Appendice a “Passioni, speranze, illusioni…”
Con oggi termino l’inserimento degli scritti di “Passioni,
speranze, illusioni…”, cioè delle vicende relative alla storia della grande “fabbrica”
di Larderello (Pisa, Toscana, Italia) negli anni 1972-1985, il periodo che mi
vide tra i protagonisti sindacali, da quando cioè fui eletto nella Segreteria
della Fidae/Cgil (1972) a quando, eletto nel Consiglio Comunale di Castelnuovo
di Val di Cecina (1985), rassegnai le dimissioni dagli incarichi sindacali per
incompatibilità con cariche elettive amministrative. A chiusura posto sul blog alcune
delle poesie relative alla Fabbrica Amica, nel ricordo dei meravigliosi
compagni, maestri ed amici che mi guidarono in questi anni pieni di entusiasmo
e di passione, ringraziando gli sconosciuti lettori che qualche volta si sono
soffermati sul mio blog personale.
Lettera dei compagni della
Segreteria Fnle-Cgil di Larderello (12 giugno 1985)
Caro Carlo, come già sai, il nostro Comitato Direttivo di
Larderello ha preso atto, seppure a malincuore, della tua precisa volontà di dimetterti, a conseguenza del
gravoso impegno assunto di recente nell’ambito della Amministrazione Comunale
di Castelnuovo V.C. dopo le recenti elezioni del 12 maggio 1985.
Non
ti nascondiamo il nostro forte dispiacere, certamente condiviso dagli altri
compagni, di dover rinunciare al tuo insostituibile contributo alle nostre
discussioni del Comitato Direttivo, o alla Segreteria, o alla creazione del
“giornalino”, o così via, che ha rappresentato, per noi dell’attuale
generazione, una ferma garanzia di guida politica e di tranquillità operativa,
anche dopo che hai lasciato la carica di Segretario Responsabile.
Ora
più che mai possiamo apprezzare la traccia indelebile che lasci con anni di impegno
disinteressato (contributo non secondario alla crescita, in tutti i sensi,
della nostra organizzazione), grazie anche alla tua fantasia, alla tua forte
carica ideale e umana e ai rapporti di sincera amicizia (ai quali tieni molto e
teniamo molto) che hai contribuito enormemente a creare fra i compagni e,
spesso, fra le stesse nostre famiglie. Rapporti che, ovviamente, non mutano con
il mutare delle circostanze.
Questa
nostra lettera non vuole essere un commiato, poiché non dubitiamo che
muovendosi il tuo nuovo impegno nella stessa direzione ideale, ci ritroveremo
spesso a fianco nelle lotte e sui problemi comuni. Essa va invece interpretata
come un tentativo, modesto e certamente inadeguato, di fugare ogni eventuale,
probabile, sensazione di indifferenza verso certi avvenimenti, la cui
importanza è spesso sopraffatta dal rapido evolversi dei fatti che non lascia
spazio alla riflessione.
Siamo
certi che quanto non siamo stati capaci di scrivere, saprai leggerlo ugualmente
nell’animo di ognuno di noi: perciò non ci dilunghiamo oltre, anche per non
sembrare patetici. Concludiamo quindi con un ringraziamento sincero per il
ricco patrimonio che hai lasciato a noi ed alla nostra Organizzazione (ed a
tutti i lavoratori di Larderello e della Zona), pregandoti di voler gradire il
nostro fraterno saluto.
Pacini Graziano.
Risposta ai compagni della Segreteria e del Comitato
direttivo della Fnle-Cgil di Larderello (29 giugno 1985)
Caro
Graziano,cari compagni, volevo uscire dal Comitato Direttivo alla chetichella,
senza commiati, elogi e auguri, ma voi mi avete scritto una lettera bellissima
– che conserverò tra le cose più care – alla quale mi sento obbligato di
rispondere.
Tuttavia la
risposta più significativa si può trovare nella poesia dedicata a tutti i
compagni – “Per un amore inaspettato e forte” – e pubblicata sul nostro
“giornalino”, la quale, benché riferita ad una donna, esprime bene anche i miei
sentimenti verso il sindacato e verso tutti voi.
