sabato 25 agosto 2012


QUALCOSA BOLLE IN PENTOLA

Qualcosa bolle in pentola!
Più che della “pentola” ho un ricordo lontano del “paiolo” di rame sempre attaccato alla catena del camino, perennemente in bollore, estate ed inverno, perché nel ciclo delle stagioni c’era sempre qualcosa da cuocere, ad esempio il latte, le barbabietole, le castagne, le patate, la polenta…o la carne di pecora e di maiale… In questo ricordo lontano mi vedo, insieme ad un gruppetto di mocciosi coetanei, quattro o cinque, tra i quali mia sorella e mia zia, quest’ultima più grande di me di solo un anno, una volta che dal paiolo tutta la ricotta era stata estratta e non ci restava che un siero torbido, armati di mestoli pescare fino all’ultimo residuo solido di cosa restava della bollitura del latte in un liquido detto “scotta”. Anche la “scotta” si serbava, sia per mescolarla con un po’ di semola per i maiali, sia per sorseggiarla noi,  moderatamente, dato che  “scioglieva il corpo”.
Ma, credo, che questi ricordi lontani non interessino a nessuno, troppi anni sono passati da allora!. Se la pentola o il paiolo si equiparano alla “vita”, che c’è di nuovo, oggi, che, a fuoco morto o vivo, non si agiti, gorgogli, mandi nell’aria segnali di vapore ecc. ecc.? Cosa bolle e cuoce in pentola? E’ una domanda solo apparentemente banale, alla quale confesso di non saper rispondere. Sono “vivo” (cogito, ergo sum!), quindi il fuoco è acceso e la pentola, con l’acqua che ci rimane, sta bollendo. Ma cosa ci sia nell’acqua, prodotti vegetali, o incantesimi e sogni, oppure sostanze commestibili…non lo so’. Non ho parlato di attese e speranze, che ribollono nella giovinezza. E nemmeno di tristezze, malattie, solitudini, dell’estrema vecchiezza. Il filo invisibile che lega al mio numerosi sparsi destini, benché non strappato, non è in tensione, ma potrebbe tendersi all’improvviso per un volontario o involontario moto. Ed allora ecco che la pentola delle Parche riprenderebbe vivacità.

Posso dirvi, abusando della vostra pazienza, la novella della bella Rosina (che nel pentolone ci trovò l’amore).

Quando i polli ebbero i denti
e la neve cadde nera
(bimbi state bene attenti)
cera allora, c’era…c’era…

…nei tempi passati, un pover’uomo che rimase vedovo con una bambina di nome Rosina. Per campare e accudire alla bambina fu costretto a riprendere moglie dalla quale ebbe una seconda figlia, che fu chiamata, impropriamente, Assunta. Ma dopo poco anche lui morì per il troppo lavoro e per le cattiverie della nuova moglie. Le bambine crescevano insieme, ma mentre Rosina era bella, solare e garbata, Assunta era brutta, nera come un tizzo di carbone e maleducata.  Assunta si struggeva d’invidia vedendo la grazia e la bellezza di Rosina e non voleva più andare al villaggio insieme a lei. La matrigna, che vedeva la figlia intristire per la gelosia, pensò di mandare Rosina a pascolare le vacche sulle remote pasture della montagna. Mentre le parava doveva filare cento rocche di canapa, e se la sera fosse ritornata senza canapa filata e con le vacche affamate l’avrebbe picchiata tanto da farla diventare, picchia oggi e picchia domani, più brutta di Assunta. Lassù alla malga Rosina disse alle vacche: “Vaccherelle mie, come farò a segarvi l’erba e a governarvi se ho da filare cento rocche di canapa?” Allora la più vecchia delle vacche così le parlò: “Non sgomentarti Rosina, tu falcia il fieno per noi e noi ti fileremo la canapa. Basta che tu ce l’ordini con queste parole”:

Vacchicina, vacchicina,
con la bocca fila fila,
con le corna annaspa, annaspa,
fammi presto la matassa.

