Dal:
“Diario partigiano di Mauro Tanzini”,
“La
piccola banda di Ariano”, altri appunti sparsi e “I
preti
nella Resistenza delle Colline Metallifere Toscane”, di Carlo Groppi.
(VIII)
In Frantisek Langer, I
fanciulli e il pugnale, Garzanti, Milano, 2001 (romanzo scritto nell’esilio a
Parigi e pubblicato a Londra nel 1942 ed in Italia nel 1947), si racconta la
storia dell’occupazione tedesca, nel marzo 1939, di un piccolo villaggio della
Repubblica Cecoslovacca, Podolì, ubicato nei pressi della città mineraria di
Kladno. La maggior parte degli uomini di Podolì erano o erano stati minatori.
Iniziano gli atti di sabotaggio e di Resistenza contro nazisti. I partigiani
agiscono nella clandestinità tessendo una vastissima rete di contatti. A Kladno
esplodono alcune miniere e a Podolì è ucciso misteriosamente un maestro
elementare, tedesco dei Sudeti, fanatico nazista, che era stato introdotto nel
villaggio per conquistare subdolamente la fiducia dei fanciulli riuscendo in
tal modo a carpire informazioni delicate su tutti gli abitanti e scoprendo i
nomi dei partigiani e degli oppositori. Nel momento in cui la rete si sarebbe
dovuta chiudere con l’arresto e la fucilazione di molti paesani, genitori e
fratelli degli scolari così vilmente ingannati, il maestro è trovato morto
all’interno della scuola e le prove, da lui pazientemente raccolte, sono
sparite. Le indagini condotte dalle SS si concentrano sui fanciulli del
villaggio (in realtà è proprio uno di loro che ha ucciso il maestro!), ma alla
fine un vecchio soldato decorato della prima guerra mondiale se n’assume la
responsabilità. Il colonnello delle SS ordina un “processo regolare” di fronte
a tutto il villaggio, processo che, pur lasciando molti lati oscuri sulla
vicenda, porta all’impiccagione del vecchio soldato che, con il suo sacrificio,
impedisce l’effettuazione di una tremenda rappresaglia contro la popolazione. I
nazisti partono da Podolì per rientrare a Praga: «…il colonnello se ne tornava
verso Praga. La sua automobile sussultava su di una strada secondaria tortuosa
e scavata dal passaggio dei carri a cavalli, riusciva soltanto ad avanzare
lentamente nelle carreggiate e nelle buche; ci voleva ancora qualche poco,
prima di raggiungere la strada principale. Il colonnello aveva quindi tutto il
tempo e la tranquillità per riandare con la mente alla mattinata e,
riflettendoci su, si sentiva molto insoddisfatto del risultato. Tutto
l’avvenimento gli era sfuggito di mano, diceva fra sé, e, nonostante i bei
discorsi con cui aveva motivato gli imprevisti davanti ai suoi ufficiali e a se
stesso, la cosa era finita in modo contrario alle sue intenzioni. Come mai era
potuto accadere un fatto simile? Si era proposto, e l’aveva creduto molto
spiritoso, di ottenere dai ragazzi notizie su quanto di sovversivo si tramava
nel sottosuolo di quella regione; aveva mandato in mezzo a loro il falso
maestro, il tenente Helmuth, simpatico e promettente giovanotto, e uno di quei
bambini lo aveva ucciso. Non era stato possibile punire il colpevole, un
bambino sicuramente, perché non soffrisse il prestigio della potenza tedesca
dimostratasi così vulnerabile…e così si era dovuto accontentare di un tipo che
si era offerto spontaneamente per la forca. La cosa sembrava del tutto logica,
ma il bilancio totale era misero…ma in qualcosa c’era stato un errore. Dove? Il
colonnello se lo confessava: in lui stesso. Si era allontanato dalla pratica
abituale…si era baloccato col tribunale e con l’accertamento della colpa,
perché aveva voluto punire secondo giustizia e il Reich tedesco era rimasto
soccombente nel duello con quel miserabile villaggio ceco e coi suoi mocciosi.
In nome loro aveva vinto quell’uomo volgare, poco interessante, a cui la morte
era indifferente o rappresentava persino un onore. Per giunta il colonnello
ammetteva di aver sbagliato anche nel farlo impiccare sul grande albero in
mezzo al paese. Così l’esecuzione era diventata quasi un’apoteosi e
dell’impiccato egli aveva fatto un eroe paesano. Era evidente. Errori su
errori. E la loro origine? Ora lo sapeva. Proprio perché aveva cominciato a
gingillarsi con la giustizia, il tribunale, il diritto, la legge e simili
concetti... Certo era stato soltanto un simulacro di giustizia, un tribunale da
commedia, un giocare col diritto: soltanto una parodia e una beffa. Ma in cose
quali il diritto e la giustizia vi è una concatenazione logica che comincia ad
agire se tu le metti in moto, fosse anche nelle loro più povere e ridicole
forme. Non ci devi scherzare…Era stata una mattinata disgraziata, se n’era
ripromesso qualcosa di ben diverso. In avvenire si sarebbe attenuto sempre alla
pratica che la potenza del Reich aveva codificato: in avvenire, se qualcuno dei
criminali villaggi cechi avesse commesso qualunque cosa di punibile,
semplicemente, senza investigazioni e processi egli avrebbe fucilato tutti gli
uomini, deportato le donne ai lavori forzati, avrebbe dato i bambini da
allevare in Germania. Questa genia non bisognava trattarla diversamente…la sua
automobile attraversava in quel momento un villaggio molto lentamente, perché
la strada stretta tra le casupole era dissestata in modo particolare. Il paese
era pressappoco uguale, il gemello, quasi, di quello che aveva lasciato poco
prima. Si, fucilare gli uomini, cacciare le donne, portare via i bambini e
quella miserabile borgata incendiarla, o fracassarla a cannonate e raderla al
suolo affinché sparisca uno dei nidi dove questa plebaglia può vivere e
moltiplicarsi e che sono soltanto ostacoli al nostro cammino tedesco. L’auto
passava lentamente accanto all’ultima casa sulla quale, come dovunque in
Boemia, era attaccata una tavoletta ovale azzurra col nome del paese che aveva
appena attraversato. Il colonnello la lesse. Vi stava scritto: Lidice».
(continua)
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