Rimettendo a posto le mie carte,
articoli, relazioni, lettere...di questi dodici-quindici anni di attività
sindacale ho ripercorso mentalmente i fatti più significativi della mia
militanza cercando di cogliervi il senso più vero e caratterizzante: stare nel
sindacato ha significato per me, essenzialmente, rendere un servizio ai
lavoratori, ricevere una gratificazione culturale, fare gli interessi più
generali della nostra Zona e della sua gente.
Ho cercato le
intese con gli altri, ho rinunciato talvolta allo spirito di bandiera, ho
immaginato possibile una convergenza di interessi di fondo tra l’Azienda e il
sindacato, mi sono sforzato di guardare lontano, oltre il contingente e la
routine giornaliera, per capire e governare i processi di trasformazione e il
nuovo che avanzava tumultuosamente.
E l’altro
aspetto, non meno importante, è stato il desiderio di elevazione culturale che
si è tramutato nel dare alla nostra “informativa” e ai contatti personali non
solo il tratto – talvolta necessariamente arido e in codice – delle tematiche
sindacali, ma quello più ampio e ricco dei sentimenti e dei sogni degli uomini.
Da oltre trent’anni in questa “fabbrica
amica” serbo ben viva la memoria del processo di crescita fatto dalla Cgil,
delle lotte, dei successi che sempre nuove e capaci generazioni gli hanno
assicurato. E che ancora gli assicureranno perché i giovani sono ansiosi di
perfezione e sotto una scorza apparentemente cinica o distratta, pulsano forti
ideali che tendono al bene, al nuovo, al progresso e all’unità dei lavoratori.
Col nostro lavoro intelligente bisogna scoprirli e valorizzarli.
Adesso sono
passato anch’io al “governo” di una piccola Comunità, per me la più amata perché
vi affondo le mie radici, e ciò un po’ mi spaventa ed un po’ mi esalta. Io
spero, in compiti istituzionali nuovi e diversi, di non deludere mai chi in me
ripose fiducia, né chi, e siete tutti voi, mi ha insegnato ad essere un uomo
che crede e lotta per una società più giusta, solidale, partecipata. Dunque non
devo ricevere grazie, ma devo ringraziare, perché quello che ho ricevuto dal
sindacato (e non da una sigla, ma dagli uomini in carne ed ossa di Larderello,
della Zona, di Pisa e di Firenze, che ci sono dentro), è stato immensamente più
grande e importante di quanto dato. E, per usare una frase ad effetto, ciò
rappresenta uno dei significati più profondi della mia vita.
Lettera a Cesare, Amerigo, Enzo…, 12
maggio 1988[1]
Cari compagni,
poiché
avete dimostrato un benevolo apprezzamento di ciò che sono andato scrivendo sul
nostro “giornalino” sindacale, penso di farvi cosa gradita - mantenendo fede ad
una promessa! – nel caso che un numero vi fosse sfuggito, inviandovi alcuni
testi delle poesie che compongono il fascicoletto inedito “Fabbrica amica”.
Le poesie hanno al centro me stesso e
ciò è ricorrente fin dal “dolce stil novo”; il problema rimane sempre il come
far diventare – e, quindi, vivere – la banalità, la quotidianità, l’intimo, su
una scala più ampia e comprensibile (partecipata), nei sentimenti di altri
uomini.
Io sono consapevole che la mia poesia è
come un filo di palero in una prateria immensa, dove crescono e sbocciano
incessantemente erbe e fiori meravigliosi; non sogno né gloria e nemmeno quella
modesta presenza editoriale pagata generalmente di tasca propria dalla moltitudine poeticante di oggi
(epoca che vede un boom della poesia, che rivela il bisogno, tanto più che
cresce la presenza tecnologica, di riappropriamento dei sentimenti), la mia
poesia nasce da una forza interna e guarda essenzialmente alla mia anima, io
sono “padrone e donno”, mentre la parola, nel tempo che inesorabile scorre,
resta specchio e sogno, paura e speranza.
La parola, questo magico incantesimo,
io penso resti comunque il segno – pur in uno spazio e in un tempo definiti –
di una presenza comune che ha teso all’immortalità. Accogliete dunque, in
questo spirito, la fragile essenza dei miei ricordi e pensieri, sperando che
essa non deluda ciò che vi aspettate da me.
