PASSIONI, SPERANZE, ILLUSIONI. CAP. 32.
Risposta dell’Unità nella rubrica “Filo
diretto con i lavoratori” a Carlo Groppi.
a) In virtù dell’articolo 13 della legge istitutiva dell’Enel
(L. 6.12.1962, n. 1643), “il rapporto di lavoro del personale dipendente è
regolato dalle norme del diritto privato e su base contrattuale, collettiva e
individuale; in sede giurisdizionale la competenza a conoscere le relative
controversie è attribuita all’autorità giudiziaria ordinaria”. Ciò significa
che nell’assunzione del personale l’Enel gode della libertà ed incontra i
limiti propri di un qualsiasi imprenditore, pur se, trattandosi di un Ente
pubblico istituito per perseguire finalità d’interesse generale, tenuto ad
esercitare la propria libertà ed autonomia anche in questo settore in
conformità dei fini pubblici che lo distinguono. A tal fine, decisiva è
l’azione delle Organizzazioni sindacali, che da tempo perseguono l’obiettivo di
una regolamentazione collettiva delle assunzioni attraverso la quale l’Ente
vincola la propria discrezionalità in materia all’osservanza di criteri
obiettivi concordati con il sindacato. La regola del pubblico concorso
costituisce una di tali limitazioni ed è certamente garanzia di correttezza. I
quesiti che tu poni riguardano una serie di clausole che di solito vengono
inserite nei bandi di concorso. In relazione a tali clausole – che, concordate
o meno che siano, si pongono verso l’esterno e cioè verso gli aspiranti
lavoratori, come manifestazione dell’autonomia dell’Ente – possono prospettarsi
non diversamente da quanto avviene in
analoghe manifestazioni concorsuali di un privato, due ordini di problemi:
1) se esse siano legittime, rispettino
cioè i limiti che la Costituzione e le leggi dello Stato impongono
all’autonomia privata, 2) se esse siano opportune socialmente e sindacalmente.
Per quanto riguarda il primo ordine di problemi, deve essere tenuto presente
che, secondo la Costituzione, l’iniziativa economica e l’autonomia privata sono
bensì libere ma non possono svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in
modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana, o,
comunque, da ledere l’ordine pubblico costituzionale e cioè quell’insieme di
valori e principi consacrati appunto nella Carta della Repubblica. Le clausole
dei bandi di concorso, in quanto manifestazioni dell’autonomia dell’Ente, sono
illegittime se violano un tale insieme di limiti. Per quanto riguarda il
secondo ordine di problemi, invece, è da tenere presente che una clausola, pur
rispettando i limiti costituzionali e legali dell’autonomia dei soggetti e pur
essendo perciò legittima, può essere in contrasto con le finalità perseguite dal movimento dei
lavoratori, determinare lacerazioni e distacchi tra i lavoratori stessi o tra
gli occupati e aspiranti al lavoro, costituire ostacolo o limite al progresso
sociale e civile del Paese; e perciò può rivelarsi inopportuna o negativa.
Nell’uno o nell’altro caso, ovviamente, il movimento sindacale è impegnato a
battersi per il superamento della clausola. Ma, mentre nel primo caso l’azione
realizzativa può avvalersi anche del ricorso al giudice e dell’intervento delle
Istituzioni, nel secondo caso dovrà fare affidamento solo sulla propria
capacità di persuasione e di lotta come strumento di pressione nei confronti
dell’Enel.
Alla
luce di questa premessa possiamo esaminare i quesiti che poni con riferimento
alle varie clausole elencate nella tua lettera.
A) Un primo gruppo appare certamente legittimo, ed anche
razionalmente giustificato, cioè rispondente ad esigenze delle quali è giusto
darsi carico. Così, il limite massimo
d’età per la partecipazione ai concorsi
(del resto comune a tutti i pubblici concorsi) risponde all’esigenza di
reclutare personale che abbia dinanzi a sé una prospettiva di permanenza
abbastanza lunga nell’Azienda, con conseguente possibilità di affinamento
professionale, ed al tempo stesso offre spazio all’inserimento delle forze più
giovani e delle nuove leve di lavoratori. Così anche la preselezione fondata
sull’attività lavorativa precedentemente svolta, mentre tende ad evitare un
inutile dispendio di tempo ed energie per l’espletamento di concorsi
sovraffollati, risponde a criteri obiettivi e al tempo stesso funzionali alla
scelta dei lavoratori più idonei ai posti da ricoprire.
