venerdì 14 dicembre 2018











GRAZIE SAMUELE!

Mercoledì 12 dicembre 2018, sono andato a Siena a salutare un amico artista, un grafico, Samuele Calosi, che ha uno studiolo-expo in Via della Sapienza, 17. Un poeta che utilizza l’inchiostro di china  per il suo “puntinato” ottenuto per mezzo di penne rapidograph con punte di 0,1 e 0,2. Le forme prendono corpo per effetto del chiaroscuro. Scene e figure della vita contadina, dal medioevo a quella delle campagne senesi di appena  mezzo secolo fa, delle quali ha un ricordo diretto dai racconti dei nonni. Mi è piaciuto il suo lavoro, mi emozionano le sue opere, mi stupisce, nel mondo di oggi, la sua umiltà ed anche il suo progetto rappresentativo: dare vita e dignità hai fittavoli e mezzadri, ai loro armenti, agli strumenti dimenticati, rozzi e arcaici, come il loro dolore. Condivido infine l’anelito, io stesso che sono poeta, di gettare un fascio di luce a dissipare la dimenticanza, riportando sul proscenio della storia i nostri antenati. Di questi ultimi mesi Samuele mi mostra alcune opere, due delle quali ritengo emozionanti: due maternità, una quella di Gesù, nella sua cruda bellezza senza orpelli, l’altra quella di una pecora nera che allatta l’agnellino bianco. Parlano più di un libro di diecimila parole! Grazie Samuele. E grazie per la tua capacità di ascoltare un vecchio che parla di inaridimento della sua creatività. Mi hai fatto riflettere a lungo sul tema della solitudine, ossia dell’esaurirsi della creatività. Riesco tuttavia a non cadere nella tetra malinconia ripercorrendo  la selva di anni che mi son lasciato alle spalle, ritrovando i sogni, gli amori, le passioni, le speranze e i dolori della vita, com’è nella realtà della “condizione umana”. Ripercorro con stupore il mio “canzoniere” che m’accompagna dall’età adolescenziale, anch’esso testimone del tempo, se non altro, ed anche delle sue premonizioni che ho cercato di trascrivere  nella poesia “Le tre altezze”, in “Ritratto” ed anche, nel 2007, nei 5 testi incisi su un CD con immagini e musica che guardano al cielo stellato, alle comete ed alle eclissi, con la speranza del congiungimento impossibile tra Venere e Giove! Forse, come ebbe a dire Pablo Neruda, anch’io potrò affermare: “Confesso che ho vissuto!”

Le tre altezze

Non si tratta dei grandi sovrani
che ne hanno combinate di crude  e di cotte,
e sul loro  sole, che non doveva mai tramontare,
nulla da fare, è calata la notte.
Si tratta, molto banalmente, di una fisica legge
che ho scoperto, meditando sui destini umani.

Nell’infanzia i miei sguardi scrutavano
la terra, sempre bassi per timidezza e paura
di dover rivelare il segreto che mi affliggeva;

con la tumultuosa giovinezza,
e la rivoluzione del testosterone,
la molecola dell’amore,  gli occhi hanno mirato
il piano orizzontale delle ragazze, per rubare
la meravigliosa fioritura della loro bellezza;

ed ora, al declinar della vita,
gli occhi hanno scoperto il cielo 
e il suo mistero, il desiderio
della Suprema Altezza,
la più amara e ambita.

Ritratto [i]

                                per Antonio Machado

Ho succhiato il latte materno con la Cenerentola di Rossini
e appena svezzato ho masticato il fiele dell’abbandono;
sono fiorito nella solitudine di una tumultuosa primavera,
tra i paleri e le ginepraie, mirando nel cielo
il volo del falco sulle pasture, ascoltando il belar degli agnelli
e il frinir delle cicale; vicende che non voglio evocare.

Poco più che bambino son fuggito verso nuovi lidi,
misteriosi approdi  con il tepore di nidi, in cerca d’amore.

Son cresciuto troppo presto, nel male e nel bene, un segreto
ho celato nel cuore d’Arlecchino. Brevi studi non m’hanno
dissetato, da solo ho scoperto d’esser poeta e delle parole
innamorato, del pruno e ginestra, biscia e sorgente, mago
e cerbiatto, dimesso cantore. Una fabbrica m’ha inghiottito
mentre ancora vestivo i pantaloni corti, le scarpe chiodate,
il cappotto del nonno morto rivoltato con cura,
e là s’è acquietata la mia pena, tra gli uomini azzurri
e le rosse bandiere: con loro ho sfidato l’ansia primigenia
e la paura di restar solo. Ho amato instancabilmente, e riamato
ho goduto d’inimmaginata fortuna, sempre la bellezza
ho avuto a lato  e la dolcezza dei baci riassaporo,
ora che vecchio, delle voci ne ascolto solo una, quella
profonda che m’appartiene. E’ la voce del canto che
non m’ha tradito; disgiunta da me stesso  e dai miei
errori vorrei affidarla pura ai miei bambini. Loro ancora
mi vedono bello come un dio, e sapiente, ardimentoso,
spada excalibur  e scudo, buffone e invincibile
cavalcare il tempo, immortale e antidoto d’ogni male.

Verrà il dì dell’ultimo viaggio - non conosco il come e il quando -
ma non tarderà, e me ne andrò come tutti,
senza valige e fagotti, lasciando un’invisibile scia di sogni.



[i] La poesia si ispira ai celebri versi di Antonio Machado (Siviglia, 26 luglio 1875 – Colliure (FR), 22 febbraio 1939), canto XCVII di Campos de Castilla.

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