martedì 21 febbraio 2017



SANTA GIACINTA MARESCOTTI. LA SANTA DI SOLAIO E DELLA TUSCIA.

Incontri tra noi per noi, Compagnia della Carità di Montecerboli, Montecerboli, 22 febbraio 2017.Testo di Carlo Groppi.

            Cari amici ed amiche, grazie per avermi invitato a tenere una piccola e semplice conversazione su un personaggio che mi ha molto appassionato, Clarice Marescotti, ovvero Santa Giacinta, la Santa di Viterbo e della Tuscia, che per un breve lasso di tempo soggiornò anche nella Diocesi di Volterra, nel Comune di Radicondoli, a Solaio e Cugnanello, terre degli avi.

            Nella stesura del capitolo del libro "Dare qualcosa in cambio di niente"(che grazie ad Andrea uscì emendato dai molti errori,) affrontai le vicende della Confraternita di Misericordia esistente nella chiesa, adesso sconsacrata,di San Lorenzo a Montalbano, sulla strada che da Castelnuovo porta a Montecastelli, accennando, evocandone il nome, ad una Beata le cui memorie erano legate, come quelle del giovane San Bernardino, al territorio a nord-est di Castelnuovo, insinuando che me ne sarei occupato in un secondo tempo. Ho mantenuto la promessa dando vita ad una ricerca vasta e interessante che rivelò di trattarsi non di una Beata ma di una Santa, Santa Giacinta Marescotti.

Le mie ricerche approdarono alla pubblicazione di un breve saggio sulla bella rivista trimestrale “La Comunità di Pomarance” nei numeri 1 e 2 del 1999 e nell’estate di quell’anno, 1999, nell’ambito del programma regionale “I luoghi della Fede in Toscana”, tenni una commemorazione di Santa Giacinta nella sua Cappella presso la Villa di Solaio, con una grande partecipazione di persone ed un concerto di musica. Successivamente ne ho parlato in una Conferenza a Volterra (2002) ed a Belforte (2006). Personalmente sono molto attratto  dagli studi di biografie femminili: come, ad esempio, quelle su Marie Durand e la persecuzione della setta dei Valdesi; Mathilde Wesendonk e il suo amore con Richard Wagner; Teresa di Lisieux e la sua sconvolgente santità, Da oltre 50 anni mi sto’ occupando di Norma Parenti, medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, nata a Monterotondo Marittimo nel 1921 (l’anno di nascita della mia mamma) e uccisa a Massa Marittima dai nazisti il 24 giugno 1944.

            I Santi dell'attuale Diocesi di Volterra sono otto e tre sono i Beati. Di questi illustri  personaggi soltanto Leone I è entrato a far parte del nuovo calendario romano, ma a "memoria", cioè come un santo di rango inferiore, mentre gli altri sono venerati solo localmente. Tale sembra anche la sorte di Clarice Marescotti, o Marescotti, al suo secolo suor Giacinta, la santa di cui narreremo la storia. Di questi illustri personaggi soltanto Leone I è entrato a far parte del nuovo calendario romano, ma solo a “memoria”, cioè in serie C, mentre gli altri sono venerati localmente. Di tutti esistono però biografie, schede, santini, quadri, altari e preghiere. Molto meno sappiamo di altri santi e beati che sul nostro territorio hanno soggiornato o predicato o vi sono stati “romiti”  dei quali ne cito alcuni: San Bernardino da Siena, San Walfredo di Monteverdi, San Guglielmo da Malavalle; San Galgano di Chiusdino; San Rocco da Montpellier; il betao Antonio Papocchi di Monticiano; Niccolò Marescotti eremita a Lecceto; il beato Ranieri di Belforte, il beato Giacomo, il murato, di Montieri o dei santi antichi o fantasiosi, come san Regolo del Frassine e San Potente di Lustignano.

E ancora troppo poco sappiamo sulla plausbile e suggestiva presenza nella contrada che da Bibbona e Montalpruno, toccando Monteverdi e Sasso Pisano, entra nella comunità montierina per finire a Monticiano e quindi ricongiungersi alla via Cassia nei pressi di San Quirico d’Orcia, dell’apostolo Pietro. Per molto tempo se ne è occupato don Mario Bocci lasciando intravedere, qua e là, nei suoi brillanti scritti e prolusioni, tale ipotesi, ma nessun serio approfondimento mi risulta che sia stato fatto.

