giovedì 27 giugno 2019






La descrizione del fatto (di Niccioleta) 
secondo le testimonianze raccolte da Mauro Tanzini,
manoscritto senza data ed altri resoconti dalle mie ricerche.

 «…alle miniere di Boccheggiano e Niccioleta, già prima del 25 luglio 1943, esisteva un Comitato Antifascista che tanta parte ebbe nel reclutare nuovi proseliti alla lotta di Liberazione. Dopo l’8 settembre ’43 l’opera di reclutamento partigiano condotta senza tregua dai minatori, risultò decisiva ai fini della costituzione dei primi nuclei partigiani nel Massetano. Bisogna obiettivamente affermare che tale opera trovò terreno particolarmente fertile fra i giovani. E’ anche doveroso ricordare che, prima che subentrassero i CLN a dirigere la lotta di Resistenza, il Comitato Antifascista dei Minatori fu quello che diresse e sostenne con viveri e mezzi il movimento partigiano operante nel territorio delle Colline Metallifere. 

Nel corso dei dieci mesi, di durissima lotta partigiana, il contributo dato dai minatori fu d’estrema importanza. La III Brigata Garibaldi banda «Camicia Rossa», e la XXIII bis Brigata Garibaldi «Guido Boscaglia» furono sempre assistite quando si trattava di procurare ed usare gli esplosivi. 

I primi di giugno ’44, in previsione del passaggio delle truppe tedesche in ritirata, i minatori antifascisti della Niccioleta, stabilirono di organizzare un servizio di guardia agli impianti della miniera. Vennero compilati degli elenchi con i nominativi (83 minatori), sui quali erano indicati i turni. In seguito a delazione dei fascisti della Niccioleta, all’alba del 13 giugno, il villaggio fu preso d’assalto e accerchiato da reparti delle SS tedesche e da militi repubblichini. 

I militari tagliarono i fili del telefono e, armi alla mano, perquisirono tutte le abitazioni. Durante le perquisizioni, dietro indicazione precisa dei fascisti locali, furono trovati gli elenchi dei minatori che montavano la guardia; pertanto tutti gli uomini furono fatti uscire dalle case, con le braccia alzate e furono spinti di fronte allo spaccio aziendale. Dinanzi al gruppo furono piazzate due mitragliatrici. Chiamati per nome e cognome furono fatti uscire dal gruppo sei uomini, ritenuti dagli stessi fascisti locali i promotori del servizio di guardia e collaboratori dei partigiani operanti nella zona. 

Tutto il gruppo degli ostaggi (erano stati prelevati 150 uomini, tra cui alcuni ragazzi), furono rinchiusi nel rifugio antiaereo, sorvegliato all’ingresso da militi armati con fucili mitragliatori. Il gruppo dei sei fu condotto dietro lo spaccio aziendale e quindi fucilato. Tra loro un’intera famiglia: il padre coi due figli. Alla sera dello stesso giorno gli ostaggi furono fatti uscire dal rifugio e, sotto scorta armata, portati a piedi sulla strada provinciale e poi fatti salire su alcuni camion verso Castelnuovo di Val di Cecina. Nessuno degli sventurati tentò la fuga. 

Emilio Banchi, uno dei 150 ostaggi e padre di Eros (assassinato con i 77) mi rese testimonianza: «…dopo la fucilazione dei sei minatori il comandante ci assicurò che nessuno degli ostaggi sarebbe stato passato per le armi, ma saremmo stati adibiti come lavoratori, in parte inviati in Germania ed altri al Nord Italia. Con questa assicurazione ci facemmo la guardia l'un con l'altro, anche perché ci avevano avvertito che se uno tentava la fuga saremmo stati fucilati. Pertanto ritenemmo giusto che per nostra sicurezza non fossero stati avvertiti i partigiani. Ma purtroppo non fu così. Il giorno 14 giugno, alle ore 18, un tenente delle SS con il suo interprete entrò nel teatro di Castelnuovo dove eravamo stati rinchiusi. Furono chiamati i nominativi di coloro che erano inclusi nell’elenco dei turni di guardia, cioè 77 uomini. Il gruppo dei 77, sotto scorta armata, fu fatto uscire dal teatro e trasferito nei pressi della centrale geotermoelettrica di Castelnuovo. Il gruppo fu fatto scendere dentro un “vallino” a forma semicircolare e, con fuoco di mitragliatrici, furono tutti barbaramente uccisi. I giovani delle classi dal 1914 al 1927 che non erano inclusi negli elenchi in loro possesso, furono deportati nei Lager tedeschi, in Germania. Compiuta l’orrenda strage, il capo degli assassini e l’interprete, tornarono nel teatro e agli ostaggi rimasti fu detto: “Noi siamo stati avvisati da persone della Niccioleta che nel villaggio vi era un vasto movimento di partigiani che tra l’altro rappresentavano un serio pericolo per gli abitanti. Noi siamo intervenuti prontamente, voi tornate alla Niccioleta, ma ricordatevi che se venissimo a conoscenza di qualche altro movimento partigiano nel villaggio, noi interverremo di nuovo, sia tra una settimana sia tra sei mesi e vi faremo fare a tutti la fine che hanno fatto i vostri compagni». 

