domenica 29 aprile 2018




JAMES GROPPI (1936 – 1985)


Giacomo (James) Groppi nasce nel quartiere di Bay View, sul lato sud della grande città di Milwaukee, sul Lago Michigan, a nord di Chicago, nello Stato del Wisconsin, da genitori italiani immigrati negli Stati Uniti d’America all’inizio del ‘900. Giocondo Groppi e Giorgina, sua moglie, avevano 12 figli, dei quali James era l’undicesimo. In questa grande città industriale Giocondo si è dedicato al commercio di generi alimentari, importando prodotti dall’Italia, aprendo un negozio “GROPPI” a Bay View, nel quale tutta la famiglia era impegnata. James ha iniziato gli studi nella scuola parrocchiale cattolica dell’Immacolata Concezione e, successivamente, proseguendoli nella scuola pubblica di Bay View, nella quale, all’ultimo anno di studio, divenne capitano della squadra di basket. Un anno dopo la laurea, James Groppi si iscrisse al St. Lawrence Seminary Hight School (1950-1952) a Mount Calvary, nel Wisconsin. Secondo lo storico Frank Aukofer, fu durante il suo seminario che “padre Groppi” sviluppò un’empatia nei confronti dei poveri neri, lavorando nel periodo estivo in un Centro giovanile nel della città di Milwaukee, osservando, ogni giorno, la sofferenza sociale dei neri ed il razzismo dei bianchi. James Groppi fu ordinato sacerdote cattolico romano nel giugno del 1959, dopo gli studi al Seminario di San Francesco.

Dapprima assegnato alla Chiesa di S. Veronica a Milwaukee, nel 1963 Groppi fu trasferito a San Bonifacio, una parrocchia con una connotazione prevalentemente afro-americana. Groppi si interessò con zelo alla causa dei diritti civili per i poveri bianchi e per i neri, partecipando in prima persona alle iniziative politiche, e capeggiando la Marcia dei pacifisti americani nel 1963 a Washington contro la guerra americana nel Vietnam e le Marce di Selma e Montgomery nel 1965, per l’estensione del diritto di voto. In questa attività partecipò al progetto di registrazione degli elettori della Southern Christian Leaderschip Conference nel Sud, guidato da Martin Luther King, Jr., durante l’estate del 1965.

Dopo il 1965, Groppi, tornò a Milwaukee, diventando consigliere dell’Associazione Nazionale per la Promozione del popolo della gioventù” (NAACP), organizzando le proteste contro la segregazione nelle scuole pubbliche di Milwaukee, e in tale organizzazione egli divenne Vicepresidente del Comitato per l’integrazione della scuola e, successivamente, fino al 1968, 

Consulente del Consiglio della gioventù di Milwaukee.
In tale organizzazione Groppi organizzò un gruppo maschile tutto nero, chiamato “Milwaukee Commandos”. Questo gruppo fu formato per proteggere i manifestanti e aiutare a sedare la violenza durante le “Freedom Marches”.  Insieme al Consiglio dei giovani Groppi organizzò una lunga e continua serie di dimostrazioni contro l’Amministrazione della città di Milwaukee per stabilire un equo canone per gli alloggi popolari. Condusse queste Marce lungo l’arteria 16 th Street (da allora ribattezzata in suo onore) che attraversa la valle del fiume Menomonee, considerata una divisione simbolica per la città, tra i bianchi ed i neri. Groppi ebbe in queste attività il sostegno, sia fisico che morale, degli attiviti per i diritti umani come Dick Gregory e Martin Luther King, Jr e Rennie Davis.

Nonostante che Groppi sia stato denunciato ed arrestato in numerose occasioni egli rimase fermo nelle sue convinzioni di denuncia dell’iniquità vigente nella situazione sociale ed abitativa di segregazione razziale a Milwaukee, riuscendo finalmente a far emanare una legge sull’edilizia popolare nella città.

Nel 1966 Groppi condusse una aspra lotta per rimuovere il divieto alle persone di colore di poter essere elette tra i Giudici ed i Funzionari di Milwaukee, specialmente nelle giurie che si occupavano di problematiche multirazziali. Picchetti, occupazioni e dimostrazioni continuarono fino al 1967 per far approvare una legge che mettesse al bando la norma nella discriminazione sulla compera e sull’affitto di abitazioni. Tale legge fu approvata a livello Federale ed è conosciuta come la Legge sull’alloggio.

Nel 1968 James Groppi riceve il “Pacem in Terris Peace and Freedom Award” dal Consiglio interrazziale cattolico di Davenport. Tale riconoscimento prende il nome dall’Enciclica di Papa Giovanni XXIII, nella quale egli invitava le persone di buona volontà ad assicurare la pace tra tutte le Nazioni.

Il 29 settembre 1969 Groppi organizzò e guidò la “Marcia delle Madri” a Madison, durante la quale oltre 1000 madri marciarono per raggiungere la Camera dell’Assemblea dello Stato del Wisconsin, sequestrandola in segno di protesta contro i tagli al welfare. La Camera fu occupata dai dimostranti per ben 11 ore, prima che la polizia la potesse sgomberare. Citato per “disprezzo dell’Assemblea di Stato”, Groppi fu condannato a sei mesi di carcere, ma il Tribunale Federale e successivamente la Corte Suprema degli Stati Uniti annullarono la condanna.

Naturalmente le attività di padre Groppi non erano ben viste e sempre approvate dalle gerarchie della Chiesa Cattolica americana, tanto che egli fu trasferito in una parrocchia minore e periferica della città. Fu allora che James sentì venir meno lo spirito della sua vocazione, lasciando il sacerdozio nel 1976. In seguito si sposò con Margaret Rozga, una professoressa inglese dell’Università di Wisconsin-Waukesha, dalla quale ebbe tre figli.

Groppi tornò di nuovo all’attenzione del pubblico quando si unì a Marlon Brando per mediare lo scontro tra gli indiani Menominee e le Autorità del Wisconsin. Intanto iniziò i corsi al Virginia Theological Seminary ad Alessandria, in Virginia, tentando un riavvicinamento alla chiesa cattolica, cosa che non fu possibile stante le differenze etiche e sociali che esistevano. Alla fine del 1979 Groppi divenne un autista di autobus per il sistema di comunicazioni della Contea di Milwaukee e rimase in tale attività fino alla sua morte  per un tumore al cervello  nel 1985. Dal 1983 ricopriva l’incarico sindacale dei conducenti degli autobus, ATU 998. Groppi James è sepolto nel cimitero di Mount Olivet a Milwaukee e i suoi documenti e archivio sono conservati presso l’Università del Wisconsin-Milwaukee. 

sabato 28 aprile 2018








27 aprile 1964 – 27 aprile 2018.

