Gigolette.
L’assenza
di contatti sociali, politici, di scambi
creativi, di relizzazione di progetti sul territorio, dei piccoli impegni per conferenze all’Oratorio di Montecerboli o con
le Associazioni della Libera età o Culturali, mi porta, sempre più
frequentemente, a guardare dentro me, ai ricordi della adolescenza e
giovinezza, all’inizio dell’attività di lavoro dentro una grande industria, con
migliaia di uomini e donne, a quell’intreccio di poesia, lavoro, amore, impegno
politico, che mi ha accompagnato fino a pochi anni or sono. E dentro me, sempre
più nitide, riemergono, le immagini dei miei cari (nonna e babbo, e cugine), ed
anche di ragazzine che non so’ se saranno ancora vive, perche tanto tempo è
passato da quegli amori “a solaio”, ma
che non ho scordato. E poi la musica, che era troppa per le mie giovani
orecchie, che mio padre, dal clarinetto alla fisarmonica, spandeva in tutta la
nostra piccola casa. Arrivavano di tanto in tanto gli spartiti delle canzoni
che il babbo imparava a memoria per suonarle nell’orchestrina “Stella d’Argento”
nei veglioni paesani e, più volte, nelle veglie
nei poderi vicini, alle Magrine, nella Casetta del Campolungo, al
Gallinaccio… o da Ciccina e dall’Orba. Così ne ricordo ancora qualcuna, come, ad
esempio, Gigolette, un dolce valzer, che andava di moda nel 1951 o 1952, dove
si parlava di un’amore, di un lampione, di un fiume, la Senna, e di una città,
Parigi, che io non sapevo nemmeno dove fossero! Ed oggi l’ho cercata su google
e l’ho ascoltata con emozione dalla voce di Gino Latilla, da in vecchio 78
giri! E allora metto due poesie per mio padre, che nato nel ’15 e morto nel ’85,
adesso avrebbe 105 anni!
Stella d’argento
a mio padre
Dicono che le stelle
svaniscono nel cielo,
ma tu sei eterna
ed eterna la mano
che ti sfiorava
magica fisarmonica,
eterno il tuo sorriso
e l’aria tiepida
nella sera quieta.
Noi siamo quegli eterni
fanciulli, d’amor pieni
e di paura, quelle
tenere carni immortali
che furono, quei
primi baci sotto
la pergola dell’uva,
acerbi, com’era acerbo
l’amore che ci avvinse
in quelle note
inconsapevoli,
maledettamente
malinconiche,
che non ti stancavi
di suonare.
Noi siamo eterni.
Le quattro stagioni.
a mio padre.
Primavera tempestosa e
lietamente,
rese i tuoi giorni colmi di
passione;
la musica fu l’amante e quasi
un Dio,
che ti aprì ogni còr
fremente.
Venne l’estate: la follia
della gran calura,
la guerra, la morte, la
fatica del lavoro e la paura;
l’amor perduto e quello
verginale che più
non isperavi, t’innalzarono
alle stelle
che nel nuovo cielo di
libertà e speranza,
brillavano d’argento sulla
rossa bandiera;
e dentro donna, giovani occhi
neri.
Autunno, ti dette, col suo
quieto ardore,
i frutti saporiti dell’Eden,
mai conoscesti stagione così
bella,
di rinnovata speme e di
leggiadre spose:
e a Sant’Alberto,
dal Babini, la rossa Marina.
Ti regalò le languide note
sulla madreperlacea tastiera,
in quella piccola stanza,
aperta
sulla palma, il roseto e sui
cameli,
mentre con tuo stupore
anch’io crescevo.
Oh! l’inverno! Ti dava
l’amicizia
di un cane, e di ragazzi una
schiera
attenti a quelle note del
clarinetto
piccolo si bemolle e di
Rossini
la Cenerentola:
un licor che ogn’anima
ammaliava.
E c’era lei, padre mio, la
fanciulla bionda,
che i suoi primi baci non mi
negava.
Poi venne il freddo d’un
Natale e cancellò
le note e i palpiti del
cuore,
all’improvviso fu silenzio,
e come a tutti accade, vinse
il Male.
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