sabato 16 maggio 2020





Gigolette.

L’assenza di contatti  sociali, politici, di scambi creativi, di relizzazione di progetti sul territorio, dei piccoli impegni per  conferenze all’Oratorio di Montecerboli o con le Associazioni della Libera età o Culturali, mi porta, sempre più frequentemente, a guardare dentro me, ai ricordi della adolescenza e giovinezza, all’inizio dell’attività di lavoro dentro una grande industria, con migliaia di uomini e donne, a quell’intreccio di poesia, lavoro, amore, impegno politico, che mi ha accompagnato fino a pochi anni or sono. E dentro me, sempre più nitide, riemergono, le immagini dei miei cari (nonna e babbo, e cugine), ed anche di ragazzine che non so’ se saranno ancora vive, perche tanto tempo è passato da quegli amori  “a solaio”, ma che non ho scordato. E poi la musica, che era troppa per le mie giovani orecchie, che mio padre, dal clarinetto alla fisarmonica, spandeva in tutta la nostra piccola casa. Arrivavano di tanto in tanto gli spartiti delle canzoni che il babbo imparava a memoria per suonarle nell’orchestrina “Stella d’Argento” nei veglioni paesani e, più volte, nelle veglie  nei poderi vicini, alle Magrine, nella Casetta del Campolungo, al Gallinaccio… o da Ciccina e dall’Orba.  Così ne ricordo ancora qualcuna, come, ad esempio, Gigolette, un dolce valzer, che andava di moda nel 1951 o 1952, dove si parlava di un’amore, di un lampione, di un fiume, la Senna, e di una città, Parigi, che io non sapevo nemmeno dove fossero! Ed oggi l’ho cercata su google e l’ho ascoltata con emozione dalla voce di Gino Latilla, da in vecchio 78 giri! E allora metto due poesie per mio padre, che nato nel ’15 e morto nel ’85, adesso avrebbe 105 anni!

Stella d’argento
                 
         a mio padre

Dicono che le stelle
svaniscono nel cielo,
ma tu sei eterna
ed eterna la mano
che ti sfiorava
magica fisarmonica,

eterno il tuo sorriso
e l’aria tiepida
nella sera quieta.
Noi siamo quegli eterni
fanciulli, d’amor pieni
e di paura, quelle
tenere carni immortali
che furono, quei
primi baci sotto
la pergola dell’uva,
acerbi, com’era acerbo
l’amore che ci avvinse
in quelle note
inconsapevoli,
maledettamente
malinconiche,
che non ti stancavi
di suonare.

Noi siamo eterni.

Le quattro stagioni.
                    
                   a mio padre.

Primavera tempestosa e lietamente,
rese i tuoi giorni colmi di passione;
la musica fu l’amante e quasi un Dio,
che ti aprì ogni còr fremente.

Venne l’estate: la follia della gran calura,
la guerra, la morte, la fatica del lavoro e la paura;
l’amor perduto e quello verginale che più
non isperavi, t’innalzarono alle stelle
che nel nuovo cielo di libertà e speranza,
brillavano d’argento sulla rossa bandiera;
e dentro donna, giovani occhi neri.

Autunno, ti dette, col suo quieto ardore,
i frutti saporiti dell’Eden,
mai conoscesti stagione così bella,
di rinnovata speme e di leggiadre spose:
 e a Sant’Alberto,
dal Babini, la rossa Marina.

Ti regalò le languide note
sulla madreperlacea tastiera,
in quella piccola stanza, aperta
sulla palma, il roseto e sui cameli,
mentre con tuo stupore
anch’io crescevo.

Oh! l’inverno! Ti dava l’amicizia
di un cane, e di ragazzi una schiera
attenti a quelle note del clarinetto
piccolo si bemolle e di Rossini
                            la Cenerentola:
un licor che ogn’anima ammaliava.

E c’era lei, padre mio, la fanciulla bionda,
che i suoi primi baci non mi negava.

Poi venne il freddo d’un Natale e cancellò
le note e i palpiti del cuore,
all’improvviso fu silenzio,
e come a tutti accade, vinse il Male.

Nessun commento:

Posta un commento