Undici poesie, 1987
La memoria, madre della poesia, si volge nei miei più
recenti scritti a un tema fondamentale della vita moderna: il rapporto con la
Fabbrica, con il mondo del lavoro e con i personaggi, le situazioni, gli
ambienti di quel microcosmo così diverso da quello infantile e del “villaggio
materno”, eppure altrettanto determinante nella crescita umana, sociale e
creativa. Non più le lacerazioni struggenti e l’abbandono delle persone amate,
il vagheggiamento delle amicizie impossibili, gli amori-non amori nell’irreale
spazio del Borgo natio, ma il consapevole farsi uomini, le lotte, le speranze,
i ricordi dei compagni, degli incontri che hanno dato un senso più profondo
all’esistenza. Mentre intorno par che tutti cambi e si trasformi rapidamente,
solo apparentemente distolto da futili e quotidiane incombenze, ed anche da
contatti sempre più superficiali e apatici, ho avvertito l’esigenza di fissare
immagini a rischio soggette a cancellazione per quel “segno”, quella
testimonianza di vita vissuta, quella forza che rifiutando il nulla guarda
ancora con tenerezza e benevolenza alle vicende degli uomini mentre par che le
rifiuti.
Fabbrica amica
Fabbrica
amica! Quanta fatica
mi
sei costata in questi quasi quarant’anni
d’odio
e d’amore.
Quanti
sogni spezzati, vane illusioni,
muto
dolore!
E
quanta gioia inattesa
per
incontri, pensieri, parole
dolcissime
e vere;
per
compagni forti e pazienti
che
mi hanno guidato fuori
da
tremende bufere.
A
tutti voglio aprire il mio cuore,
ai
vivi e ai morti,
con
parole leggere come aquiloni
perché
libere si cullino nel vento.
Al sismografo
Sulla
carta affumicata
la
penna registrava
della
terra il pulsare
lontano
e profondo:
montagne,
abissi, vulcani
dell’ignoto
mondo
aspettavo
nell’onda sinuosa.
Fuori
il sole giocava
su
rose purpuree,
più
tardi sorgeva la luna
e
il vento del Nord
avvolgeva
l’orto
in
una trama di gelo.
Così
m’é rimasta
quell’ansia
antica
di
scrutare oltre il visibile
e
noto
dentro
le cose,
per
comprendere il nuovo
che
multiforme sboccia.
Alba di lotta
Venivano
presto i crumiri
perché
avevano vergogna e paura
di noi.
Le
sigarette ai vetri
-
nel timido buio
che
si scioglieva nell’alba –
brillavano
come ferite.
La strada del Poggione
Strada
di casa, strada rossa,
strada
di polvere e sudore
tra
lagoni e vasche fumanti,
officine
dai lampi azzurri e tonanti,
e
uomini come Dei
venire
incontro alla sera.
Strada
delle ombre invitanti
nel
breve tempo d’estate,
strada
proletaria che salivi
ai
sogni perduti.
Scornello
A Lando Cellai
Era
un mite autunno e noi s’andava
sulle
crete di Scornello
discutendo
di antichi mari e lagune,
foreste
immense, potenti vulcani
e
di quella dolce stagione
e
di noi, dei nostri amori
romantici
e vani. Ora la fila
dei
cipressi e la strada bianca
che
sale dalle vecchie moje
alla
collina, mi stringe, nel vederla
il
cuore. Di noi non rimarrà
nemmeno
l’esile guscio della conchiglia
che
la pioggia ha spezzato
e
al sole brilla
nell’ultimo
bagliore.
Scuola Aziendale
Volevo
imparare i segreti del mondo
e
i sogni dei poeti.
Prima
dell’alba mi alzavo
e
i merli volavano nell’orto
tra
meli e ciliegi. Poi il sole
accarezzava
di Raspino i legni antichi
e
già s’udivano le donne
nelle
piccole stanze
ridere felici.
Giornate
immense, uomini grandi,
parole
come leggi scritte col sangue
e
Saba e Neruda mi tenevan per
mano.
Sembravano
gli astri essere immoti,
ferma
la ruota del tempo,
senza
male e tormento la vita,
puro
l’amore, infinito il desiderio
negli
occhi bambini.
