sabato 4 marzo 2017





1956, l’anno della grande neve.


         In gennaio fiorì il ciliegio stento ed i suoi rami s’affacciavano alla nostra finestra  in quella casetta di legno in affitto inondando la piccola stanza di un dolceamaro profumo, mentre mio padre lanciava nell’infinito le note della fisarmonica e la nonna preparava la parca mensa. All’inizio di febbraio il cielo s’imbiancò, e fu l’inizio della grande neve, come nessuno l’aveva mai vista tra questi monti sfiorati dai venti di mare, dicevano i vecchi intorno al canto del foco. Quattro famigliole abitavano al primo piano la casa di Raspino, due stanze per Gelasio, l’anarchico irriducibile ed i suoi gatti, due stanze per la sorella del prete fresca di nozze mature, due stanze per noi e quattro per i proprietari: nonno, genitori e tre figli, un maschio e due femmine. Tra tutti c’era una grande armonia. In quel candore e silenzio irreale arrivò per me la chiamata tanto attesa, presentarmi in Fabbrica per iniziare il lavoro dopo i brillanti risultati della scuola. Avevo ancora i pantaloni corti e alla zuava quando l’età dell’innocenza si dileguò dalla mia vita. Mi feci uomo presto, tra il male e il bene d’ogni giorno, nell’alternarsi di passioni e delusioni che tra quelle migliaia di tute blu si strinsero a me. Imparai a nascondere la verità dei palpiti del cuore, a voltar giubba, come si diceva, all’occorrenza, e lasciate in disparte le romanticherie e i languori di fatui amori, gettarmi nel malestrom dei sensi, allora acuti. Non ho mai fatto il bilancio di quell’anno, perché l’amore non si misura col metro, come la neve, anche se la neve, come l’amore si scioglie. Ma so’ che amai e che fui riamato, detti e ricevetti amicizia e carezze, in cambio delle antiche certezze! Conobbi l’asprezza della “lotta di classe”, in quel sogno dell’uomo nuovo del comunismo, e l’arroganza, più che degli invisibili padroni, dei loro servi senza fede e cuore. Chi mi fece le prime domande ideologiche, che ben ricordo: hai letto Come fu temprato l’acciaio? No, e  La strada di Volokomosky, nemmeno, allora devi leggere il Poema di Lenin ed anche Makarenko…fu licenziato e forse lo voleva. A quel tempo leggevo Saba, Andersen, Cassola,  Per chi suona la campana, facevo il tifo per Coppi e la Juventus, e come un segugio seguivo le danzanti gonnelline di sorridenti ragazzine. Fu anche l’anno del sorpasso del sindacato bianco su quello rosso, dimenticati i valori e i tempi della Resistenza, mentre riaffioravano tristi figuri nella nomenclatura nazifascista nei posti che contavano. Ministri, vescovi, preti e politicanti si aggiravano nei luoghi del potere. D’altra parte non andò meglio alla gente di Ungheria e in quella grande Messa a suffragio delle vittime, partecipai anch’io in prima fila, cercando di farmi fare una fotografia, il segno che c’ero. Bassezze, ma in segreto lieto che nel mio Borgo non fosse esposto il gonfalone col nastro nero a lutto mentre il prete scampanava a morto. Infine venne il disgelo e sotto la gran neve spuntarono i timidi crochi.  Per me gli amori carnali e veri, anche se brevi, con servette, fruttivendole e contadine, che nulla sapevano della lotta di classe, di Carlo Marx, di Stalin e Togliatti, e nemmeno di entalpia, decremento, rapporto gas vapore, ma non ignoravano, anzi erano desiderose di apprendere i fatti dell’amore, più delle smorfiose fanciulle chiesa e famiglia del paese, che tra le gambe avevano alzato il muro di Berlino, e mai ti avrebbero  concesso né una carezza ardita né un bacino!   

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