I primi a recarsi sul luogo dell’eccidio furono alcuni castelnuovini unitamente al Commissario Prefettizio del comune, p.m. Nello Fusi, ex cittadino di Massa Marittima, capo del Servizio Perforazioni della “Larderello SA”. Il giorno 15 si rese urgente provvedere alla sepoltura delle povere vittime cadute l’una sull’altra in una bolgia dantesca: dal terreno melmoso uscivano le manifestazioni di vapore endogeno che addirittura cuocevano i corpi già straziati rendendo ancor più raccapricciante la scena. Il Commissario Prefettizio si adoperò perché si approntasse immediatamente una fossa dietro l’abside della cappella del cimitero comunale per deporvi le salme, tenendo conto anche dei minimi particolari che, all’indomani dell’esumazione, sarebbero serviti ai familiari per il loro riconoscimento per ricondurle nei luoghi d’origine. A questo pietoso lavoro partecipò la popolazione di Castelnuovo che, in questa circostanza, sotto la sapiente guida della cittadina Bianca Gambacciani Cheli, si prodigò in una grandiosa opera di solidarietà umana.

Nel tempo si saprà che la strage degli 83 minatori della Niccioleta consumata dai nazifascisti è stata forse la più feroce rappresaglia effettuata in Italia contro i lavoratori. Nella storiografia della Resistenza Italiana è un episodio appena accennato. Certo, quanto accadde in un villaggio minerario come Niccioleta non destò l’interesse che suscitarono fatti verificatisi nei grandi centri industriali di Genova, Milano, Torino, Trieste ecc.ecc. Il sacrificio degli eroici minatori di Niccioleta è rimasto oscuro come quello del “Milite Ignoto”. 

Le parole più belle l’ha scritte padre Ernesto Balducci, compaesano di molti di quei minatori e finalmente uno storico di valore, Paolo Pezzino, ha pubblicato recentemente due volumi sull’eccidio di Niccioleta, frutto di una rilettura degli atti processuali e di minuziose indagini in Italia e all’estero. I minatori di Niccioleta sono stati riconosciuti “partigiani combattenti”.Nel capitolo “Stragi, eccidi, rappresaglie”, in Dizionario della Resistenza, II, Niccioleta, pp. 393-394, voce firmata s.f. (Sessi Frediano), si afferma che “…la responsabilità morale viene oggi attribuita ai capi dei partigiani e agli operai…all’arrivo dei tedeschi i responsabili della presa di Niccioleta non si preoccupano nemmeno di portar via gli elenchi dei turni di guardia…ed è anche per questi atti di leggerezza o di vigliaccheria che il massacro di Niccioleta assume simili proporzioni”. 

Tali lapidarie affermazioni meritano una riflessione: oggi, grazie anche alla penetrante ricostruzione di Paolo Pezzino, Storie di guerra civile. L’eccidio di Niccioleta, cit., opera di grande interesse e di forte impatto emotivo, molti elementi di questo tremendo atto della sanguinaria follia nazifascista che colpì la Toscana nell’estate 1944, sono finalmente chiariti con la rimozione delle innumerevoli stratificazioni depositate sulla vicenda dalla più o meno interessata cronaca agiografica. Tuttavia, pur svelata nei suoi fondamenti, la tragedia dell’uccisione degli 83 minatori e della deportazione di altri 25 giovani, resta in larga parte avvolta nel mistero che nessuna postuma ricostruzione potrà chiarire in mancanza di documenti nuovi e probatori. Ci riferiamo, in particolare, al ruolo del comando delle SS stanziato all’albergo La Perla (che aveva il compito di assicurare la produzione di energia elettrica per il funzionamento delle ferrovie e la produzione delle sostanze chimiche per le industrie belliche tedesche e della RSI), comando in contatto permanente coi proprietari della “Larderello SA”, principi Ginori Conti, e dotato di mezzi di trasporto, di radiotrasmittente, telegrafo e telefono. Anche il fabbricato “La Villa” a Castelnuovo di Val di Cecina, sede del comando tedesco del paese, era proprietà dei Ginori Conti e in comunicazione con La Perla e con la Direzione della “Larderello SA”, il cui personale godeva in larga misura dell’esonero dal servizio di guerra. 

