The Golden Bough (Il ramo d’oro). Studio
della magia e della religione.
di James G. Frazer.
1^ Edizione, Giulio
Einaudi Editore, Torino, 1950. Voll. I, II, pp. 654, 636.
Traduzione di Lauro
De Bosis.
Dopo diversi decenni ho ripreso
in mano questo libro meraviglioso, opera fondamentale di J.G. Frazer, nato a
Glasgow il 1° gennaio 1855 e morto a Cambridge il 9 maggio 1944. Da molti anni
era professore di antropologia sociale a Cambridge nel Trinity College.
Lavoratore infaticabile ebbe una preziosa collaboratrice in sua moglie, Lady
Frazer, che gli sopravvisse soltanto di qualche ora. The Golden Bough fu
pubblicato in due volumi nel 1890; in seconda edizione, con un volume in più,
nel 1900, e definitivamente nel 1911-15. Comprende in quest’ultima edizione 11
volumi di testo ed uno di Bibliografia e indice generale. Nel 1925 comparve
l’editio minor (che è appunto l’edizione tradotta dal De Bosis). J.G.Frazer fu
anche un delicato poeta. Giuseppe Cocchiara, nell’aprile 1949, concludeva così
la prefazione all’edizione italiana:
“…è facile dire che il Golden Bough sia un’opera superata. Ma di fatto
essa è, e rimane, un libro vivo e vitale, un libro di lettura facile e
appassionante oltre che un indispensabile strumento di lavoro. Un grande poeta
dei nostri giorni, Thomas Stearns Eliot, in una nota alla sua Waste Land ebbe
ad osservare che il Golden Bough ha avuto
<un’influenza profonda sulla nostra generazione>. La quale in quel
libro, che un insigne etnologo inglese, il Crawley, definiva come uno dei più
grandi del nostro tempo, ha trovato, e trova tuttora, un’opera di poesia che
rivendica all’etnologia e al folklore il posto che loro spetta nella storia
della civiltà e della cultura”.
L’ultimo capitolo di The Golden
Bough, il LXIX, è intitolato “Addio a Nemi”. Sono poche pagine, e dovremmo
leggerle tutte. Per economia di spazio su questo blog riporterò soltanto due
brevi passaggi, l’iniziale ed il finale:
“…Eccoci
alla fine delle nostre ricerche, ma, come accade quando si cerca la verità, se
abbiamo risposto a una domanda molte altre ne abbiam sollevate; se abbiamo
seguito fino in fondo il nostro sentiero, abbiamo dovuto trascurarne parecchi
altri che uscivano da esso e conducevano o sembravano condurre a mète ben
lontane dal sacro bosco di Nemi. Taluni di questi sentieri abbiamo per alcun
poco seguito; altri, se la fortuna ci sarà benevola, potremo forse un giorno
percorrere in compagnia dei nostri lettori. Per ora abbiamo insieme viaggiato
abbastanza ed è giunta l’ora della separazione. Ma prima possiamo rivolgerci
una domanda. Non vi sarà forse ancora qualche conclusione, qualche insegnamento
e, chissà? Qualche speranza e qualche incoraggiamento, nella triste istoria
degli errori e delle follie umane di cui in questo libro ci siamo occupati?...Il
nostro lungo viaggio di scoperta è compiuto, la nostra barca può finalmente
calare nel porto le sue stanche vele. Prendiamo ancora una volta la strada di Nemi.
Scende la sera mentre risaliamo la lunga pendice della via Appia. Sui colli
Albani guardiamo indietro: fiammeggia il cielo al tramonto e la sua luce d’oro
posa su Roma come l’aureola di un santo morente e sembra avvolgere d’un
orifiamma la cupola di S. Pietro. Questo spettacolo, una volta veduto, non
potrà dimenticarsi mai più. Ma lasciamolo, seguitiamo ancora la nostra via che
s’inombra sulla costa della montagna finché giungiamo a Nemi e guardiamo allora
nella concava profondità del lago che rapidamente scompare nell’ombra del
vespro. Poco è cambiato dal tempo in cui Diana riceveva nel sacro bosco
l’omaggio dei suoi adoratori. Il tempio della dea silvana è scomparso, è vero;
non più il re del bosco monta la guardia al ramo d’oro; ma le selve di Nemi
sono ancora verdi e mentre il tramonto a ponente si scolora sopra di esse ci
giunge sulle ali del vento il suono dell’Angelus dalle campane di Aricia, Ave
Maria! Dolci e solenni si succedono i loro rintocchi dalla cittadina lontana e
vanno languidamente a morire sulla vasta pianura della campagna romana. Il re è
morto. Viva il re. Ave Maria!”
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