Son passati  54 anni precisi dal giorno del nostro matrimonio.  Siamo felici, ancora insieme. Era anche quel 27 aprile una luminosa e calda giornata. Ci sposò il Sindaco, l’amico Alberto Conti, e la cerimonia fu semplice e veloce. Ci fermammo per un rinfresco con i nostri familiari in casa della sposa e mio padre, con la sua “Cinquecento”, ci portò alla stazione ferroviaria di Campiglia Marittima. Mangiammo un panino al Bar sotto il glicine della Stazione, proprio dov’era la scultura del famoso cane che viaggiava sui treni. Prendemmo il treno per Roma. Il nostro non fu soltanto un “viaggio di nozze”, ma un vero e proprio lungo soggiorno! Oggi siamo voluti ritornare là dov’eravamo partiti.  Molte cose sono cambiate (migliorate) in questa piccola stazione ferroviaria, ma la pergola del glicine in fiore, sopra l’ingresso del Bar c’è ancora e c’è ancora la scultura del famoso cane portafortuna: LAMPO! Ci siamo fatti scattare qualche fotografia. Siamo rientrati a casa alle ore 22 dopo aver cenato con una grande e deliziosa pizza alle Mura di Massa Marittima. Aprendo il frigo una sorpresa: una deliziosa torta augurale preparata con maestria da una nostra figlia a concludere una bella DATA!

giovedì 26 aprile 2018























25 APRILE 2018, VOLTERRA
Relatore, Carlo Groppi

         Gentili signore e signori, autorità civili, militari e religiose, testimoni della Resistenza e dei militari internati nel Campi di concentramento, illustri ospiti, signor Sindaco del Comune di Volterra, sono onorato di essere in mezzo a voi in questo giorno così significativo della Storia d’Italia, della Toscana, di Volterra e dell’Alta Val di Cecina.

25  APRILE! Tale simbolica data  è quella in cui il CLN Alta Italia diramò l’appello all’insurrezione armata per la Liberazione della Patria ancora in parte occupata dai nazisti e dai fascisti del governo fantoccio di Mussolini. Noi la celebreremo con sentimenti partecipati e convinti perché dette vita ad una Italia unita, libera, democratica e repubblicana e ci dotò di una Costituzione che, grazie alla lungimiranza dei Padri Costituenti, è ancora oggi viva e attuale.

Nel preparare questo  intervento mi sono posto una domanda: quale senso ha celebrare il 25 Aprile? Oggi in questa giornata di primavera e di pace, oggi quando quasi tutti i testimoni sono scomparsi, e la memoria è affidata alla storia, quando i problemi, stili di vita, scenari globali appaiono così lontani da quelli degli anni 1944-45? Vorrei provare a proporre una risposta, che non è unicamente la mia, ma è radicata in tutti coloro che, a vario titolo, hanno contribuito a forgiare il costituzionalismo italiano di questo dopoguerra, e credono che esso abbia molto da dare, da trasmettere, agli italiani di oggi e a tutti i popoli che cercano una loro strada verso una convivenza pacifica e solidale.

Per questo vorrei rievocare una formula, forse abusata, quella della “Costituzione nata dalla Resistenza”, nella convinzione che essa rispecchi la radice profonda della Costituzione italiana, la fonte della sua forza, della sua vitalità, la ragioni per la quale essa è ancora un punto di riferimento sicuro per indicare un cammino di liberazione mai pienamente compiuto, ma mai completamento interrotto, come hanno dimostrato gli avvenimenti e la passione, nel recente Referendum di modifica di alcune parti del titolo secondo. Per comprendere questa formula e soprattutto per svilupparne le potenzialità, occorre però che le due parole RESISTENZA e COSTITUZIONE, ritrovino lo spessore che hanno avuto nella storia vissuta di quegli anni lontani., perché la Resistenza non è semplicemente una lotta armata compiuta da un manipolo di uomini e donne durante pochi mesi degli anni 1943-1945, e la Costituzione è molto di più che un compromesso tra i partiti antifascisti, dopo la tragedia della guerra mondiale coi suoi 55 milioni di uccisi in azioni belliche e segnò uno sconvolgimento mai visto dalle popolazioni civili, massacrate dai bombardamenti aerei (si pensi che solo il bombardamento della città di Dresda fece più di 100 mila vittime!) oppure deportate in massa, oppure esposte continuamente al rischio dei rastrellamenti e delle rappresaglie. Infine non dimentichiamo mai le due bombe atomiche sganciate sulle città del Giappone: Hiroshima e Nagasaki.

La Costituzione, le cui radici sono germogliate dal 25 Aprile 1944, il giorno dell’insurrezione nazionale  del Nord Italia, con la sua carica di utopia e di sogno, ma saldamente radicata nella eccezionale esperienza della Resistenza e della guerra, ci porta le parole dell’uomo e della sua vita: lavoro, solidarietà, libertà, salute, cultura, ambiente, pace. Parole che possono ancora oggi rappresentare gli ideali capaci di coinvolgere i cittadini e di mobilitarli nella lotta, attuale ora come allora, per una società veramente umana ed il cammino di liberazione dell’uomo.

Passerò adesso a dare uno sguardo alla storia locale, anche se ai volterrani essa è nota in tutti i suoi risvolti. Il comune di Volterra, insieme a quello di Massa Marittima,  ha avuto un ruolo molto importante nella Lotta di Liberazione dal nazifascismo. Volterra ha registrato  131 partigiani combattenti, nelle tre Brigate Garibaldi: la III, la XXIII e la Spartaco Lavagnini e decine di morti per cause di guerra, oltre 200 militari che, dopo aver combattuto con onore, catturati dai nazisti, deportati e internati nei Campi di Concentramento del Reich, seppero resistere alle lusinghe ed al ricatto rifiutandosi di rientrare in Patria sotto le tristi bandiere delle Brigate Nere a  combattere per una causa sbagliata contro i loro fratelli, in ciò preferendo la durezza della prigionia, degli stenti e dell’incerta sorte. Non deve essere inoltre dimenticato che Volterra manifesta la sua opposizione al fascismo dall’inizio degli anni ’30 fino al giugno 1944, con 147 arrestati e condannati dal Tribunale Speciale alla pena di 100 anni di galera!