Certo, il mondo dei martiri, dei santi e dei beati è sconfinato! Il “catalogo” ne comprende circa 40.000 e la sua revisione critica, specialmente dopo il Concilio Vaticano II,  è perennemente in corso e la Chiesa Universale riconosce soltanto le feste  che commemorano quei santi la cui importanza è riconosciuta come universale.

La festa di ogni santo è fissata nel giorno della sua morte, cioè nel momento iniziale della vita eterna.  Comunque dello sterminato numero di santi, martiri e beati la maggior parte sono oggi dimenticati e lasciati alle chiese locali, anche se molte chiese rurali, sono oggi abbandonate o sconsacrate.

Ma veniamo a Santa Giacinta Marescotti, la quale gode ancora di fama e di venerazione.

                        Il ramo dei Marescotti discende direttamente da famiglia nobile scozzese, se non addirittura da quel "Mario Scoto" che nell'VIII secolo fu mandato dal re di Scozia in aiuto di Carlo Magno nella guerra contro i saraceni. I Marescotti si diffusero in Francia e in Italia imparentandosi con le più illustri e facoltose famiglie e dando origine a valorosi soldati, cardinali, beati e santi, conti, imprenditori minerari e grandi possidenti terrieri. Nel 1731, alle navi spagnole dell'Infante Don Carlos si unirono tre navi del granduca di Toscana, comandate dal cavaliere Marescotti, assurto al rango di ammiraglio della flotta di stazza a Livorno.

            Un ramo della famiglia lo troviamo a Siena nel XIV secolo (1316) e proprio in virtù dei servigi resi alla repubblica (arruolamento di soldati? prestito di denaro?) ai Marescotti fu assegnato in propriet… il vasto territorio dell'antico castello di Montalbano, nella contea d'Elci, proprio sul confine del territorio senese verso l'ovest e Volterra. Nulla sappiamo dei rapporti tra il padre di S. Giacinta, Marc'Antonio, con i Marescotti che all'epoca (XVI secolo), possedevano Montalbano, Anqua, Solaio, Cugnanello e Tegoni, ma per fugare ogni dubbio sulla parentela resta la lapide murata nel podere Cugnanello che recita:

"IN QUESTO CHE FU UNO DEI CASTELLI DEI MARESCOTTI LA BEATA GIACINTA FIORE DELL'ANTICHISSIMA SCHIATTA VISSE PARTE DELLA SUA PUERIZIA E DELL'ADOLESCENZA IRREQUIETA. QUETATASI POSCIA E SUBLIMATASI IN DIO PER EROISMO DI VIRTU' CRISTIANE QUI EBBE CULTO DI MEMORIE E DI ALTARE IN UN SUO DEVOTO ORATORIO DURATO FINO AL MDCCCCXXV (1925). QUI SI RICORDA E SI INVOCA AUSPICE PROPIZIATRICE PATRONA AGLI UOMINI E ALLE TERRE CHE UN GIORNO FURON DEI SUOI".

            E dei Marescotti senesi, il cui albero genealogico abbiano rinvenuto all'archivio storico del comune di Castelnuovo per il periodo 1565-1803, ramo estintosi per mancanza di discendenza maschile, oggi non restano sul territorio che le testimonianze epigrafiche e tombali a Solaio, Tegoni e San Lorenzo a Montalbano e scartoffie polverose negli archivi storici comunali o notarili.

            Anche la statua del "santo guerriero", ricoperta da armatura metallica, donata dai Marescotti di Tegoni alla chiesa di San Lorenzo,  a Montalbano, forse il simulacro di un antenato che aveva partecipato alle crociate, Š da tempo scomparsa e ne ignoriamo la sorte. Nel tempio in rovina, poi sconsacrato e restaurato come residenza privata, ma di nuovo abbandonato, rimane la lapide che ne attesta la ricostruzione: "Questa chiesa dedicata a San Lorenzo Martire e che prende il nome da Montalbano antica signoria de' Marescotti, primi fondatori e dotanti, rovinata nel 1864, fu in più ampia e miglior forma ricostruita per le sovvenzioni regie e popolari coi disegni di Giovanni Giusti da Siena, assistendo alla nuova opera il conte Niccolò Carlo Marescotti, 1870". Si tratta probabilmente di uno degli ultimi discendenti della famiglia Marescotti, Carlo, conte di Montalbano, morto a Volterra il 9 gennaio 1910, città nella quale aveva esercitato per trenta anni la professione forense. E' il canonico monsignor Cavallini che ne tesse l'elogio funebre sul giornale locale "La Scintilla" il 15 gennaio 1910. Carlo Marescotti è descritto come "collaboratore del colonnello Gialdini nell'amministrazione del Ministero della Guerra e partecipe del risorgimento d'Italia, accademico dei Sepolti e consigliere comunale, munifico benefattore degli Asili Infantili Riuniti, patrizio senese e valente studioso che aveva dedicato la sua esistenza ad illustrare la benefica influenza sociale della Chiesa in tre volumi "Il Clero e la Civiltà". Intorno al primo decennio del '900 troviamo tre donne, la contessa Giulia Marescotti, collaboratrice del periodico volterrano "La Scintilla", Clara Landucci e Giacinta, sposata con Giovanni Martini, medico provinciale. Non è di poca rilevanza registrare il nome della Santa di famiglia, Giacinta, ad una delle ultime discendenti della casata dei Marescotti a testimonianza di una consuetudine di devozione mai sopita.
           