Ora
son morti tutti i professori
della
Scuola Aziendale,
ce
ne andiamo in pensione anche noi
uno
ad uno e sembra incredibile
abbandonare
per sempre la terra
come
semi bruciati dal vento.
La “ringhiera”
Era
una casa ottocentesca
come
se ne vedono ancora
nei
sobborghi operai di città inglesi,
il
privato inesistente
con
le pareti sottili,
i
nidi sui ballatoi,
gli
arnesi riposti con cura
e
le ragazze sempre qualcuna
ti
sorrideva con gli occhi
e
la veste fiorita:
proprio
come fa in principio
all’uomo
la vita!
Ma
più amavo
la
piccola bottega
odorante
di zucchero e inchiostro
aperta
su Piazza Leopolda
che
offriva all’insaputa
di
capi e guardiani
le
dolci speranze
del
nostro domani!
Dove
sorgeva c’è ora un parcheggio
per
autovetture
e
nessuno pensa
che
potevamo benissimo farne a meno:
ma
il peggio non è ancora venuto.
C’era la neve
In
gennaio fiorì il ciliegio
stento,
poi
venne il vento freddo
e
una gran neve
coprì
la terra.
Si
scavaron sentieri
fino
ai gabbioni dei conigli,
nella
casa di legno
si
stava tutti insieme
intorno
al fuoco
mangiando
castagne,
genitori
e figli.
Fu
l’ultimo dolce assedio
della
vita felice,
prima
della guerra
d’ogni
giorno
nella
fabbrica amica,
quando
il tormento del tempo
perduto
ci
colmò in segreto
l’anima
smarrita.
L’anno dell’Ungheria
Ora
è meno avara
la
mano dei padroni
più
accattivante il sorriso
degli
aguzzini.
Ma
quella lotta dura,
quand’eravamo
braccati
noi
l’abbiamo fatta
compagni
perché
vincesse l’amore
perché
nella fabbrica muta
s’udisse
di nuovo la voce
della
speranza!
La tabella
C’è
stata fino agli anni sessanta
alla
porta della Direzione
la
tabella di legno marrone
dove
ogni giorno venivano
segnati
i cattivi operai,
quelli
che non rispettavano
il
padrone.
Bastava
una parola più ardita,
un
lieve ritardo al mattino,
una
fiducia tradita
per
vedere il tuo nome
tra
i compagni puniti, talvolta
senza
saper perché e come.
Ora
so’ che era un onore
-
allora avevo paura -
venir
messi in tabella,
aver
dura la vita
pagar
gabella al sistema
per
non chinar la testa
di
fronte a guardie e ruffiani,
spie
e democristiani.
Sempre
le vittime
costruiscono
il futuro.
Omnia munda mundis
Fu
per una mostra di acqueforti
e
guazzi di Tavernari
uno
scandalo grande,
il
prete tuonò rimproveri aspri
per
membra e torsi
senza
veli e mutande.
Laura
mi scrisse una lettera
amica,
questa la realtà, questa
la
fatica;
tutto
è puro per i puri di cuore
e
noi abbiamo purezza,
intelligenza,
amore.
Si,
lo sapevo e tuttavia
un
poco mi dolevo d’aver turbato
i pensieri,
scatenato
desideri repressi
di
gente innocente.
Era
di maggio e nella chiesa antica
il
canto dolce e forte
saliva
alla Madonna
oltre
il corrotto mondo
e
la morte.
Così
fu scoperto il passaggio
segreto
tra l’ufficio-museo
e
il Tempio austero
dove
fanciulle in fiore
-
a Dio piacendo –
vendevano
l’onore al padrone
gaudente.
Nella
sera viola
il
nostro riso
si
mischiava al canto,
sul
sagrato di Piazza Leopolda,
di
Ser Cepparello, impavido impudente!
[1] Di queste diciannove
poesie della raccolta “Fabbrica amica” ne stampo di seguito undici. Di alcune
ne parlai con Cesare Salvagnini in un meraviglioso e casuale incontro a
Firenze, poco prima della sua immatura morte, come accenno nell’articolo “Caro
Cesare…le rose di Spagna, l’anno dell’Ungheria”, che esposi al Centro Studi
della FIDAE/CGIL dell’Iimpruneta, nel Convegno-commemorazione a Lui dedicato.
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