Alto, infine, è stato il tributo di sangue dei partigiani volterrani caduti nella Resistenza, essi sono 8, più un disperso. Per riassumere tali vicende lascerò al Sindaco Marco Buselli un raro documento: il testo della Commemorazione al Teatro Persio Flacco, il 3 giugno 1945, in onore ai partigiani di Volterra caduti sul fronte della liberazione italiana. Fu prodotto dall’ANPI, Sezione di Volterra ed è firmato da “Una partigiana”.

Nell’Alta Val di Cecina anche il mio Comune, Castelnuovo, ha avuto un ruolo importante e crudele: infatti oltre 170 furono le vittime per cause di guerra; 30 soldati, dei 600 richiamati uccisi o dispersi, molti  furono gli Internati Miliari; decine i feriti, alcuni gravissimi. Un tenente tedesco, Emil Blok, coadiuvato da un manipolo di soldati della RSI, diresse l’operazione di rastrellamento e massacro degli 83 minatori della Niccioleta e dei 4 partigiani di una piccola Banda Autonoma, che dalla Tenuta di Ariano, presso Volterra, dopo una cruenta azione  di combattimento contro una divisione corazzata tedesca nel pressi di Castel San Gimignano, alla fine fu sopraffatta e quattro partigiani furono presi prigionieri e rinchiusi nel Mastio di Volterra. E’ grazie alla  testimonianza di un sacerdote, Maurizio Cavallini, che è stato possibile ricostruire le vicende  terminali dei quattro partigiani: marchese Gianluca Spinola, n.h. Francesco Stucchi Prinetti, e i due sardi, Francesco Piredda e Vittorio Vargiu. Soltanto per una fortuita circostanza altri tre volterrani, condannati alla fucilazione: Dino Del Colombo, Guido Benini e Dino Fulceri detto Mosè, riuscirono a salvare la vita.

Oggi che il lavoro assume sempre più un valore di merce che non di dignità della persona, può sembrare anacronistico che 83 minatori siano stati uccisi ed altri 21 deportati in Germania per aver difeso uno dei più duri e ostili lavori umani: scendere sottoterra negli stretti cunicoli delle miniere non solo per il salario ma per difendere un “bene comune” della intera collettività, locale e nazionale.

Come ebbe a dire il compianto padre Ernesto Balducci, amiatino e compaesano di molti di quei minatori, è proprio quel sangue, dei suoi compagni di scuola, quei minatori, che sta alla base, o forse più in alto, della Costituzione,  e ben lo riassume l’articolo Uno che mette al centro d’ogni etica umana il lavoro fino a citarlo per 23 volte nel Patto Costituzionale: “L’Italia è una repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

E le donne? Quale ruolo e quale esempio e messaggio ci hanno tramandato della Guerra di Liberazione? La figura della partigiana emerge dalla moderna storiografia e dalla memoria collettiva in maniera sfaccettata e contraddittoria: si va dall’immagine idealizzata, incarnazione di aspirazioni alla libertà e alla giustizia, a quella della donna spregiudicata che infrange le convenzioni del comportamento privato, facendo una scelta apparentemente inconciliabile con la rappresentazione tradizionale dell’essere sposa e mamma, fino ad assumere un ruolo più autonomo e di rottura nella ricerca di una identità paritaria con quella dell’uomo.

Come è noto, le donne, più degli uomini, per il diverso ruolo sociale e mentalità, avevano maturato una minore consapevolezza del regime fascista, mantenendo perciò un ruolo, diciamo, passivo. Certo, con la chiamata alle armi  di padri e mariti e figli e fidanzati, le donne avvertirono acutamente la tragedia della guerra e si chiesero di chi fossero le responsabilità, individuando nel nazismo e nel fascismo, in Hitler e Mussolini, i maggiori responsabili.
Poi, quando cominciarono i razionamenti dei viveri, o cominciarono ad arrivare le prime comunicazioni dei loro cari morti in Russia o in Nord Africa o nei Balcani, ed anche le cartoline di richiamo sotto le armi delle giovanissime reclute non ancora ventenni, nonché dell’intensificarsi dei bombardamenti e cannoneggiamenti degli Alleati,  che, ad esempio, distrussero il 75% degli Stabilimenti della Larderello,  le donne assunsero un ruolo di più netta opposizione al nazifascismo, dando vita a numerose manifestazioni di protesta, ad esempio quella di sdraiarsi attraverso la strada per impedire la partenza dei camion che avevano prelevato a forza i loro parenti per mandarli a combattere sui fronti di guerra.

Le donne dettero un grande contributo di collaborazione ai Comitati di Liberazione Nazionale, agendo come staffette di collegamento tra le bande partigiane che erano sulle nostre montagne e nei nostri boschi, e il centro politico che si trovava nei singoli paesi. Portavano informazioni, viveri, medicinali, curavano i feriti, cucivano indumenti, aiutavano i militari inglesi, russi e di altre nazionalità, fuggiti dai campi di concentramento tedeschi, a raggiungere i partigiani e mettersi in salvo.

Su un totale di 365.773 partigiani (combattenti e patrioti sul suolo italiano), dei quali 54.700 caduti, circa 55.000 sono le donne, delle quali 1.070 uccise in combattimento. 51 volterrane sono le donne assimilate ai partigiani e patrioti, senza considerare la moltitudine  (174 volterrani) che protesse la Porta All’Arco e il Palazzo Inghirami dalla distruzione, nella quale figurarono ben 50 donne. Non so’ se ancora sia stata intitolata una via o una piazza di Volterra a Norma Parenti, Medaglia d’Oro al Valor Militare. Norma nasce al podere Zuccantine, nei pressi di Lago Boracifero, nel Comune di Monterotondo Marittimo, il 1 giugno 1921, figlia di  Estewan Parenti, muratore volterrano, abitante in via Guidi al numero 17, componente del numeroso clan dei Parenti,  e da Rosa Camerini di Suvereto.

La vicenda umana di Norma è stata ormai scandagliata in moltissimi aspetti, ma solo recentemente son venuti alla luce due documenti finora mancanti, che cito soltanto, ma  che è impossibile riassumerli adesso: Chi formulò la proposta di Medaglia d’Oro alla sua memoria, e, finalmente, dopo ben 74 anni dalla sua uccisione, la Relazione Peritale  sulla sua morte. Quest’ultimo un documento agghiacciante per la descrizione delle sevizie che furono commesse dai nazi-fascisti sulla giovane sposa di 22 anni di età, prima di ucciderla nella notte del 23 giugno 1944. 