            Insediatisi stabilmente nell'area tra Elci e Montalbano, i Marescotti li troviamo padroni (dal secolo XIV al XIX), o con lo juspatronato, delle chiese di Tegoni, Montalbano, Vinazzano, Solaio e Sesta. La visita pastorale del 18 marzo 1424 attesta che la chiesa di S. Lorenzo a Montalbano è occupata da Lodovico Marescotti. Il toponimo primitivo non  è più rintracciabile, ma l'antico culto per S. Lorenzo, insieme alla memoria del perduto castello di Montalbano, signoria dei Marescotti, furono nel secolo XIX trasferiti nella nuova chiesa posta sulla strada rotabile di Montecastelli.

            A Solaio, nell'oratorio di famiglia, è appeso il drappo ricamato in oro con l'immagine di S. Giacinta circondata da un serto di rose selvatiche, con la data 1940, probabilmente postovi in occasione del trecentesimo anniversario della morte, mentre due importanti lapidi marmoree attestano la presenza dei Marescotti:“Sia perenne memoria in questo sacro luogo del conte Fausto Marescotti Landucci che la tenuta e Villa di Solaio a lui pervenuta nell’anno 1865 molto predilesse e siano ricordate in benedizione le sorelle di lui, contesse Giulia e Chiara Landucci anime elettissime che nei possessi del fratello succedettero l’una fino al luglio del 1914 l’altra fino all’aprile del 1924 lasciando in tutti che le conobbero e specialmente nella nipote diletta contessa Ida Testa Serafini erede per testamento ricordi incancellabili di bontà e di fede degne degli antichi tempi”. E l’altra recita: “Qui riposa la spoglia esanime di Fabio de’ Conti Marescotti patrizio senese uomo d’antica probità e di gentili costumi ricco di civile sapienza e d’amore del bene di marito e cittadino. Adempiì fedelmente gli uffici più che al miglioramento dell’avito censo all’utile del suo municioiom senza mercede soccorse coll’opera e col consiglio. Colpito da apoplessia nel 16 novembre dell’anno 1843 dopo 70 anni di mortal pellegrinaggio  volò a felicitarsi nell’amplesso del suo Dio da tutti rimpianto e desiderato. La vedova Girolama Ricciarelli di tanta perdita inconsolabile in questa cappella dalla pietà dell’estinto eretta a perpetua ricordanza q.l.p.”

            Infine, nella chiesetta sconsacrata di S. Lucia di Tegoni, di fronte all'altar maggiore c'è una botola di marmo che conduce nella cripta sepolcrale dei Marescotti, da tempo profanata. All'interno vi sono due lastre tombali di Giuseppe Marescotti e di Maria Marescotti, morti infanti alla metà del secolo XIX.

