martedì 15 settembre 2015


Kafka e  “i nonni”.

Dato che erano apparse precocemente, in lingua italiana, le “Opere” di Kafka mi ci sono imbattuto prestissimo. Erano gli anni della dittatura staliniana e del caos che seguì alla sua morte, quando cioè le atmosfere surreali del “Processo” e del “Castello” si adattavano alla perfezione alla realtà, in particolare a quella della sua città natale, Praga. Ho visitato quei luoghi aiutato dallo scrittore italiano Angelo Maria Ripellino, che, in un memorabile libro, “Praga magica”, mi portò alla loro scoperta. Infine, soggiornando a lungo entro un ambiente ebraico, tra persone malviste e vessate dal regime, ascoltando le storie delle infinite angherie (ed anche dei “processi” veri, come a Slansky, già segretario del Partito Comunista Cecoslovacco, condannato a morte e giustiziato nel 1952, appreso dalla viva voce di una sua familiare, parente stretta del mio amico Rudolf), mi ero immerso così tanto nei personaggi di Kafka da averli costantemente presenti nella mente. Oggi resta il fascino letterario, mentre la simbiosi romanzo-realtà è più sfumata, direi allontanata dalla mitteleuropa e nessun viaggiatore occidentale è obbligato a quelle interminabili ed incomprensibili sedute negli uffici di Polizia per registrare la propria presenza e perché? dove? con chi? ecc. ecc. Ore di attese in corridoi male illuminati, in stanze spoglie, tra montagne di carte in disordine, interrogati da uomini sciatti e, molte volte, avidi, dato che era una interminabile richiesta di denaro per bolli, timbri, permessi di soggiorno e qualche pacchetto di sigarette americane! Inoltre un’ombra di sospetto mi accompagnava anche fuori, camminando nelle vie della città, o nelle strade di campagna: non sapevi mai se chi incontravi e ti salutava era un curioso, una persona gentile, un poliziotto o una spia! E così era per le persone da cui vivevo, sempre più esposte per “fraternizzare” con un occidentale, un “capitalista”. Naturalmente non c’era parata, corteo, manifestazione politica pubblica di massa alla quale si poteva mancare! Anzi, era sempre meglio mettersi in vista e salutare col pugno alzato! Una volta, molti anni dopo, guardando le fotografie di quei tempi, mia figlia mi disse: “Ma, ci pensi babbo se ora in Italia vedessero queste fotografie mentre anche tu inneggi al comunismo sovietico ed ai  suoi piccoli dittatori?” Davvero atmosfere kafkiane! Ora a Praga è tutto cambiato, in ogni magazzino si comprano una infinita varietà di magliette con le immagini ispirate alle opere di Kafka ed il suo ritratto.


In quanto ai “nonni” mi rendo conto di aver raccolto poche testimonianze e di aver scritto pochissimo, non più di tre o quattro poesie. Di loro ne ho praticamente conosciuta soltanto una, la nonna paterna: Enélida. Gli altri son morti presto, e due, quelli materni, sono stati degli estranei. La nonna Enélida l’ho conosciuta in seguito alla separazione dei miei genitori che avvenne quando avevo l’età di cinque anni. Accaddero allora molte cose importanti. Nonostante che il giudice avesse assegnato me e la mia sorellina al mio babbo, per circa due anni ho vissuto insieme alla mamma in un podere lontano dal paese natio. Cominciai ad andare a scuola, che era distante alcuni chilometri e la strada attraversava un grande bosco e zone impervie e selvagge. Naturalmente devo esserci andato solo per pochi giorni, così bocciai e dovetti ripetere la prima elementare. Un giorno dell’anno seguente decisi di non ritornare più al podere della mamma. Mi presentai alla casa della mia nonna che mi accolse volentieri. Aveva allora 62 anni, e mio nonno, Dario, suo marito, ne aveva 67 e morì, non si sa bene di che cosa, due anni dopo, nell’estate del 1948. Il babbo era giovanissimo, circa 30 anni di età, andava e veniva dietro alle sue passioni: la musica e le gonnelle! Gli ero un po’ di impaccio, ma mi voleva molto bene. Un bene che è aumentato sempre più con il trascorrere del tempo, fino a che i ruoli non si sono invertiti: quando all’età di 69 anni è morto io ero diventato il babbo e lui il figlio! Ma torniamo alla nonna: nata nel 1884 è vissuta 90 anni, in buona salute. Per circa trent’anni abbiamo dormito nella stessa cameretta. Poco prima della sua morte la intervistai sulle vicende della sua lunga vita e la registrai, un racconto emozionante, anche se non lineare, ma a sprazzi, che adesso non è possibile trascrivere. Però m’ha lasciato molti frammenti di memoria nel mio cervello e nella mia anima, soprattutto andando molto indietro nel tempo rispetto alla sua data di nascita, fin quasi a due secoli fa. L’ho amata tanto. Sapeva leggere e scrivere, aveva conoscenza geografica del mondo, curiosità intellettuale, memoria delle tradizioni, non era religiosa, sapeva raccontare le fiabe, le filastrocche, ricordava i fatti lontani della sua giovinezza allorché sedicenne visse più di due anni sull’isola del Garda al servizio personale di una principessa russa, amava la musica e da giovane cantava stupendamente, soprattutto sapeva cucinare le cose che più mi piacevano! Inoltre, mai un rimprovero, mai uno scapaccione, gli piacevano tutti gli amici che frequentavo e, più tardi, anche tutte le ragazze. Non avendola vista nel fiore degli anni e non possedendo di lei alcuna immagine, salvo una di quando era fanciulla e andava a scuola, che mi aveva regalato Cirano Fiornovelli e adesso ho perduta, ho dimenticato l’immagine della sua bellezza, ricordo solo la simpatia e l’arguzia. Ho questa rara immagine, scattata sul lungo terrazzo della antica casa di Raspino il 24 luglio 1957, quando aveva l’età di 71 anni, l’anno prima dell’ictus che la paralizzerà solo parzialmente, ma senza farle perdere il sorriso e l’amore per me, mio padre e la vita! 

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