sabato 7 aprile 2012


The Golden Bough (Il ramo d’oro). Studio della magia e della religione.
di James G. Frazer.
1^ Edizione, Giulio Einaudi Editore, Torino, 1950. Voll. I, II, pp. 654, 636.
Traduzione di Lauro De Bosis.

Dopo diversi decenni ho ripreso in mano questo libro meraviglioso, opera fondamentale di J.G. Frazer, nato a Glasgow il 1° gennaio 1855 e morto a Cambridge il 9 maggio 1944. Da molti anni era professore di antropologia sociale a Cambridge nel Trinity College. Lavoratore infaticabile ebbe una preziosa collaboratrice in sua moglie, Lady Frazer, che gli sopravvisse soltanto di qualche ora. The Golden Bough fu pubblicato in due volumi nel 1890; in seconda edizione, con un volume in più, nel 1900, e definitivamente nel 1911-15. Comprende in quest’ultima edizione 11 volumi di testo ed uno di Bibliografia e indice generale. Nel 1925 comparve l’editio minor (che è appunto l’edizione tradotta dal De Bosis). J.G.Frazer fu anche un delicato poeta. Giuseppe Cocchiara, nell’aprile 1949, concludeva così la prefazione all’edizione italiana:

“…è facile dire che il Golden Bough sia un’opera superata. Ma di fatto essa è, e rimane, un libro vivo e vitale, un libro di lettura facile e appassionante oltre che un indispensabile strumento di lavoro. Un grande poeta dei nostri giorni, Thomas Stearns Eliot, in una nota alla sua Waste Land ebbe ad osservare che il Golden Bough ha avuto  <un’influenza profonda sulla nostra generazione>. La quale in quel libro, che un insigne etnologo inglese, il Crawley, definiva come uno dei più grandi del nostro tempo, ha trovato, e trova tuttora, un’opera di poesia che rivendica all’etnologia e al folklore il posto che loro spetta nella storia della civiltà e della cultura”.

L’ultimo capitolo di The Golden Bough, il LXIX, è intitolato “Addio a Nemi”. Sono poche pagine, e dovremmo leggerle tutte. Per economia di spazio su questo blog riporterò soltanto due brevi passaggi, l’iniziale ed il finale:

 “…Eccoci alla fine delle nostre ricerche, ma, come accade quando si cerca la verità, se abbiamo risposto a una domanda molte altre ne abbiam sollevate; se abbiamo seguito fino in fondo il nostro sentiero, abbiamo dovuto trascurarne parecchi altri che uscivano da esso e conducevano o sembravano condurre a mète ben lontane dal sacro bosco di Nemi. Taluni di questi sentieri abbiamo per alcun poco seguito; altri, se la fortuna ci sarà benevola, potremo forse un giorno percorrere in compagnia dei nostri lettori. Per ora abbiamo insieme viaggiato abbastanza ed è giunta l’ora della separazione. Ma prima possiamo rivolgerci una domanda. Non vi sarà forse ancora qualche conclusione, qualche insegnamento e, chissà? Qualche speranza e qualche incoraggiamento, nella triste istoria degli errori e delle follie umane di cui in questo libro ci siamo occupati?...Il nostro lungo viaggio di scoperta è compiuto, la nostra barca può finalmente calare nel porto le sue stanche vele. Prendiamo ancora una volta la strada di Nemi. Scende la sera mentre risaliamo la lunga pendice della via Appia. Sui colli Albani guardiamo indietro: fiammeggia il cielo al tramonto e la sua luce d’oro posa su Roma come l’aureola di un santo morente e sembra avvolgere d’un orifiamma la cupola di S. Pietro. Questo spettacolo, una volta veduto, non potrà dimenticarsi mai più. Ma lasciamolo, seguitiamo ancora la nostra via che s’inombra sulla costa della montagna finché giungiamo a Nemi e guardiamo allora nella concava profondità del lago che rapidamente scompare nell’ombra del vespro. Poco è cambiato dal tempo in cui Diana riceveva nel sacro bosco l’omaggio dei suoi adoratori. Il tempio della dea silvana è scomparso, è vero; non più il re del bosco monta la guardia al ramo d’oro; ma le selve di Nemi sono ancora verdi e mentre il tramonto a ponente si scolora sopra di esse ci giunge sulle ali del vento il suono dell’Angelus dalle campane di Aricia, Ave Maria! Dolci e solenni si succedono i loro rintocchi dalla cittadina lontana e vanno languidamente a morire sulla vasta pianura della campagna romana. Il re è morto. Viva il re. Ave Maria!”

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