E quella sera le vacche ritornarono alla stalla contente e satolle e la canapa era tutta filata. La matrigna digrignava i denti dalla rabbia e l’avrebbe mangiata viva. Ma dovette rassegnarsi. Il giorno dopo e per altri giorni ancora si ripeté la stessa storia. Allora Assunta disse alla madre: “madre ho voglia di mangiare raperonzoli. Stasera mandate Rosina a coglierli nel campo dell’Orco, lui la scoprirà e la mangerà!” Detto fatto. Così la Rosina si mise ad andare di notte, scavalcò la siepe ed entrò nel campo dell’Orco. Non aveva fatto a tempo a sbarbare i raperonzoli quand’ecco l’Orco che arriva,annusando qua e là:

Ucci ucci
sento odor di cristianucci
o ce n’è o ce n’è stati
se li trovo rimpiattati
me li mangio tutti!

E cercava, tirando su con il naso, cercava, fino a quando, dietro una grossa rapa vide la bambina. Svelto la chiappò e la mise nel suo sacco. Intanto cominciò a urlare con la sua voce tonante:

Catera, metti al fuoco la caldera
che la Rosina ho chiappo!

Meglio per noi, perché, come sappiamo, la storia avrà un lieto fine e l’Orco e Catera, resteranno a bocca asciutta. Rosina, protetta dalla Fata che già l’aveva aiutata trasformandosi nella vecchia vacca,  aveva con se una bacchettina fatata, che teneva nascosta nella tasca del suo vestitino e che le dava coraggio. Intanto nella casa dell’Orco era acceso un gran fuoco e sopra il fuoco bolliva un enorme pentolone, che Catera rumava continuamente aggiungendo all’acqua erbe aromatiche per insaporirla. Alla vista di Rosina le venne l’acquolina in bocca, ma prima c’era da fare il pane, e il forno era acceso da tempo e i ceppi erano ormai diventati ardenti carboni. “Rosina metti il pane in forno!” gli comandò. Detto questo la prese sgarbatamente per un braccio e ce l’avvicinò, fin quasi a farla lambire dalle braci che avvampavano. “Infilati dentro e guarda se è ben caldo perché dobbiamo infornare il pane!” (Così, mentre Rosina saliva dentro il forno lei l’avrebbe chiuso facendocela arrostire viva!) Come si sa alle Orchesse piace molto di più l’arrosto che non il lesso! Ma con la sua bacchettina fatata Rosina non ebbe paura e gli rispose: “Non so come fare ad entrarci!” “Brutta sciocca, guarda com’è grande l’apertura, potrei entrarci anch’io!” E detto questo si avvicino alla bocca del forno: Rosina non fece complimenti, la prese per il culo e ce le ficcò dentro. Poi chiuse il forno e tirò il catenaccio. Uh! Che urla orribili uscirono dalla gola della strega cattiva! Ed ecco arrivare l’Orco richiamato da quelle grida spaventose. Fece per agguantare Rosina che con in mano la sua bacchettina disse:

Orco cattivo Orco birbone
buttati dentro il pentolone!

