 3 Brigata Garibaldi al
comando di Mario Chirici. Uno dei compiti di tali formazioni badogliane, in
stretto contatto con gli alleati liberatori, fu quello di disarmare rapidamente
tutti i componenti delle varie formazioni, non appena le medesime venivano in
contatto con le truppe della V armata.
Dopo la seconda metà di maggio venne a scadenza il bando di amnistia per
i renitenti e i disertori della RSI e contemporaneamente in molti settori della Resistenza toscana
vennero diffusi i bandi coi quali si comminava la pena di morte per chi avesse
continuato a sostenere la RSI
e il PFR, pene che furono in alcune zone immediatamente applicate. Intanto il
disgregamento delle truppe germaniche era sempre più evidente e nel periodo dal
3 al 20 giugno 1944 i fenomeni di disgregamento furono così grandi che si può parlare di “una soldataglia
selvaggia tanto che lo stesso Feldmaresciallo generale Rease della XIV Armata,
dovette emanare ordini severissimi per porre freno alle ruberie e ai saccheggi
di appartenenti alla Wermacht, senza che gli ufficiali vi si opponessero. Ciò
chiarisce in un certo modo anche l’accentuazione della cruente “guerra ai
civili” e “guerra alle bande”, che insanguinò le Colline Metallifere Toscane,
dall’Amiata a Massa Marittima,. compreso l’eccidio degli 83 minatori di
Niccioleta. Il 9 giugno il comandante del LXXV Armee Korps, con l’ordine di
Corpo n. 35, disponeva l’estensione della repressione delle bande che dovevano
essere accerchiate e annientate, in particolare nell’area
Pomarance-Larderello-Castelnuovo di Val di Cecina, in provincia di Pisa e a quella
di Riotorto-Montioni-Valpiana-Massa Marittima, posta a cavallo delle province
di Livorno e Grosseto. In conseguenza di ciò l’11 giugno vennero effettuati
numerosi rastrellamenti impiegando il gruppo Hoffman della 19 Lufwaffe-Feld
Division; il Battaglione Lange della 16 SS-Panzergrenadier-Division e il Battaglione
di Polizia Kruger, azioni nel corso delle quali persero la vita numerosi
singoli partigiani. I partigiani frattanto effettuavano simboliche
“liberazioni” di piccoli centri abitati dopo il noto appello ai patrioti del
generale Alexander, trasmesso nella notte tra l’8 ed il 9 giugno, affinché i
partigiani ostacolassero in tutti i modi possibili la ritirata tedesca. Ciò
determino la decisione dal comando della LXXV Armee Corps tedesca di
predisporre le forze per la repressione e l’annientamento e, su ordine del
Feldmaresciallo Kesselring del 17 giugno,
a “procedere con draconiana severità”. Ma il comandante supremo dell’OB Sudwest
si trovò in buona compagnia nell’ordinare l’escalation del terrore e fu
addirittura anticipato dall’Oberfuhrer Karl Heinz Burger, fin dall’8 giugno,
con un ordine che poneva i civili in completa balia di ogni ufficiale tedesco.
E ciò avvenne, in particolare, nell’area delle Colline Metallifere nelle quali
il generale Joachim Lemelsen, comandante della XIV Armata della Wehrmacht, di
fronte ai crescenti atti di sabotaggio effettuate dalla popolazione e dai
partigiani sulla direttrice Siena-Grosseto-Volterra aveva raccomandato e
permesso che per ogni soldato ucciso o in presenza di accertati sabotaggi
collegabili ai piani del nemico, dovessero essere fucilati fino a 10 abitanti
maschi del luogo atto alle armi. Si identificavano in tal modo i civili coi
partigiani. Questa direttiva fu ampliata nei giorni seguenti prevedendo l’incendio
delle case di abitazione dove si trovassero i ribelli o da cui si fosse sparato
sui soldati tedeschi. I tedeschi decisero
di impiegare reparti altamente specializzati nella repressione come ad
esempio il Lufwaffe-Jager-Regiment della 19^ Lufwaffe D-Feld Division ed al 3
SS Panzergrenadier Division sostenuto dall’artiglieria nell’ azione su
Roccastrada. E’ necessario rilevare che i principali massacri di cui si resero
responsabili i soldati della Wermacht generalmente non si verificarono nel
corso di attacchi a formazioni partigiane, che furono eventi secondari, ma
ebbero carattere preventivo, cercando di paralizzare col terrore i civili
rimasti nelle immediate retrovie del fronte come si verificò a Niccioleta (si
citano solo 77 morti e non 83) e, nelle settimane seguenti, nel Pisano dove gli
eccidi di massa furono sostituiti da un continuo stillicidio di singole
uccisioni che si potrebbero definire “micro massacri”, i quali, nel loro
complesso, però, raggiunsero una cifra tale da consentirci di parlare di un
eccidio.
Queste succinte note non
tengono conto di molti studi storici (Pezzino, Battini. Taddei, Groppi,
Spinelli, edi altri) che inquadrano in modo diverso gli eventi dell’uccisione
degli 83 minatori di Niccioleta + 4 altri partigiani, la deportazione di 17
giovani e la successiva scia di sangue fino alla vigilia della Liberazione di
Massa Marittima, Castelnuovo e Pomararance. Che, a mio avviso, potrebbero
integrare l’analisi di questo interessantissimo lavoro di Marco Palla.
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