            Clarice Marescotti nasce a Vignanello in provincia di Viterbo, nei Monti Cimini,  nel marzo dell’anno 1585, al tempo del papa Sisto V e dell'imperatore Rodolfo II, da Marc'Antonio e dalla principessa Ottavia Orsini, romana, in quello che è oggi il castello dei principi Ruspoli. Ebbe due sorelle (Ginevra, che fu monaca francescana in San Bernardino a Viterbo; e Ortensia) e due fratelli (Sforza Vicino e Galeazzo). Tutti ricevettero, secondo l'uso del tempo, una profonda educazione cristiana alla cui osservanza si dedicarono con zelo. Soltanto Clarice si dimostrò ribelle agli insegnamenti di modestia, riservatezza e carità, ostentando un carattere libero e altero, inclinato al godimento delle gioie della vita fastosa del suo ceto sociale e del lusso che la circondava, nel quale la sua bellezza risplendeva come una gemma. All'età di nove anni Ginevra fu portata nel monastero delle francescane di San Bernardino a Viterbo e indirizzata, non sappiamo quanto consapevolmente, alla vita monastica. Col nome di suor "Innocenza" visse esemplarmente la sua rinuncia al mondo dimostrando negli anni una fede forte e matura. Sbarazzatisi della figlia primogenita Ginevra, e con un occhio vigile alle doti che avrebbero dovuto accompagnare l'eventuale matrimonio delle altre due sorelle, assottigliando il patrimonio della casata, i Marescotti avviano al monastero anche la "ribelle" Clarice ponendola sotto la guida della sorella. Ma la durezza della regola, le ossessionanti orazioni, il buio e il freddo che regnavano nell'ambiente claustrale, finirono per rendere insopportabile la sua vita nel convento e Clarice ritornò in famiglia. Era una fanciulla bella, alta, elegante e aveva molti corteggiatori tra i quali un marchese di cui si innamorò. Probabilmente questa unione non piaceva ai Marescotti (certamente per ragioni economiche), cosicché i genitori decisero di anteporle nel matrimonio la sorella minore, Ortensia, dandola in sposa al marchese Paolo Capizucchi dei signori di Poggio Catino, con una cerimonia incredibilmente sfarzosa per doni e festeggiamenti. Clarice ne fu colpita violentemente entrando in una crisi depressiva profonda. E' probabilmente in questo tempo, nei primi anni del '600, che Clarice viene "confinata" nei possedimenti terrieri di Solaio, di Lodovico Carlo Marescotti, per farle ritrovare serenità d'animo e superare la grave crisi di nervi che per poco non l'aveva condotta precocemente alla morte, e per evitare o attenuare le chiacchiere per la vita liberale che menava a Vignanello.

            Ma per Clarice, figlia ribelle e scomoda, non ci furono alternative al velo di monaca. E pur contro la sua volontà, appena ventenne, varca il portone della clausura del monastero viterbese di San Bernardino per non uscirne mai più. Vi entrò portando nell'animo, come scrive un biografo (Flaminio Annibali da Latera), "dispetto, sdegno e spirito secolaresco". Fredda e insensibile alla vita monastica, Clarice, adesso suor Giacinta, in virtù dei privilegi che l'alto lignaggio le assicurava, si costruì nel convento un appartamento signorile di più camere e si circondò di tutti i piaceri e di tutte le vanità.

            La scelta medesima del nome rivela l'amarezza del suo cuore innamorato, perché‚ nel suo inconscio. ella si identifica con Giacinto, l'efebo bellissimo amato da Apollo e ucciso per la gelosia di Zefiro e dal cui sangue sboccerà il fiore odoroso.

            Suor Giacinta visse per circa dieci anni in questa condizione "di secolare in convento", ostinandosi nella sua sconveniente condotta e recando scandalo alle altre suore. I biografi hanno steso un velo di pudico silenzio su questi anni, e pertanto ci possiamo soltanto immaginare la sua vita di peccatrice dai molti racconti e testimonianze sulle donne nella clausura, di cui i più celebri restano Boccaccio, Diderot e Manzoni. Di se stessa Giacinta ebbe a scrivere che tale periodo era stato contrassegnato  "di molte vanità et sciocchezze nelle quali hero vissuta nella sacra religione".

            All'età di trent'anni, Giacinta, gravemente ammalata, vistasi negare l'assoluzione dal confessore, scandalizzato dalla sua condotta,  fu colpita  dall'atroce pensiero di essere condannata alle pene eterne dell'Inferno se non avesse mutato radicalmente la propria condotta espiando i peccati commessi. E' l'anno 1615. Giacinta, vestita una rozza tunica, si frusta a sangue di fronte alle consorelle allibite, dichiarando tra i singhiozzi che avrebbe d'innanzi vissuto nella povertà e nella penitenza.