E’ noto che l’intervento di rappresaglia doveva essere effettuato contro i fantomatici “ribelli” che avevano “occupato” Castelnuovo infliggendo “pesanti” perdite ai nazifascisti. Le vicende del 10 giugno a Monterotondo Marittimo, Suvereto, Massa Marittima e Niccioleta, permisero la fuga di quasi tutti gli uomini tenuti in ostaggio a Castelnuovo. La richiesta di aiuto dei fascisti di Niccioleta (che terrorizzati e carichi di odio avevano abbandonato il villaggio minerario), alla Gendarmeria tedesca di Pian di Mucini, e, probabilmente, la venuta a Castelnuovo di uno di loro a chiedere aiuto alle SS, forse i contatti telefonici tra il comandante del III Battaglione, la gendarmeria di Pian di Mucini e la stessa direzione della miniera, avranno indotto a compiere l’azione punitiva e dissuasiva contro i minatori di Niccioleta anziché contro gli uomini di Castelnuovo, ma il luogo dell’eccidio doveva rimanere Castelnuovo di Val di Cecina, come era stato pianificato e ordinato. Non avrebbe senso, altrimenti, l’uccisione in questa località di 81 uomini il 14 giugno; di altri 6 nei giorni seguenti, e il tentativo, fallito per il cannoneggiamento americano ed altre fortuite circostanze, di uccidere altre decine di ostaggi catturati nel territorio delle Colline Metallifere e tenuti prigionieri nei locali del Dopolavoro fascista compresi altri prigionieri prelevati dal Mastio di Volterra. 

L’odio fratricida dei repubblichini contro i “comunisti” di Niccioleta, i torbidi rapporti di alcune donne coi soldati tedeschi, meschini calcoli di una relazione extraconiugale, nonché la paura di dover render conto al giudizio popolare degli abitanti di Niccioleta per anni ed anni di soprusi, vessazioni, connivenze, sui quali si basava il “potere” e il “prestigio” di cui godevano i fascisti, portò all’accentuazione degli avvenimenti e alla denuncia dei propri compagni di lavoro, dipinti a tinte fosche come “partigiani”. Il ruolo ambiguo, se non di colpevolezza, della direzione della miniera fece il resto. Gli errori degli organizzatori dei “turni di guardia”, la precipitazione e il panico di quei momenti impedirono, come si sa, di distruggere i famosi “elenchi” coi nominativi preposti ai turni medesimi, anche se c’è chi afferma che non tutti gli elenchi furono trovati (testimonianza di Mario Fatarella). Ma, crediamo, nulla avrebbe fermato la mano degli assassini. 

Perché essere nell’elenco poteva voler dire “obbligato” a fare il turno dai partigiani e non di essere un componente dell’organizzazione della Resistenza. Un pretesto, e il più delle volte non c’è stato nemmeno bisogno del pretesto per compiere stragi. Pare pertanto ingiusta l’accusa  che Frediano Sessi rivolge, cioè che “è anche per questi atti di leggerezza o di vigliaccheria che il massacro di Niccioleta assume simili proporzioni”. 

