martedì 6 novembre 2012





Nella finestra in alto a dx., sotto la finestra bianca semicircolare, la camera dove sono nato: il mitico Serrappuccio (ossia Serra a Puccio).


Al Serrappuccio,
in un mattino un po’ triste di fine ottobre.

Vedo con non l’ho visto mai il mio paese
avvolto dalle nuvole che vengono
dal mare, nere, pesanti di pioggia
e vento, appiccicose,
 e di mestizia foriere,
che il novembre è ormai
alla porta, coi fiori di plastica, tristi
per la gente morta.

Anche stamani
suona lamentosa la campana,
a rammentare una partenza amica;
pure noi siamo in attesa,
noi che ci sentimmo immortali,
quando la bellezza ci sfiorava
e l’amore ogni porta spalancava.

Con questa donna umile e mite
m’incontrai alla mensa nuziale
di un cugino, la vedo ancora,
ridente, porgermi dal fiasco
il vino che ancor più faceva divampare
l’amor che dentro me sbocciava.

Salgo nel Serrappuccio, dove son nato,
dove a vent’anni sono ritornato,
io poeta, il babbo musicista e la nonna
già vecchia che per amor di noi
la vita sua  allungava. Tutto è silenzio
ora se non fruscio di vento sulle cime
dei cipressi, e rauche grida
d’ uccelli, intorno alla torre e in cielo.

Scandaglio la memoria 
alla ricerca di volti, nomi, parole,
ma poco affiora dal gorgo della storia.
Lenzina, Corinna, Teresa, Solidea,
Concetta, la Manetta, Iris, la Tradotta,
e Franca, Vittoria, Seconda, Gustavo,
Livio, Carla, Natalino, ed altri ancora,
che un tempo amavo.

Chi condivise i miei giorni felici
della giovinezza, é partito,
verso perduti lidi,
altri dispersi nel mondo,
come le foglie brune
per gli stretti vicoli.

E’ l’umano destino che ci attende:
morire soli e far perdere ogni traccia,
con la speranza mai sopita,
d’incontrarci nell’eterna vita

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