Infine, per concludere, vorrei incoraggiare i giovani a perseguire nella missione importantissima della salvaguardia, della ricostruzione e della trasmissione della memoria, perché mentre noi nati al tempo delle Leggi Razziai, che siamo stati testimoni diretti, benché allora bambini, della violenza della guerra, stiamo tramontando, ai giovani  tocca l’arduo compito di tramandare gli ideali e le voci della Resistenza, cercando in primo luogo di mantenerle vive nella coscienza collettiva, come radice da cui attingere ancora forza e slancio, per il completamento, non solo in Italia ma in una Europa Unita e nel Mondo, del grande sogno sbocciato dalla Resistenza e dalla Costituzione: un sogno di pace, di giustizia sociale, democrazia, tolleranza, fratellanza e libertà.

Terminando queste riflessioni voglio rendere omaggio ad un vostro quasi concittadino, che all’epoca abitava ai Marmini, partigiano della XXIII Brigata Garibaldi, che operò nelle Colline Metallifere Toscane, rappresentante di spicco del Partito d’Azione, Carlo Cassola, che negli anni successivi alla fine della guerra ed all’esplosione delle due bombe atomiche con i loro oltre 300.000 morti, dettò ai suoi amici e compagni volterrani: “…noi che abbiamo fatto i partigiani e sappiamo cos’è la morte, dovremmo passare il resto della nostra esistenza ad evitare che il mondo sparisca e che i giovani non abbiano un futuro. Salviamo per loro ciò per cui abbiamo combattuto. Restiamo Partigiani, ma Partigiani per la VITA e per la PACE!

Viva il 25 Aprile!
Viva la Resistenza!
Viva l’Italia! 

venerdì 20 aprile 2018

Buongiorno 20 APRILE! 

Giornata di sole! Giornata speciale, lontana dai rumori indiscreti. Davanti al mio sguardo la montagna che porta il mio nome "CARLINA" con i suoi ciliegi in fiore!


martedì 17 aprile 2018







Da “Le ricette della signora Tokue.

…camminavo da sola nel bosco, e ammiravo la luna piena che brillava intensamente. Era l’epoca in cui cominciavo a <essere all’ascolto> del fruscio delle fronde, degli insetti e degli uccelli. Nel chiaro di luna tutto splendeva d’un azzurro pallido e gli alberi ondeggiavano come animati da volontà propria. Su quel sentiero in mezzo al bosco ero proprio sola di fronte alla luna. Com’è bella, pensai…è allora che ho avuto la sensazione di sentirla. Ho avuto l’impressione che la luna si rivolgesse a me con un sussurro:

Volevo che tu mi guardassi.
E’ solo per questo che brillo.

Senza di me quella luna piena non sarebbe esistita.

Dal poemetto Agnes e Martin, mi sono ricordato di una poesia:


Canzone dell’immortalità

Quando nel cielo la cometa apparve
i cuori si fermarono sbigottiti
per un attimo che sembrò infinito:
le sue sembianze furono
di  una strana eterea fanciulla.
La presenza fu rapidissima,
ma la luce intensa. Naturalmente,
come le vere comete, sparì nel cielo
profondo, lasciando tremanti e muti
i fortunati che la scorsero.
In quella magica notte ci furono eventi 
che influirono su alcuni destini umani…
Agnes e Martin furono i prescelti,
la messaggera celeste s’era rivelata,
la parola trapassò i cuori:
Agnes! Martin!
Lassù, tra le spighe di grano,
alla capanna, Martin attendeva tremante.
La morte e la vita s’erano date appuntamento.
La notte si faceva, via via che scorrevano 
le ore, da chiara sempre più scura,
e il grande bosco incombente,
pieno di gemiti del vento
e di chi sa quali ignote creature,
tacque in un’eternità sospesa,
poi la morte, in un diffuso color sangue,
che risaltava nella profondità
del firmamento attonito,
raggelò ogni palpito. Morte apparente,
perché Agnes da  un lato moriva
e dall'altro rinasceva...
questo voleva annunciare, il dualismo
che c'è nella vita:  credere al sacro fuoco
dell’amore anche nei momenti più gelidi e bui.
Nessuna proiezione
delle tenebre potrà mai cancellare la luce,
la luce sfiderà il tempo nel suo                                                                     
fluire all’eterno ritorno. L’immortalità è luce.

lunedì 16 aprile 2018





PASSIONI, SPERANZE, ILLUSIONI. CAP. 88.

XII° Congresso della Fnle-Cgil di Larderello (7 maggio 1981)[1]

Il XII° Congresso della Fnle-Cgil rappresenta una fondamentale verifica di oltre dieci anni di lavoro del gruppo dirigente che all’inizio degli anni ’70 sostitui, praticamente nella sua totalità, il vecchio gruppo dei compagni insediatosi negli anni successivi alla Liberazione. Anni questi ultimi di rapidi, tumultuosi cambiamenti, sia nel mondo che in Italia che a Larderello. A Larderello, in particolare, le nuove impostazioni tecnico-scientifiche legate allo sfruttamento dell’ energia geotermica, hanno richiesto un confronto serrato tra oo.ss. e Direzione per garantire una linea di sviluppo produttivo e occupazionale dei territori geotermici[2].

Con questo Congresso tutto un quadro dirigente il nostro sindacato viene ad essere completamente rinnovato. Compagni onesti, modesti e intelligenti sono oggi in altri settori della multiforme attività che costituisce il tessuto fondamentale della democrazia in Italia: Partiti politici, Comuni, Associazioni culturali, ricreative e assistenziali, dando un apporto prezioso, che si basa su una esperienza diretta, su un contatto reale, maturato nell’affrontare i problemi con i lavoratori, problemi che, semplici o complessi, si manifestano ogni giorno. Aver rinnovato in dieci anni, per due volte, il quadro dirigente, senza provocare ripercussioni negative, anzi andando avanti, è un fatto estremamente positivo che vogliamo sottolineare ai compagni ed ai lavoratori.

Alla grande e democratica scuola del sindacato si formano incessantemente nuovi compagni dirigenti che portano nuove idee, freschezza e combattività e che mantengono, allo stesso tempo, la continuità della tradizione di serietà, di sacrificio e di lotta propria della Cgil.