Lo storico toscano Claudio Biscarini, Palazzaccio 4 luglio 1944 la memoria scomoda, Siena, Nuova Immagine Editrice, 1997, afferma che «…ben pochi pretesti servivano ai reparti di Kesserling per effettuare le uccisioni dei civili sia in presenza di azioni partigiane o, e questa è la novità, anche non in presenza di tali azioni. Ovviamente l’organico completo di una divisione non ha mai partecipato a una strage, ma solo piccoli reparti o addirittura singoli militari di essa (L. Klinkhammer ha ipotizzato la partecipazione ai massacri in Italia del 5% dei soldati tedeschi)…La recrudescenza «delle misure contro i civili» si ebbe, poi, con lo scontrarsi, dopo l’operazione Barbarossa, con la Resistenza sovietica e con quella Jugoslava. In Italia, nell’estate 1944, i comandi delle armate X e XIV non fecero che applicare le stesse norme che erano di prassi all’est. E quando una zona veniva scelta dal Gruppo di armate C per organizzare una di quelle linee d’arresto di cui la Toscana fu piena, divenne indispensabile sgombrare il territorio da potenziali quinte colonne, con o senza azioni partigiane…se la Magistratura italiana, oggi, dopo Priebke, ha deciso di riaprire le indagini sui casi di stragi in Italia, questo vuol dire che, e giustamente, ognuno resta responsabile davanti alla legge terrena e di Dio, dei propri atti. Lo storico Schreiber, al processo contro l’ex SS Priebke a Roma, ha dimostrato, sulla base di documenti, come fosse possibile la disubbidienza agli ordini categorici di Hitler. Tuttavia, anche ammettendo che ciò non sia sempre stato possibile, specie per un membro delle SS, resta il fatto che oggi sappiamo come spesso sia stata l’iniziativa personale del singolo ufficiale o sottufficiale tedesco, sicuro di passarla liscia in base agli ordini superiori, a scatenare le azioni più terribili…come nel caso del Padule di Fucecchio (non si dimentichi che il tenente Block, responsabile dell’uccisione degli 83 minatori di Niccioleta, fu poco dopo promosso di grado! Nda). 

Uno dei problemi che la Wehrmacht si trovò ad affrontare durante le sue campagne fu la lotta partigiana diversamente organizzata da nazione a nazione. Nella Grande guerra gli eserciti combattevano contrapposti, in trincee poste le une di fronte alle altre, e la popolazione, salvo casi eccezionali, non era direttamente coinvolta nei combattimenti. Il problema si pose con l’operazione Barbarossa all’est. L’esercito tedesco si troverà a contatto con i primi elementi partigiani organizzati in formazioni di notevoli dimensioni e appoggiate dalla popolazione. Scatteranno così le misure già studiate per simili evenienze nel maggio 1936 a Potsdam dai nazisti. Il trattato allora elaborato prevedeva di infiltrare piccole pattuglie o singoli V-manner (informatori) nel territorio sospetto. “Quanti, nella Toscana dell’estate 1944, dovranno la loro morte a “tedeschi disertori” chiedenti aiuto, che riappariranno poi alla guida dei reparti rastrellatori? Quanti, fra questi, erano veramente tedeschi e quanti altoatesini o peggio italiani spesso delle stesse contrade dove si sarebbero svolti i massacri? A titolo di esempio potremmo citare il Padule di Fucecchio (175 morti, 23 agosto 1944) e S. Anna di Stazzema (oltre 500 morti, 12 agosto 1944). 

Altre direttive nella lotta antipartigiana emanate nel 1941 dai vertici della Ordnungspolizei, stabiliscono categoricamente: il nemico deve essere annientato completamente. La continua decisione sulla vita e sulla morte dei partigiani o degli elementi sospetti che si trova dinanzi è difficile anche per il soldato più duro. Va fatto. Agisce bene chi prende in mano la situazione senza riguardi e misericordia trascurando completamente personali impulsi sentimentali di sorta…in tutti i villaggi o abitazioni, che vengono incendiati in una forma o in un’altra, bisogna aver cura di catturare al completo la popolazione…ogni capo reparto deve avere ben chiaro che tutti gli abitanti che sfuggono dopo la distruzione della loro abitazione, diventano nuovi membri di bande e contribuiscono notevolmente a minare la pacificazione della zona». Ma queste popolazioni sono da considerare veramente tutte coinvolte nella lotta partigiana? Secondo gli estensori dei documenti coevi tedeschi, in Italia parrebbe di si. In ogni ufficiale e in ogni soldato si insinua questa convinzione con precise disposizioni. Al Padule di Fucecchio c’erano sicuramente italiani, anche del luogo, mascherati e in divisa tedesca, a guidare gli uomini di Strauch. Chi erano? I V-manner volevano ben 200 ribelli in marcia verso le retrovie della 26^ panzer. Gli esecutori materiali degli eccidi erano spesso ordinary men, inseriti in reparti della Wehrmacht e non nelle più tristemente famose SS. Infatti salvo l’eccezionalità della Goring (16^ Panzer grenadier) e del III Bataillon “Italien”, i massacri furono eseguiti in Toscana dalla 26^ corazzata a Fucecchio, dalla 305^ e 94^ fanteria a S. Polo, e dalla 19^ della Luftwaffe a Guardistallo. Tutti agli ordini di Kesselring. 

