Io sono l'ultimo...
dal blog di Riccardo Michelucci
www.riccardomichelucci.it/resistenza
Talvolta mi ritorna l’immagine della città
vuota. Stato d’emergenza assoluto. Ponti tutti distrutti. Ho un ricordo di
questo silenzio più del rumore dei combattimenti. Il mio nome di battaglia era
“Angela”. È stata un’esperienza, quella partigiana, dura e tragica, che ha
richiesto immensi sacrifici e tanto coraggio. Eravamo consapevoli che, una volta
catturati, prima di ricevere la morte saremmo passati attraverso la tortura e le
sofferenze più atroci. I compagni ci chiedevano se si volesse il veleno da
portare appresso. Ma io non l’ho mai preso: non lo volevo il veleno sul corpo.
Però ho una soglia del dolore piuttosto bassa. Mi chiedo ancora come avrei
fatto. Tuttavia penso che rifarei la stessa scelta che feci allora. (Liliana
Mattei)
Nel 1952, a cura di Piero Malvezzi e Giovanni Pirelli,
Einaudi pubblicò le “Lettere dei condannati a morte della Resistenza italiana”,
un testo fondamentale che raccoglie 132 testimonianze di caduti. In questi
giorni l’editore torinese, nella collana Stile libero, a cura di Stefano Faure,
Andrea Liparoto e Giacomo Papi, con la collaborazione dell’Anpi, manda in
libreria un volume con un centinaio di testimonianze di partigiani, dal titolo
“Io sono l’ultimo” (pagine 332, euro 18), a ricordare che questa è una delle
ultime occasioni per raccogliere la voce dei protagonisti della guerra di
liberazione, o guerra civile, se si vuol sottolineare la contrapposizione con
gli italiani che scelsero di stare dalla parte sbagliata, con la Repubblica di
Salò e i nazisti. Queste pagine sono il racconto corale di una generazione che
scoprì i valori della libertà e accettò il rischio della lotta. Un testo
importante per capire che cosa fu la Resistenza e l’ideologia che l’animò. Dopo
vent’anni di discussioni attorno agli errori dei partigiani, alla strage di
Porzûs come agli eccidi successivi del Triangolo Rosso, è confortante ascoltare
la voce della maggioranza che combattè per la libertà e non per vendette di
parte. Anche per scoprire due diversi atteggiamenti. C’è chi, come Liliana
Benvenuti Mattei, detta «Angela», classe 1923, gappista di Fiesole, antepone a
tutto la pietà: «Ricordo due ragazzi entrati nella Repubblica di Salò. Voi non
avete idea del dispiacere. Erano morti, questi due ragazzi». E chi, come Bruno
Brizzi, detto «Cammello», continua a definire «bestie» i nemici, sulla scorta di
Elio Vittorini, che nel romanzo “Uomini e no” aveva definito i repubblichini
«figli di stronza». Le pagine più belle non sono tuttavia quelle intrise di
ideologia, ma i racconti di chi riesce a fermare una scena, un’esperienza
traumatica: le torture subite da Elvira Vremc, «Katja» di Trieste, o il
tentativo di Walter Vallicelli, «Tabac» di Ravenna, di salvare un soldato.
tedesco colpito dall’aviazione alleata, dopo che lui stesso aveva sparato contro
un camion nazista. (Dino Messina, dal blog “La Nostra Storia”)
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