Alla fine di questo mandato anche il sottoscritto rientra nella attività produttiva, mantenendo però un contatto di collaborazione e di impegno nel sindacato per non disperdere le conoscenze, le esperienze in tanti anni acquisite. La riteniamo una scelta giusta che dimostra non solo nelle parole, ma nei fatti concreti, la volontà di cambiamento che invece tante volte manca in altre Istituzioni e da’ anche, verso l’esterno, l’immagine che hai mutamenti così profondi avvenuti in Fabbrica negli ultimi anni, alla presenza di una nuova classe operaia fatta di giovani, con ideali e motivazioni diverse da quelle del passato, la Fnle-Cgil di Larderello risponde con altrettante scelte di rinnovamento reale che porteranno più creatività, più fantasia ed entusiasmo nel nostro quotidiano impegno sindacale.

Lavorare nel sindacato richiede passione e sacrificio, richiede estrema attenzione ai comportamenti individuali, richiede una disponibilità che va oltre il singolo e investe la famiglia, ma, allo stesso tempo, da grandi soddisfazioni. Oggi i tempi sembrano più tempestosi, gli obiettivi più incerti. C’è da combattere contro avversari insidiosi e mutanti, c’è da recuperare un consenso non basato sul cieco fideismo, ma sull’adesione critica ai programmi e agli ideali che si rinnovano, c’è da lottare contro il qualunquismo e il catastrofismo, dai quali nascono gesti di rinuncia o di disperata violenza, sempre dannosi ai lavoratori.

E’ una grande lotta quella che si preannuncia, una lotta che richiederà il ricorso alle migliori forze del proletariato, ai giovani in primo luogo che per la loro natura sono portati all’ottimismo, a guardare al futuro e al divenire delle cose più che alla conservazione ed alla restaurazione del passato, a comprendere cioè la storia che cammina e la realtà che si trasforma, anche per i problemi piccoli  della ristrutturazione della geotermia e dei nostri Comprensori.

C’è un attacco, non possiamo nasconderlo, verso la Fnle-Cgil di Larderello, per spingerci ad assumere chiusure dogmatiche, conservatrici, che ci renderebbero incapaci di cogliere il nuovo che emerge nelle posizioni dell’Enel e dell’Unità Nazionale Geoetermica verso la geotermia e di sviluppare, superando vecchie elaborazioni che non reggono più, una nuova strategia mirante a consolidare, attraverso momenti di verifica e di lotta, lo sviluppo produttivo, diversificato e occupazionale dei nostri territori, nei quali viviamo e vogliamo vivere in futuro.

         Ai nostri compagni, proprio in questo momento che vede il sindacato impegnato in una dura ed ardua prova, diciamo che dobbiamo finalizzare ogni nostra energia in un incessante sforzo innovativo e inventivo, e, al tempo stesso, rimanere fedeli alla grande tradizione unitaria di lotta, sempre a difesa della classe operaia e del patrimonio progressista e riformatore della Cgil. E di fronte a certi detrattori nostri, a chi in malafede getta fango sulla Fnle e sulla Cgil, a chi artatamente da una immagine falsa e distorta del nostro operare, lasciate che anch’io, concludendo, pensando al passato ed al futuro della nostra Organizzazione, ricordi il famoso verso di Dante con il quale Carlo Marx chiuse la prima edizione del “Capitale”:

“Segui il tuo corso e lascia dir le genti”


[1] A seguito del congresso, esce, nel novembre 1981 un numero speciale di “Ifcl”, Groppi Carlo, Atti Assemblea Congressuale Fnle-Cgil Larderello, 7 maggio 1981 pp. 63.
[2] Il materiale congressuale (relazione del segretario Carlo Groppi, interventi, elezione dei nuovi organismi) era troppo voluminoso per far parte di questa antologia di scritti e sebbene la relazione sia stata da me elaborata, come segretario in carica, le oltre quaranta pagine che la compongono non sono né riproponibili per intero né per sintesi. Per questo motivo ho ritenuto riportare il solo punto conclusivo “Nuovo slancio all’azione della Fnle con il rinnovamento e una giusta linea politica”.

giovedì 12 aprile 2018





PASSIONI, SPERANZE, ILLUSIONI. CAP. 87. (1981)

Le fatiche delle montagne e le fatiche delle pianure…
        Verso il XII° Congresso della Fnle-Cgil di Larderello