A questo comando l’Orco si tuffò nell’acqua bollente dalla quale tornò immediatamente a galla trasformato in un bellissimo Principe biondo, tutto vestito d’oro e di broccato. L’incantesimo che l’aveva trasformato in Orco era svanito con la morte della malvagia strega. Si può aggiungere, che il giovane Principe s’innamorò a prima vista di Rosina e che questo amore venne ricambiato. E quando fu il tempo e i due giovani furono cresciuti, fu fatto una magnifico sposalizio e un banchetto che durò sette giorni e sette notti! Pive, fagotti e cornamuse suonarono armoniosamente, e furon servite le vivande: i quattro quarti del montone che portò Elle e Frisso per lo stretto della Propontide; i due caprioli della celebre capra Amaltea, nutrice di Giove; i piccoli di quella cerbiatta Egeria, consigliera di Numa Pompilio; sei paperi covati da quella degna oca Ilmatica la quale col suo canto salvò la Rocca Tarpea di Roma; i maialini di Troia; il vitello della vacca Ino, così mal guardata da Argo; il polmone di quella volpe che Nettuno e Vulcano avevano così mal fatata, a quanto dice Giulio Polluce “in Canibus”; il cigno nel quale si convertì Giove per amore di Leda; il bue Api, di Menfi in Egitto che rifiutò di prender cibo nella mano di Cesare Germanico, e sei di quei buoi rubati da Caco e recuperati da Ercole; i due capretti che Coridone salvò per amore di Alexis; il cinghiale erimantico, olimpico e colidonio; i cremasteri del toro tanto amato da Pasifae; il cervo nel quale fu trasformato Atteone; il fegato dell’orsa Calisto. E poi: trentasei primi tra i quali i deliziosi “stronzi fini alla sberlottina”, la “promerdis, vivanda sovrana”,  e delle “cornamcuse, rivestite di brezza”. Come secondo servizio furon portati cinquanta piatti, tra i quali, particolarmente apprezzati: il “cacciucco di pecora all’erbe fini”, “la “testina di cinghiale in salmì”, le “budellina d’agnello alla Marsicana”, le “coglie di vitello  trefolate alla maniera antica”, il “lardo d’asino”, i “lippe-lappe”, e la “marmittaglia in pisciaforte”; per ultimo furon portati  ventinove stuzzichini per alimentar l’appetito, tra i quali: “la neve dell’an passato”, la “pica candita”, “l’uccabarucca” e dei “soffiaminculo”. Come dessert giunse, graziosamente sorretto da due splendide fanciulle, un gran vassoio di merda coperto di stronzi fioriti: che era un gran piatto pieno di miel bianco, rivestito d’uno strato di aranci canditi, e come contorno, teglioni di “Pionono“, giunto per l’occasione dal paesello di Sante Fe nell’Andalusia e immense zuppiere di “latte alla portoghese”. La bevanda fu servita in tirlarigotti, bel vasellame antico, e fu un beveraggio assai gradevole e inebriante. Finito il pranzo furon levate tutte le tavole e allora suonando più melodiosamente di prima i menestrelli, fu comandato dal maestro delle Feste un “passo doppio” e dopo, al suono divino delle pive, tutti i commensali danzarono in vario modo le duecento e più ballate, tutte originali di quel ricco Paese, tra le quali destarono ammirazione “Si, sono assai procace…”, “qui venite a toccarmi  o buon curato…”, ”all’ombra di un boschetto, sull’erbetta…”, “Guglielmino vien quà, morbido è il saccone…” e soprattutto “Pellegrin che vien da Roma…”, la “Ciaccona”, “l’ortolano e le dolci monacelle…” e infine, per conclusione,  “la mia voglia è sol d’amare!” Si seppe poi che per magia delle danze e degli abbracciamenti più di trecento giovani e fanciulle convolarono di li a poco al talamo nuziale.

Così finirono tutti i guai per la dolce Rosina ed i due principi vissero insieme per tutta la vita felici e contenti in un reame lontano lontano, mentre di Assunta e della matrigna si persero le tracce fino a quando non giunse la notizia che erano state trasformate in un sasso tondo  ed in un osso di morto, per l’eternità, ossia fino a che il mondo dei sogni esisterà.

La pentola bolle,
alla fiamma fiammante,
in attesa noi siamo
quassù all’Aquilante!

La mia fiaba v’ho detto
laggiù corre un sorcetto
prendigli il pelliccione
e fatti un berrettone!
 
Stretta è la foglia
largo il bocciolo
con la pelle del culo
faremo un bel lenzuolo!

Stretta è la foglia
larga la via
dite la vostra
che ho detto la mia!

NOTE AL TESTO

Testo letto alla riunione del PIL di Belforte, alla Casa della memoria L’Aquilante, domenica 4 novembre 2007. Scritto a dieci mani, con importanti varianti e accurato mixage, da:  “…Der Bruder Grimm, Freund Karl, Meister Calvino und Herr Professor Rabelais” e quattro versetti di Guido Gozzano. Spero che dal Paradiso mi perdonino!

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