Kesserling dichiara, Memorie di guerra, Garzanti, Milano, 1954, p. 263, che le perdite subite dalle sue truppe a causa degli attacchi dei partigiani solo fra il giugno e l’agosto 1944 ammontano a 5.000 morti e da 25.000 a 30.000 feriti e dispersi: la forza di alcune Divisioni! Si può dunque tranquillamente e giustamente affermare che i combattenti alla macchia non potessero esimersi dall’assalire il nemico ovunque e dovunque, pena lo stravolgimento della loro volontaria scelta di lotta.  

Molte delle azioni di repressione tedesche hanno soltanto preso a pretesto gli attacchi dei partigiani per terrorizzare la popolazione. In Frantisek Langer, I fanciulli e il pugnale, Garzanti, Milano, 2001 (romanzo scritto nell’esilio a Parigi e pubblicato a Londra nel 1942 ed in Italia nel 1947), si racconta la storia dell’occupazione tedesca, nel marzo 1939, di un piccolo villaggio della Repubblica Cecoslovacca, Podolì, ubicato nei pressi della città mineraria di Kladno. 

La maggior parte degli uomini di Podolì erano o erano stati minatori. Iniziano gli atti di sabotaggio e di Resistenza contro nazisti. I partigiani agiscono nella clandestinità tessendo una vastissima rete di contatti. A Kladno esplodono alcune miniere e a Podolì è ucciso misteriosamente un maestro elementare, tedesco dei Sudeti, fanatico nazista, che era stato introdotto nel villaggio per conquistare subdolamente la fiducia dei fanciulli riuscendo in tal modo a carpire informazioni delicate su tutti gli abitanti e scoprendo i nomi dei partigiani e degli oppositori. Nel momento in cui la rete si sarebbe dovuta chiudere con l’arresto e la fucilazione di molti paesani, genitori e fratelli degli scolari così vilmente ingannati, il maestro è trovato morto all’interno della scuola e le prove, da lui pazientemente raccolte, sono sparite. Le indagini condotte dalle SS si concentrano sui fanciulli del villaggio (in realtà è proprio uno di loro che ha ucciso il maestro!), ma alla fine un vecchio soldato decorato della prima guerra mondiale se n’assume la responsabilità. 

Il colonnello delle SS ordina un “processo regolare” di fronte a tutto il villaggio, processo che, pur lasciando molti lati oscuri sulla vicenda, porta all’impiccagione del vecchio soldato che, con il suo sacrificio, impedisce l’effettuazione di una tremenda rappresaglia contro la popolazione. I nazisti partono da Podolì per rientrare a Praga: 