            E cosìfece. I ventiquattro anni che le resteranno da vivere altro non saranno che una interminabile  lista di sofferenze spirituali e corporali (nell'arduo impegno di ripetere la Passione di Cristo), quest'ultime inferte al suo corpo con micidiale determinazione e accanimento, si da ingenerare il dubbio che qualcosa di grave sia avvenuto nella sua mente per condurla al masochismo. Come altrimenti potremmo interpretare  il legarsi con una catena di ferro, anche durante il sonno, ad una immensa croce di legno collocata nella sua cella? o il dormire su un materasso fatto di sarmenti che poggiava sopra tre dure assi di legno? o poggiare la testa, anziché sul guanciale, su un ruvido sasso? oppure aver ridotto il cibo quotidiano ad un solo pasto costituito da tozzi di pan secco avanzati dalla refezione delle consorelle? E non parliamo dell'abito suo, ricavato nel saio consunto di un frate morto o dell'uso di camminare scalza anche nel rigido inverno? e del denaro, che una volta tanto bramato, era trattato come immondizia e gettato, quando ne veniva in contatto, negli angoli della cella? Anche il nome aveva dimenticato, delle monete. Ma il culmine delle efferatezze contro il suo fragile, ma ancora bellissimo corpo, lo raggiungeva flagellandosi ogni venerdìcon un mazzo di pungitopo fino a veder sgorgare il sangue. Spezzava il ghiaccio coi piedi nudi immergendosi nell'acqua gelata dell'orto; masticava assenzio amarissimo; di notte saliva una ripida scala con la pesante croce sulle spalle, cadendo e rialzandosi per flagellarsi con accanimento. A questo artificioso e inumano regime di privazioni ben presto si aggiunse la sofferenza delle malattie, che con tale regime di vita, non potevano mancare.

                        Giacinta amava non solo la povertà, ma anche i poveri e nelle sue preghiere chiedeva di potersi trasformare in "pane" per saziare tutti i derelitti e affamati del mondo! Dalla clausura escogitò ogni stratagemma per dare aiuto ai poveri viterbesi. La sua attenzione era inoltre rivolta ai carcerati e agli esecutori di delitti, insomma a chi si trovava in peccato mortale. Fra le conversioni ottenute da Giacinta si ricorda, in particolare, quella di un soldataccio di ventura, un certo Francesco Pacini di Pistoia, perverso e crudele, attraverso il quale si esplicò l'azione della Santa che a lui fu legata da un complesso rapporto affettivo, anche se mascherato e mediato dall'esaltazione mistica. Per dar seguito stabile alla sua azione, Giacinta fondò due confraternite, che curavano i malati, i poveri e gli anziani, una delle quali, chiamata "dei Sacconi" esiste tutt'ora. L'altra confraternita era detta degli "Oblati di Maria" e si dedicava all'assistenza agli anziani dell'ospizio di S. Carlo.

            Giacinta conobbe l'estasi dell'amor divino e visse momenti in cui parve fuori dalla dimensione umana: gridava nella notte, affacciata alla finestra, "Amore, Amore, Amore dolcissimo vieni a me!" Altre volte a mezzanotte si stendeva davanti all'altare gridando: "Amore, Amore, vieni nel mio cuore!" e ritirandosi nella sua cella cominciava a flagellarsi gridando: "O mio dolce e caro Amore, come potrò vivere se non mi sazio appieno di amarti?" In una lettera scrisse queste parole: "...peno di non trovare ancora modo di amare Dio, tanto che pare alle volte che il cuore mi si schianti, non trovando strada per progredire nell'amore; e pur sento voci interne, che mi richiamano a mutar vita, e passo le notti in pianti e gemiti inconsolabili...". Spesso versando lacrime di dolore esclamava: "Amor meus crucifixus est!". Parimenti all'amore per il SS. Sacramento, verso il quale ravvivò le pratiche di pia devozione, Giacinta ebbe anche amore ardentissimo per la Madonna e dal momento della sua consacrazione si firmò sempre come Giacinta di Maria Vergine apponendo su tutti gli oggetti usati l'immagine della madre di Cristo. Sentiva Dio presente e quasi lo vedeva e quando si metteva in preghiera la sua unione con Lui si faceva così profonda che pareva uscire dalla dimensione terrena. Una volta fu vista levitare nell'aria, verso il crocefisso, e rimanervi per oltre un'ora. Ebbe visioni profetiche ripetute e provate dai fatti e nell'estasi il dono della profezia e della scrutazione dei cuori.

            Finalmente giunse, liberatore, il giorno della sua preziosa morte, alla quale Giacinta si accostava da tempo per piccoli insignificanti eventi. Pur nella sofferenza di una micidiale peritonite ebbe parole dolcissime per le consorelle che le stavano intorno nell'ora estrema e mentre mormorava: "Aiutatemi, Gesù mio, mio sposo" e "Nelle tue mani Signore raccomando l'anima mia...", dolcemente spirò. Erano le ore 18,30 di lunedì 30 gennaio 1640, giorno di Santa Martina.

