Io e gli
ebrei.
La fratellanza stabilita nella
Resistenza tra la classe operaia e gli ebrei italiani si ruppe nel 1967 con la “guerra dei sei
giorni” vinta da Israele. L’ebreo e il comunista, che erano allora vicini, si
separarono. Gli avvenimenti libanesi, Sabra e Chatila accentuarono, nella
percezione popolare, l’aggressività dello stato di Israele, identificato con
“gli ebrei”. La simbolica bara lasciata davanti alla Sinagoga di Roma durante
una manifestazione dei metalmeccanici della CGIL, il diffondersi sui muri delle
città delle scritte anti ebraiche, i casi di discriminazione a macchia di
leopardo in Italia, misero in evidenza il male oscuro alimentato da duemila
anni di intolleranza religiosa verso gli ebrei, accusati, nelle passioni del
venerdì santo, di aver assassinato Gesù, e definiti perfidi durante la messa
preconciliare; un male apparentemente incurabile, che richiederà una “cura
disintossicante” lunga generazioni. Erano i tempi del culto per Arafat e delle
sciarpe coi colori di El Fatah palestinesi. I giovani di sinistra scrivevano
sui muri: “Begin=nazista=genocidio”. Io stesso ero assai confuso. Avevo in
corso dalla metà degli anni ’50 un rapporto epistolare con una giovane
maestrina ebrea di Praga, studentessa di italiano, e fu lei a raccontarmi, per
esperienza familiare, il dramma delle comunità ebree della Boemia, di Terezin ed
Auschwitz. Poi agli inizi degli anni ’60 strinsi un rapporto di amicizia con
alcuni ebrei della Boemia Occidentale, rapporto che ha portato, dagli anni ’70
fino ai nostri giorni, a scambi di visite e soggiorni, lettere, documenti,
amicizia profonda, quasi fraterna. Questi rapporti mi salvarono dall’estremismo
tanto che, all’interno delle piccole comunità ebraiche della Boemia, pur
sapendo della mia militanza nel PCI, venivo accettato come un amico fraterno:
in famiglia, nelle feste, nella Sinagoga. Da allora ho dedicato molto del mio
tempo allo studio, alla ricerca del dramma della Shoah, fino alla scoperta del
Campo di Internamento per gli ebrei maremmani a Roccatederighi, nel comune di
Roccastrada (GR). Parlo di queste cose dopo aver svolto due incontri con una
cinquantina di studenti delle Scuole Medie ed aver rivelato loro il dramma di
Roccatederighi, le responsabilità di un vescovo, e l’uccisione della piccola Gigliola, nata nel Campo di
internamento, deportata all’età di quattro mesi ad Auschwitz e uccisa
all’arrivo del vagone blindato, precedendo di poco babbo e mamma. E’ così che
ho ripreso in mano il libro di Gina Formiggini, acquistato nel 1970 entro il
quale ho trovato due ritagli del giornale l’Unità, dicembre 1982 e gennaio
1983, articoli che mostrerò, di un giornalista che amavo, Emilio Sarzi Amadè. Emilio
sarebbe stato contento di leggere il “romanzo” dal vero scritto da Laura
Paggini sulla vicenda dei bambini ebrei rinchiusi a Roccatederighi e passati
per i camini di Auschwitz con il silenzio di un vescovo, l’omertà popolare, la
dimenticanza che per decenni è stata più pesante della loro morte, di Autorità
e Istituzioni della Repubblica Italiana.
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