Il più bell’inverno
In gennaio fiorì il ciliegio stento,
poi venne la grande neve e ricoprì
il giardino, il vento gelido alitò
sui gabbioni dei conigli appena nati,
ma riuscimmo a ripararli,
nella baracca di Raspino.
Tutto si fermò in quei giorni sospesi
tra paura e speranza, e noi bambini,
seduti intorno al fuoco, mangiavamo
castagne e biscottini, mentre sulla
trave correva un topolino affamato:
o, forse, innamorato?
Dall’altra stanza di legno giungevan
l’allegro suono della fisarmonica
e il battito dei piedi, a scandire il tempo;
c’era mio padre, allora giovane
e forte, mentre la nonna ci inebriava
col buon odore dello spezzatino
che instancabile rumava,
sul fornello a carbone mai spento.
Di noi, quattro piccoli amici,
solo una era ragazza, ed il suo seno
andava su e giù, seguendo il filo
del cucito, pensando al figlio
del macellaio che l’amava.
Accompagnavo il palpito
col mio segreto sogno,
una dolcezza immensa, ed un’attesa
quieta, perché tra poco,
anche l’amore mio sarebbe apparsa
dal viottolino scavato tra gli alberi,
volando coi suoi biondi capelli
nell’aria limpida, sopra la coltre bianca.
Mai più bell’inverno ho conosciuto,
- né felicità perfetta, senza se e ma’,
fuori dal conteggio delle ore, dei giorni,
delle stagioni ed anni, pura,
creduta eterna, a sfidar la morte, -
come al tempo di quel primo amore,
che incessante ritorna a farmi sentir vivo.
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