         Questo numero “speciale” di “Informazioni Fnle-Cgil Larderello” è dedicato alla pubblicazione di un raro opuscolo scritto dall’avvocato Umberto Grilli sul “Processo di Volterra per i fatti del 24 settembre 1911 a Piombino” e pubblicato a Massa Marittima nel 1912.
         E’ una pagina della dura e travagliata lotta dei lavoratori italiani contro l’autoritarismo padronale e statale, che un filo rosso di continuità lega a vicende a noi più vicine e ancora attuali: alla teorizzazione degli opposti estremismi, all’incriminazione degli anarchici Valpreda e Pinelli per la strage di Piazza Fontana, al non chiarito ruolo dei servizi segreti e di importanti apparati dello Stato nell’opera di provocazione contro il movimento operaio e studentesco, alle stragi di Portella della Ginestra, Melissa, Montescaglioso, Avola, Modena, Reggio Emilia, stragi effettuate dalla “banda Giuliano” al soldo dei latifondisti e caporioni democristiani e dalla polizia di Scelba e di Tambroni, ministri della Repubblica Italiana.
         Un filo rosso di lotte che hanno coinvolto anche le nostre zone, dai grandiosi scioperi del 1919-1920 contro la politica dei bassi salari della Società Boracifera Larderello diretta dal principe Piero Ginori Conti, fino alle lotte dei mezzadri ed alla ricostruzione degli stabilimenti con il primario apporto dei lavoratori, alle lotte per un unico contratto “elettrici” negli anni ’50, che segnarono una grave sconfitta e portarono elementi di divisione in tutto il tessuto sociale della Valdicecina, sui quali si inserì la politica di Fascetti e del dottor Bruno, fino agli anni più recenti, alle lotte per la nazionalizzazione, per l’assorbimento in organico dei lavoratori delle ditte appaltatrici e per lo sviluppo delle attività geotermiche e l’occupazione giovanile.
         Si parla oggi, a fronte di taluni atteggiamenti delle nuove generazioni, a sintomi di “imbarbarimento” della società ed anche ad elementi di disorientamento politico in chi si richiama ad ideali rivoluzionari e progressisti, di “mancanza di coscienza storica”, non solo cioè mancanza di partecipazione diretta, ma di formazione culturale, di conoscenza, di metodi organici formativi per una concezione della vita e della storia capaci di ricondurre il particolare al generale e, quindi, di ricomporre anche una identità unitaria in ogni individuo per superare la solitudine, l’angoscia, l’egoismo, l’alienazione, lo sdoppiamento tra pubblico e privato, che tanto spesso si manifestano tra i giovani e di cui il rifugio nel labirinto mortale della droga e l’identificazione in teorie dell’irrazionale e della violenza non sono che le manifestazioni più esteriori.
         Certo, è la società nel suo insieme che deve essere cambiata affinché nuovi valori, nuovi ideali si affermino. Non possiamo ignorare che viviamo in uno dei momenti nei quali – come afferma Marx nel Manifesto dei Comunisti – per alcuni paesi, e in ogni caso per l’Italia, o si avvia una trasformazione rivoluzionaria della società o si può andare incontro “alla rovina delle classi in lotta” e cioè alla decadenza di una civiltà, alla rovina di un Paese.
         Dal 1911, epoca dei fatti di Piombino, fino ad oggi, la classe operaia ha conosciuto in tutto il mondo, un grandioso sviluppo economico, sociale e politico. Anche nei paesi a capitalismo avanzato, dove esistono forme di democrazia liberale e borghese, essa appare oggi come l’unico soggetto veramente capace di una grande opera di trasformazione, quella trasformazione che tenda ad una ripartizione delle risorse su scala mondiale in modo ugualitario, all’annullamento degli sprechi e, attraverso un nuovo modello di vita individuale, alla costruzione di una società più giusta, realmente più libera, più democratica, più umana.
         Anche il sindacato italiano, con i suoi milioni di iscritti, e con la grande forza della sua tradizione e del suo patrimonio di lotte sempre a difesa dei lavoratori e dei ceti più deboli, è uno strumento fondamentale nel processo rivoluzionario del cambiamento della società. Proprio per questo principale motivo esso è sempre al centro di uno scontro di classe (che cambia forma a seconda degli orientamenti più generali dominanti in un particolare periodo storico e per il peso e la presenza di forze e correnti progressiste nel Governo), e si manifesta o con la repressione o con la frantumazione e la divisione o con il creare, attraverso il controllo dei mass-media, sfiducia tra i lavoratori stessi, intorno alle sue scelte, ai suoi dirigenti, ai suoi ideali.
         Singolare e chiaro è quanto sta accadendo proprio in queste settimane contro il sindacato e contro la Cgil in particolare, per il problema della “scala mobile” e la difesa dei redditi dei lavoratori minacciati da una politica economica dissennata e da un Governo incapace di offrire credibilità su un progetto globale di riforme e di sviluppo nazionale.
         La Fnle-Cgil di Larderello, che è parte integrante del movimento di massa progressista e riformatore e si riconosce pienamente nei valori e negli obiettivi politici della Cgil, terrà, tra pochi giorni (7 maggio 1981), il suo XII° Congresso. Un congresso che cade, per quanto attiene lo specifico della fabbrica e del territorio nel quale opera il nostro sindacato, in una fase di apertura allo sviluppo. Sviluppo che, anche per la nostra azione, è stato possibile e sul quale ci impegneremo con le verifiche per non vanificare nella pratica attuativa, nelle meschine beghe della lotta per le poltrone, degli aggiustamenti personali legati al sottogoverno e alla lottizzazione politica più che alle reali capacità professionali, i proponimenti e i contenuti politici nuovi e avanzati delle linee programmatiche dell’Enel, per la geotermia.
         Certo, il nuovo è ancora immerso nel vecchio e stenta a liberarsi di questo abbraccio che può essere fatale. E’ bene quindi meditare sulla necessità di appoggiare con ogni forza nostra le tendenze innovatrici che anche nella conduzione della geotermia si manifestano e saper dividere, allo stesso tempo, i problemi irrisolti dentro la nostra fabbrica e irrisolti per tanti lavoratori, da questi obiettivi di carattere più generale. Sui secondi deve instaurarsi un rapporto di aperta conflittualità con la Direzione perché, tra l’altro, anche la loro soluzione è legata alla positività del progetto generale. Noi misureremo la volontà politica dai fatti concreti, dai risultati, e non firmiamo e non firmeremo cambiali in bianco, come qualcuno vuol far credere, il nostro interesse è l’espansione produttiva, il giusto rapporto tra produzione e occupazione, una vita democratica dentro la Fabbrica, intesa non tanto come momento di sfruttamento e di sofferenza, ma come luogo di incontro e di maturazione. Anche per questo motivo non ci innamoriamo né delle formule organizzative, né dei Direttori: riconosciamo a loro l’importanza che hanno, ma contiamo, come classe operaia, sui cambiamenti più profondi nella mentalità democratica e tecnica di direzione aziendale e sulla forza di organizzazione e di lotta dei lavoratori.
         Il nostro XII° Congresso, che ci vede a cinque anni di distanza dal precedente, notevolmente più forti anche sul piano degli iscritti (nel 1976 = 475; nel 1980 = 591) e dell’organizzazione complessiva e, quindi, dell’influenza in tutta la vita interna ed esterna alla Fabbrica, dovrà significare un ulteriore rafforzamento e rinnovamento interno. Abbiamo la volontà e gli uomini per farlo,  e lo faremo cercando il più vasto consenso degli iscritti e dei lavoratori. Come abbiamo detto in altre occasioni, per vivere e svilupparsi ed essere sempre più vicino ai problemi e alle speranze della gente, il sindacato ha bisogno della partecipazione attiva dei giovani, delle donne, dei tecnici, di tutti gli operai con un contatto permanente fatto di critiche, suggerimenti, impegno, nelle fasi di elaborazione e solidarietà nelle lotte.
         Ha bisogno di decentrarsi dentro le fabbriche e nel territorio, di ritrovare lo slancio unitario dei Consigli superando di fronte ai problemi, gli steccati ideologici e di parte, sempre contrari, qualsiasi sia la loro matrice, ai veri interessi dei lavoratori.
         Molte illusioni, è vero, sono cadute intorno alla miracolistica conquista dell’unità del composito mondo sindacale italiano. Oggi non si parla più di “unità organica” e anche “l’unità giorno per giorno” non sempre è realizzabile. Anche molti compagni, adesso e nel passato, hanno rivolto critiche alla pratica unitaria, perché in essa vedevano un annullamento dei caratteri specifici della Cgil, un appiattimento dei valori, un verticismo che mediava continuamente i contrasti interni e che, in ultima analisi, sviliva il ruolo del sindacato.
         Questi compagni non hanno tutti i torti ad esprimere una critica così severa, soprattutto per la gestione burocratica che si è fatta dell’unità, ma è bene riflettere ancora su alcuni punti fondamentali ed essere onesti con noi stessi per dare una risposta: cosa sarebbe stato del nostro Paese, sottoposto dal 1968 ad oggi a un attacco reazionario di inaudita violenza, che si è manifestato con il terrorismo, il qualunquismo, l’inflazione, il “non governo”, la corruzione, senza la Federazione Unitaria Cgil-Cisl-Uil? Sarebbe possibile guardare ancora ad uno sviluppo democratico della nostra Società? Sarebbero state possibili le conquiste economiche e di democrazia ottenute dai lavoratori?
         La democrazia è faticosa. Ognuno di noi lascia qualcosa quando si unisce ad altri soggetti dalla provenienza culturale, sociale, umana, la più varia., e si arricchisce, allo stesso tempo, e matura una più consapevole visione dei problemi e della vita; si trasforma e trasforma insieme, in un divenire che non è, per fortuna, regolato da dotrrine immutabili ed eterne. A questo divenire, a questa unità tra diversi viandanti che ricercano il giusto cammino, bisogna ancora guardare come al principale degli obiettivi e non lasciarsi travolgere da difficoltà contingenti ma mpliate e deformate, per fini non certo di solidarietà verso i problemi della classe lavoratrice.
         E’ in tal senso che non crediamo di fare propaganda o di autoincensarci dicendo che la Fnle-Cgil è un sindacato in espansione, giovane, con la più assoluta autonomia politica e la più ampia democrazia interna, che ricerca l’unità con le altre Organizzazioni in un rapporto chiaro e costruttivo. Pubblicando con tenacia il nostro “giornalino” “Informazioni Fnle-Cgil Larderello” noi intendiamo, tra l’altro, non solo informare, ma, se è possibile, dare elementi di conoscenza e di formazione sulle più generali tematiche sociali, economiche e culturali, proprio nel senso di coprire un piccolo spazio per l’innalzamento della coscienza di classe e culturale dei compagni e dei lavoratori. Anche il “giornalino” è dunque uno strumento aperto, pluralista, che non appartiene soltanto alla Fnle o a chi lo scrive, ma che appartiene e vuole appartenere sempre più, ai lavoratori della Fabbrica e della Zona.
         E proprio per questi elementi noi lanciamo in occasione del XII° Congresso un appello ad una nuova leva di iscritti in tutti i posti di lavoro e realtà della nostra Fabbrica, superando le concezioni del falso privilegio, del facile accomodamento personale, della “paura” e dell’indifferenza, dell’estremismo sterile e settario, che talvolta allontanano da noi i giovani, le donne, i tecnici, snaturando e impoverendo la dialettica conflittuale nella Fabbrica e lasciando troppi spazi di manovra alle posizioni che ancora esistono, del paternalismo e del sottogoverno.