B) Un secondo
gruppo di clausole, pur non apparendo illegittimo, tuttavia risulta di dubbia opportunità
in quanto espressione di un atteggiamento di chiusura corporativa e fonte di
possibile contrapposizione dei lavoratori elettrici alla Comunità. Così
l’elevazione del limite di età per i figli di ex dipendenti o l’esclusione
degli stessi dalla preselezione costituisce un retaggio del passato, quando la
lotta dei lavoratori era costretta entro angustie corporative ed i ritardi
nello sviluppo democratico della società e nella stessa organizzazione
sindacale imponevano di battersi per obiettivi tutti interni alla categoria. Ma
oggi, lo sviluppo assunto dal movimento sindacale, l’ampiezza ed il respiro generale degli
obiettivi che esso attualmente pone, la stessa maturità della coscienza
democratica del Paese spingono verso il superamento di privilegi corporativi.
Discorso in parte diverso, invece, deve essere fatto per l’esonero dal limite
di età accordato ai figli dei dipendenti colpiti da infortuni sul lavoro o
malattie professionali. Qui un’esigenza di solidarietà verso chi nel lavoro ed
a causa di questo ha perso la vita o la salute, può giustificare il trattamento
di favore riservato ai congiunti, anche se resta il dubbio che questa non sia
la forma più efficace per esprimere tale solidarietà. Per ragioni diverse va
valutato negativamente il rilievo accordato, in sede di preselezione, alla
votazione riportata nel titolo di studio: si tratta di un criterio ingiusto ed
irrazionale che fa pesare, ai fini dell’assunzione al lavoro, dati remoti,
arbitrari (le votazioni sono diverse a parità di merito, dal luogo a luogo,
sessione e sessione ecc.) e sostanzialmente assai poco significativi ai fini
della valutazione delle attitudini professionali.
C) Infine, un ultimo gruppo di clausole sembra violare i
limiti dell’ordine pubblico costituzionale e perciò è da ritenere illegittimo.
Rientra in tale gruppo, innanzitutto, la esclusione delle donne dai concorsi
per mansioni non di concetto: tale esclusione urta contro l’articolo 3 comma I
della Costituzione che stabilisce l’uguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione
di sesso; principio, questo, riaffermato nella materia del lavoro dalla legge
sulla parità di trattamento tra uomo e donna, già approvata da un ramo del
Parlamento ed ora all’esame del Senato, la quale al suo articolo I dispone: “E’
vietata qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda
l’accesso al lavoro, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque
sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia
professionale”. Illegittima sembra anche la clausola che esclude dai concorsi,
nei quali sia richiesto come titolo di studio quello della scuola dell’obbligo,
coloro che a suo tempo conseguirono la licenza elementare, perché tale clausola
nega valore ad un titolo che a suo tempo segnava il completamento della scuola
dell’obbligo, e penalizza dei cittadini per il solo fatto di aver compiuto la
propria formazione in un periodo in cui lo Stato non era ancora in grado di
dare all’istruzione di base l’ampiezza accordata con l’istituzione della media
dell’obbligo. Sulla clausola del titolo di studio massimo, questa rubrica ha
già avuto modo di intervenire (l’Unità 19 gennaio 1976: “Un titolo di studio
superiore al richiesto è causa di licenziamenti?”), ricordando la situazione
economico-sociale in presenza della quale tale clausola fu introdotta e le
ragioni che allora la giustificarono ed esprimendo le perplessità che una
clausola del genere suscita oggi in conseguenza dell’entrata in vigore della
legge 15 luglio 1966 n. 604 e dello Statuto dei Lavoratori, nonché della mutata
situazione politico-sociale del Paese. Infine, anche l’esclusione dai concorsi
dei candidati residenti fuori provincia (o fuori delle provincie limitrofe) e
la precedenza accordata agli autoctoni suscitano dubbi quanto alla loro
legittimità, perché vengono ad accordare rilievo a “fatti non rilevanti ai fini
della valutazione dell’attitudine professionale del lavoratore” (art. 8
Statuto) e si pongono come ostacolo alla mobilità territoriale dei lavoratori,
contribuendo così al permanere di squilibri territoriali."
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