venerdì 13 aprile 2012


Che cos’è la Poesia?

Si sta come d’Autunno foglie sul ramo”, da <Soldati in guerra> di Ungaretti. La spiegazione sembra abbastanza banale; ma perché allora è poesia e non prosa? Se la poesia è voce, dizione, canto, ritmo, scanzione – la scrittura serve solo a ricordarla -, qual è il risultato di questo ritmo, scanzione, sospensione preparata sul fondo del silenzio? La poesia non è comunicazione, né espressione, né verità di altro. La poesia non deve necessariamente comunicare verità sullo stato delle cose, né verità sui nostri stessi sentimenti, ma deve, attraverso le parole messe in un certo modo, circoscrivere uno spazio che non è dicibile. Deve richiamare la reazione di chi ascolta su questo cono d’ombra che è il nostro vivere le cose. Non si cerca la verità con la poesia. E’ partecipare ad un sommesso esistere come silenziosi fratelli delle cose. Poesia è vita più intensa che nasce in quel momento, è sollecitazione alla creazione più che creazione essa stessa; è grazia, incantesimo. In un mondo come il nostro – sporco rumoroso irrequieto – talora è bene fermarsi un istante, lasciar che il tempo rimanga sospeso e questo cono d’ombra venga circoscritto dalle nostre parole.

(da Trasmissione televisiva a cura dell’Enciclopedia Multimediale delle scienze filosofiche, 1998)

Vedendo i bus passare
da piazza Dalmazia alla stazione…

La mamma di facili costumi; il babbo, invalido,
un salace sporcaccione: ma la figlia era cresciuta
ingenua nonostante le forme prosperose
e labbra troppo rosse su un sorriso triste.
C’incontrammo quell’anno magico, vorrei
dir santo, senza offendere la sacra religione,
nella città del giglio, alloggiati entrambi
in separate stanze di un modesto alberghetto,
vicino alla stazione.
Coincidevano le partenze ed i ritorni, il ritmo
del giorno e della notte, l’afa di quei torridi
giorni, i numeri del bus ed anche le ore
di pasti sobri e  - d’antichi scalini di marmo -
l’illusione d’un po’ di fresco, sull’angolo
di S.Maria del Fiore. Solo a più tardi rintocchi
 un refolo di vento c’invitava  ad una fetta
d’anguria, più in là, alla Loggia del Porcellino,
nel già quasi mattino. Lavoravamo insieme
ed una sera, già tardi, alzando gli occhi
oltre la vetrata che ci divideva, ci fu uno sguardo
diverso, un raggio laser, un pulviscolo d’oro,
e un fremito m’entro dentro le membra,
un desiderio di lei, quasi dolore.
Sull’autobus deserto la baciai! Me lo rese,
quel bacio, ed anche gli interessi, che all’improvviso
s’eran moltiplicati, diventammo ricchi, in quelle notti
strane, nell’odore limaccioso d’acque pigre, in calici
appannati di vino e di sudore, sulle panchine
di parchi polverosi, e tra lenzuoli appiccicosi
d’una camera spoglia, con l’incanto
d’un cielo sbiadito, lassù, irraggiungibile,
nel piccolo abbaino.
Osammo troppo, troppo fu l’amore nato da due
solitudini, la necessità fece virtù, mentre più lune
solcarono il cielo, un cielo che fu solo tuo e del male
che già portavi in seno. Su questa Terra non ti vidi più.

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