“le fatiche delle montagne sono alle nostre spalle
davanti a noi le fatiche delle pianure”

Sono fatiche altrettanto dure, sono prove altrettanto difficili quelle che ci attendono, ma se avremo il consenso della gente, se agiremo con intelligenza e con passione per risolvere i problemi, se manterremo questa salda e sincera amicizia nel gruppo dirigente, se non anteporremo il nostro interesse personale a quello dei lavoratori, se sapremo vedere in tempo i nostri errori e criticarli per trarre da essi insegnamenti, allora è certo, compagni, che il nostro cammino non sarà fermato. 

lunedì 9 aprile 2018






IL  SECCATOIO  DI CHERUBINO

“ERA  IL  1940  QUANDO  MIO  PADRE  ACQUISTO’ UNA  CASA IN UN PICCOLO PAESE:  BAGNORE DI S. FIORA –GR  (800 ABITANTI) SUL  MONTE  AMIATA.  AVEVO QUATTRO  ANNI  ED ERO IL  PIU’  PICCOLO  DEI  SUOI TRE  FIGLI.
LA NOSTRA NUOVA  CASA  ERA VICINISSIMA SIA  ALL’ ABITAZIONE  CHE  AL  SECCATOIO  DEL  SIG .  MARCONI   CHERUBINO, UN UOMO DI  OLTRE  SETTANTA ANNI.
DICIAMO PURE “UN OMONE” CON OLTRE UN  METRO E OTTANTA  DI STATURA, CLASSICO  BOSCAIOLO,  GRANDE  BEVITORE  E  FUMATORE  DI PIPA,  E  CACCIATORE. PASSAVA LA SUA VITA  NEL  BOSCO  E  NEL SECCATOIO,  NEL QUALE  SECCAVA SIA  LE  SUE  CASTAGNE  CHE  QUELLE  DEGLI  ALTRI PAESANI,  COMPRESE  LE NOSTRE. IN QUESTO MESTIERE SI  RITENEVA IL PIU’ BRAVO IN  ASSOLUTO DEI CASTAGNAI! ERA  UN UOMO MOLTO PRECISO.

IN PIU’, CHERUBINO, SAPEVA  LAVORARE  IL  LEGNO  DA  VERO  ARTISTA.   I  SUOI  ARNESI  ERANO COSTITUITI DA: UN’ACCETTA  GRANDE DA  TAGLIO, UNA LARGA    PER  SQUADRARE I TRONCHI ED UNA  PICCOLA;  UN  PENNATO; TRE  VERINE  PER  FARE I FORI NEL LEGNO; UN  COLTELLO; UNA  RASPA; UNA  SEGA   A  MANO  E UN’ASCIA.
IN QUANTO ALLA SUA FAMA DI GRAN BEVITORE DI VINO,  SI  RACCONTAVA  CHE  UN GIORNO  FACESSE SEDICI VIAGGI CON LA SOMARA, PER PORTARE AL FORNO DEL PAESE LE FASCINE DI LEGNA PER CUOCERE IL PANE E CHE AD OGNI VIAGGIO SI FERMASSE ALLA LOCANDA BEVENDO UN QUARTINO DI VINO. DUNQUE BEN QUATTRO LITRI! MA NON RICORDO DI AVERLO VISTO MAI UBRIACO.
NEGLI  ANNI  CINQUANTA   MI  LASCIO’…   E FU  PER  ME  UN  GRANDE  DISPIACERE PERCHE’ ERA STATO SEMPRE MOLTO BUONO.