«…il colonnello se ne tornava verso Praga. La sua automobile sussultava su di una strada secondaria tortuosa e scavata dal passaggio dei carri a cavalli, riusciva soltanto ad avanzare lentamente nelle carreggiate e nelle buche; ci voleva ancora qualche poco, prima di raggiungere la strada principale. Il colonnello aveva quindi tutto il tempo e la tranquillità per riandare con la mente alla mattinata e, riflettendoci su, si sentiva molto insoddisfatto del risultato. Tutto l’avvenimento gli era sfuggito di mano, diceva fra sé, e, nonostante i bei discorsi con cui aveva motivato gli imprevisti davanti ai suoi ufficiali e a se stesso, la cosa era finita in modo contrario alle sue intenzioni. Come mai era potuto accadere un fatto simile? Si era proposto, e l’aveva creduto molto spiritoso, di ottenere dai ragazzi notizie su quanto di sovversivo si tramava nel sottosuolo di quella regione; aveva mandato in mezzo a loro il falso maestro, il tenente Helmuth, simpatico e promettente giovanotto, e uno di quei bambini lo aveva ucciso. Non era stato possibile punire il colpevole, un bambino sicuramente, perché non soffrisse il prestigio della potenza tedesca dimostratasi così vulnerabile…e così si era dovuto accontentare di un tipo che si era offerto spontaneamente per la forca. La cosa sembrava del tutto logica, ma il bilancio totale era misero…ma in qualcosa c’era stato un errore. Dove? Il colonnello se lo confessava: in lui stesso. Si era allontanato dalla pratica abituale…si era baloccato col tribunale e con l’accertamento della colpa, perché aveva voluto punire secondo giustizia e il Reich tedesco era rimasto soccombente nel duello con quel miserabile villaggio ceco e coi suoi mocciosi. In nome loro aveva vinto quell’uomo volgare, poco interessante, a cui la morte era indifferente o rappresentava persino un onore. Per giunta il colonnello ammetteva di aver sbagliato anche nel farlo impiccare sul grande albero in mezzo al paese. Così l’esecuzione era diventata quasi un’apoteosi e dell’impiccato egli aveva fatto un eroe paesano. Era evidente. Errori su errori. E la loro origine? Ora lo sapeva. Proprio perché aveva cominciato a gingillarsi con la giustizia, il tribunale, il diritto, la legge e simili concetti... Certo era stato soltanto un simulacro di giustizia, un tribunale da commedia, un giocare col diritto: soltanto una parodia e una beffa. Ma in cose quali il diritto e la giustizia vi è una concatenazione logica che comincia ad agire se tu le metti in moto, fosse anche nelle loro più povere e ridicole forme. Non ci devi scherzare…Era stata una mattinata disgraziata, se n’era ripromesso qualcosa di ben diverso. In avvenire si sarebbe attenuto sempre alla pratica che la potenza del Reich aveva codificato: in avvenire, se qualcuno dei criminali villaggi cechi avesse commesso qualunque cosa di punibile, semplicemente, senza investigazioni e processi egli avrebbe fucilato tutti gli uomini, deportato le donne ai lavori forzati, avrebbe dato i bambini da allevare in Germania. Questa genia non bisognava trattarla diversamente…la sua automobile attraversava in quel momento un villaggio molto lentamente, perché la strada stretta tra le casupole era dissestata in modo particolare. Il paese era pressappoco uguale, il gemello, quasi, di quello che aveva lasciato poco prima. Si, fucilare gli uomini, cacciare le donne, portare via i bambini e quella miserabile borgata incendiarla, o fracassarla a cannonate e raderla al suolo affinché sparisca uno dei nidi dove questa plebaglia può vivere e moltiplicarsi e che sono soltanto ostacoli al nostro cammino tedesco. L’auto passava lentamente accanto all’ultima casa sulla quale, come dovunque in Boemia, era attaccata una tavoletta ovale azzurra col nome del paese che aveva appena attraversato. Il colonnello la lesse. Vi stava scritto: Lidice». 

Se la storia fosse stata ambientata in Italia, quando ormai alla pianificazione del terrore si aggiungevano l’odio e la frustrazione per l’imminente sconfitta, militare e morale del creduto invincibile Reich tedesco, sulla targa del villaggio si sarebbe potuto leggere: Niccioleta, Guardistallo, S. Anna di Stazzema, Forno, Fucecchio, Vinca, Fosse del Frigido, Civitella di Val di Chiana, Cavriglia, Castelnuovo dei Sabbioni, San Pancrazio, Boves, Marzabotto, Foiano della Chiana, Castelnuovo di Val di Cecina…

In merito infine alla assenza di indagini  per individuare e processare i colpevoli delle stragi e delle rappresaglie, sia italiani che tedeschi, vedi la recente opera di Mimmo Franzinelli Le stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Trento, Mondadori, 2002, pp. 100, 142, 289, 363, che riporta alcune notizie sintetiche dell’eccidio di Niccioleta: «Castelnuovo di Val di Cecina (Pisa), n. 1201, Tenente delle SS della Turingia Walter, Rahtman Willy, maresciallo Exner e altri militari tedeschi; violenza con omicidio; parte lesa: B.R, B. A, P. O, e altri 75 ignoti; ente denunziante: Tenenza CCRR di Pisa; archiviazione provvisoria 14 gennaio 1960, trasmissione alla Procura militare di La Spezia 30 novembre 1994 (Il 13 giugno 1944 reparti italo-tedeschi fucilarono 6 uomini alla miniera di pirite della Montedison, nel villaggio di Niccioleta (occupato alcuni giorni prima dai partigiani), conducendo centinaia di rastrellati a Castelnuovo, dove l’indomani un gruppo di 77 prigionieri fu passato per le armi».

Nota di Groppi Carlo, utilizzata in parte nei vari capitoli del  volume La piccola banda di Ariano. edizione 2003.


Nessun commento:

Posta un commento