mercoledì 16 marzo 2016



RAINER MARIA RILKE.

I sonetti a Orfeo.

2, XXVII.

L’infanzia, così profonda, e promettente,
diviene – poi – nelle radici muta?

Ah, lo spettro dell’effimero
attraversa come fosse un fumo
chi in sé l’accoglie ingenuamente.

Questo noi siamo, come chi vaga trascinato,
e solo questo noi contiamo, di presso
delle forze permanenti, come divino uso.


Ieri, sulle mura di Grosseto, dopo aver visto partire l’amica Simone dalla stazione ferroviaria di Follonica, ed aver gustato un delizioso yogurt-gelato, sono salito sulle mura della città ed ho aperto a caso  il libro di R.M. Rilke “I sonetti a Orfeo”, ed. Classici Feltrinelli, traduzione di Franco Rella, 1991, soffermandomi sul sonetto XXVII, della seconda parte, e, di seguito sugli ultimi due. Come sappiamo, i critici hanno sentenziato che quest’opera, scritta da Rilke in tre settimane, nel febbraio 1922 in Svizzera, a Muzod, in quel brevissimo “innominato turbine” creativo, è forse l’opera più alta, più misteriosa, più complessa e problematica di tutta la letteratura del ‘900. Sull’ultima di copertina, nella breve scheda critica, si leggono le parole scritte da Marina Cvetaeva a Rilke: “Cosa può fare ancora, dopo di Voi, un poeta? Un maestro (Goethe, ad esempio) lo si può superare, ma superare Voi – significa (significherebbe) oltrepassare la Poesia”. Naturalmente ho pensato “alla mia poesia” ed alla sua effimera essenza, che mi invita al silenzio. Ma non ascolto l’ammonimento. Continuo a dare essenza a quelle misteriose parole, fumo che sgorga ingenuamente spontaneo dalla mia anima, e dai suoi ricordi profondi, memoria non solo di me, ma di un luogo e un tempo irripetibili, per placare un’ansia interna e, allo stesso tempo, costruire ponti sospesi sul vuoto, sul cammino che ci condurrà all’ultima verità.  

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