NEI DIECI  ANNI  TRASCORSI  INSIEME  MI   AVEVA  RACCONTATO  TANTE  VOLTE  LA SUA  VITA  DI  BOSCAIOLO  E  DEL  SUO   SECCATOIO  E  DELLE   SUE  REGOLE   PER  SECCARE LE  CASTAGNE, CHE HO CERCATO DI RICOSTRUIRE FEDELMENTE IN MODO DA ONORARE LA SUA MEMORIA.
MISURE DEL  SECCATOIO

GRANDEZZA: CINQUE  METRI  PER  CINQUE,  O  CINQUE  PER  SEI; COPERTO   CON   IL  TETTO  A  CAPANNA;  ALTEZZA   COMPLESSIVA  CINQUE  METRI;  IL  PIANO  TERRA   NON DOVEVA  SUPERARE  I  DUE  METRI.  OCCORREVANO  CINQUE GROSSE  TRAVI  DI CASTAGNO PER SOSTENERE IL PESO DELLE  CASTAGNE: DUE TRAVI       ANDAVANO  ALLE  PARETI  E  LE ALTRE  TRE, A DISTANZE UGUALI, AL  CENTRO.  SOPRA  LE TRAVI VENIVA  POSATA  UNA  RETE  METALLICA  AVENTE UNA  PICCOLA  APERTURA PER  CONSENTIRE ALLE CASTAGNE, QUANDO  ERANO PRONTE, DI   PASSARE  AL  PIANO  TERRA; SEMPRE  A QUESTO PIANO VENIVA LASCIATA UNA  PICCOLA  FINESTRINA  CHE SERVIVA  COME  PRESA  D’ARIA. ANCHE  ALLA    PORTA  C’ERA UN  FORO  IN MODO  DA  FAR  BRUCIARE  IL  FOCO  SENZA  FIAMMA  ( A FOCO  MORTO). ERA NECESSARIO UN PAGLIERICCIO CON UN SACCO DI FOGLIE  DI  GRANTURCO  PER  POTERSI  RIPOSARE  DURANTE  LA NOTTE, IN QUANTO IL  FOCO NON  SI POTEVA  MAI LASCIARE .

AL  PIANO  SUPERIORE DOVE SI TROVAVANO LE CASTAGNE (LE QUALI NON  DOVEVANO SUPERARE L’ALTEZZA DI  NOVANTA CENTIMETRI), C’ERA UNA  PICCOLA  FINESTRINA  A “ V” CAPOVOLTA, CHE SERVIVA   PER L’ ARIAGGIO. 

UN’ APERTURA COLLEGATA CON UNA SCALINATA PORTAVA AL PIANO TERRA  PERMETTENDO COSI’ DI INTRODURRE LE  CASTAGNE ALL’INTERNO DEL  SECCATOIO. SI DOVEVANO METTERE IN UN SACCO PER MEGLIO DISTRIBUIRLE DENTRO IL SECCATOIO.
PER  COMPLETARE IL CARICO OCCORREVANO CIRCA VENTI GIORNI DOPO TALE PERIODO  TUTTE LE PRESE  D’ARIA  VENIVANO  SIGILLATE.
PER  SECCARE LE CASTAGNE OCCORREVANO DAI QUARANTA  AI  QUARANTACINQUE   GIORNI.

REGOLAMENTO  PER  LE  CASTAGNE

1)   LE  CASTAGNE NON  DEVONO  ESSERE  SELVATICHE
2)                 =          =              =              =          PICCOLE
3)                   =          =              =             =         BACATE
PER CONTROLLARE LA QUANTITA' CONSEGNATA IL RESPONSABILE DEL  SECCATOIO MISURAVA LE CASTAGNE CON UN APPOSITO RECIPIENTE DI LEGNO, TIPO CESTO. ALLA FINE DELLA “SECCATURA” VENIVA RESO AL CLIENTE UN SOLO CESTO DI CASTAGNE SECCHE, DEI TRE RICEVUTI DA SECCARE.
SPETTAVA  AL CLIENTE  LA SPESA DELLA BATTITURA .
LA SCORZA DELLA CASTAGNA DETTA “ LUPPICA” RESTAVA AL SECCATOIO.    

DOTAZIONE AL  SECCATOIO

1)        UN  DEPOSITO  DI  DUECENTO  LITRI  DI  ACQUA
2)        UNA  SCALA    DI  LEGNO A  PIOLI  ALTA  QUANTO  LA  STRUTTURA
3)        UNA  ACETILENE
4)        UNA  CANDELA
5)        UNA  SCOPA  PER  LE  PULIZIE  AL PIANO TERRA E  AL SOFFITTO
6)        UNA PALA GRANDE PER IL SECONDO PIANO PER  SPOSTARE LE  CASTAGNE
7)        UNA PALA PICCOLA PER IL PIANO TERRA PER TOGLIERE LA CENERE DAL                          FUOCO  E  METTERCI  LA  LUPPICA
8)       UNA  FIASCA  PER  L’ACQUA DA  BERE
9)      UN FERRO, CON MANICO DI LEGNO, PER CONTROLLARE IL FUOCO, A UNA  PUNTA,  ED  UN  SECONDO  CON DUE  PUNTE
10)  UN RASTRELLO GRANDE DI LEGNO  PER GIRARE   LE  CASTAGNE
11)           UN  RASTRELLO  SENZA  DENTI  PER SPOSTARE  IL PRODOTTO
12)      UNA  PALA  GRANDE  PER  FAR   CADERE  LE  CASTAGNE  AL  PIANO                           TERRA
13)        UNA  PADELLA  FORATA  PER  LE  CALDARROSTE  PER  IL  SABATO  SERA                      PER  GLI  AMICI (CHE   LO  VENIVANO  A TROVARE  PRIMA  DI  ANDARE  A  LETTO). INSIEME ALLA CALDARROSTE OFFRIVA  A  LORO UN  FIASCO DI  VINO    FRAGOLINO (TIPICO BEVERAGGIO PER LE CASTAGNE).
14) UNA  ACCETTA  PER SPEZZARE  LE  LEGNA
15) OCCORREVA    UNA  TETTOIA  PER  RIPARARE LE LEGNA   DALLA PIOGGIA
16) LA  LEGNA  DOVEVA   ESSERE  DI  CASTAGNO   SELVATICO  O  DI
 CIOCCO   (N0N  SI  DOVEVA   ADOPERARE  LEGNA  UMIDA O  DI  RAMO 
       DI  CASTAGNO

LA  CASTAGNA  SECCA, DOPO LA BATTITURA, DEVE ESSERE BIANCA  PER  FARE  UNA  BUONA  FARINA E DEVE ESSERE MACINATA CON LA RUOTA DI  PIETRA.

IL  DETTO  DI  CHERUBINO:  “IN UN  SECCATOIO  CHE  SI  RISPETTI  CI  DEVE ESSERE  SEMPRE UN  FIASCO  DI  VINO PER   GLI  AMICI!”