            Come scrive un suo biografo: "...la santa lasciò un piccolo diario autografo conservato nell'archivio del convento dei SS. Apostoli a Roma e intitolato Liber scriptus a B. Virgine Hyacintha de Marescottis. E' contenuto nei primi undici fogli di un quaderno di centoquarantacine pagine. Ella vi appose questo titolo: "Diversi detti spirituali per accendere le anime devote al puro amore di Jesù et Maria". L'opera è in due parti: nella prima sono riportate sentenze spirituali o norme di vita; nella seconda si ha il diario di meditazioni e risoluzioni pratiche. Lo scrisse al trentatreesimo anno di età". Nonostante l'avallo tardivo di un vescovo a testimoniarne la veridicità (anno 1735), molti dubbi sussistono sull'originalità dello scritto e il testo appare come totalmente o in parte opera posteriore.

            La fama che si era diffusa in Viterbo e nelle zone vicine fece affluire intorno alla salma esposta in S. Maria delle Rose, sede dei Sacconi, una moltitudine di persone eccitate che nessuno riuscì a tenere a bada: per ben tre volte, nonostante l'intervento di soldati armati, si riuscìad impedire che gli abiti di Giacinta fossero strappati e tagliuzzati per ricavarne reliquie, fino a spogliare completamente il corpo senza vita; anche le unghie e i capelli furono tagliati e cosìfu minutamente spezzettata la corona di rose che le era stata posta intorno alla testa...ma l'entusiasmo della folla giunse al parossismo quando uno storpio, che lentamente era riuscito ad arrivare a toccare la morta, alzando al cielo le stampelle, dimostrò di essere stato miracolosamente sanato. Finalmente, due giorni dopo il decesso furono celebrati i funerali e il corpo mortale di Giacinta, avvolto in un semplice lenzuolo, fu tumulato nella sepoltura davanti all'altar maggiore della chiesa di San Bernardino, in piazza della Morte, a Viterbo, ove si trova ancor oggi, in un sacello più volte rimaneggiato e abbellito e definitivamente rifatto dopo le distruzioni provocate all'edificio dalla seconda guerra mondiale, edificio  che porta il nome di S. Giacinta. Una reliquia della santa si conserva nella chiesa di Vignanello e cimeli sono tutt'ora nel palazzo Marescotti-Ruspoli della medesima località dell'alto Lazio e nell’archivio della basilica dell’Osservanza di Siena, nella quale ebbi la fortuna di incontrare il vecchio fratello di mio amico storico della Resistenza Italiana,  frate Remigio, che mi mostrò le preziose reliquie.

            Dopo la morte la fama di "santità" di Giacinta si propagò non solo nelle terre vicine a Viterbo ma anche in regioni lontanissime. I miracoli a lei attribuiti iniziarono prestissimo a compiersi e sono mirabili in quantità ed effetti. Storpi che riacquistano l'uso delle gambe; ciechi che recuperano la vista; salvataggi da annegamenti e da cadute mortali; guarigioni da malattie contagiose e altri ancora. Per questi moltissimi miracoli, rigorosamente esaminati dalla Sacra Congregazione dei Riti, il pontefice Benedetto XIII, con decreto del 14 luglio 1726, promulgò la beatificazione.

            La cerimonia solenne fu celebrata nella basilica di San Pietro il 1 settembre dello stesso anno. Il culto per la Beata Giacinta si fece ancora più intenso e i miracoli seguirono meravigliosi. Tre furono rigorosamente esaminati dalla Congregazione dei Riti e posero il suggello alla causa di canonizzazione. Il 15 agosto 1790 il papa Pio VI promulgò il decreto che sanciva in eterno la santità di suor Giacinta Marescotti o della Vergine Maria.Per l'esilio e la morte in prigionia del pontefice la solenne cerimonia di canonizzazione fu rinviata e toccò al suo successore, Pio VII, il 24 maggio 1807, festa della SS. Trinità, a proclamarla Santa con una solenne cerimonia in San Pietro a Roma.




Episodio di Cugnanello.
Contatti coi Ruspoli e lettera.
P.Flamino Annibali, da Latera – Vita della vergine S. Giacinta Merescotti, Roma, A.Fulgoni, 1805.
Anonimo frate e suora di Montieri, primo Novecento.
Piccola Biblioteca Francescana, S. Giacinta Marescotti, anni 20-30 del Novecento.
Testimonianza di padre Remigio, Basilica dell’Osservanza di Siena.

Calendario Annuale, gennaio, 30.

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