I fratelli Mann.
PASSIONI, SPERANZE, ILLUSIONI.
CAP. 62.
La montagna incantata[1]
Thomas Mann (Lubecca, 1875 – Zurigo, 1955) concluse il
suo più grande romanzo, “La montagna incantata” (Der Zauberberg) nel 1924, dopo
dodici anni di lavoro, fermento narrativo e indagine saggistica, che in questa
ambiziosa opera confluiscono.
Diagramma dei complicati incontri di
uomini sui quali incombe la morte, il romanzo intende rappresentare il disastro
dei valori borghesi, riproponendo, al contempo, la continuità dello “spirito
tedesco” nella Storia. Il significato psicologico è un incitamento alla
speranza e a non soggiacere all’annichilimento dell’idea della morte.
La trama è apparentemente molto
semplice: Hans Castorp, recatosi a trovare il cugino Joachim, ammalato di
tubercolosi nel sanatorio di Davos, in Svizzera, finisce per restarvi non i
ventuno giorni che si era proposto, ma sette anni, ammaliato da quel piccolo
mondo che è in sé un universo simbolico, ma completo. Il giovane ingegnere
amburghese “pupillo della vita”, s’innamora di una pensionante, Madame Claudia
Cauchat e passa il suo tempo in discussioni con l’italiano Settembrini,
rappresentante della tradizione illuministica, e col violento gesuita Naphta,
dogmatico negatore dell’umanesimo progressista, più tardi suicida. Entrambi si
contendono l’anima dell’ingenuo borghese. Uscito dal sanatorio per andare in
guerra, di Hans non avremo più notizia. Il suo ultimo destino è infatti incerto
mentre si avvia verso la trincea.
La “montagna magica” rappresenta un
tempio di iniziazione, “una sede della pericolosa ricerca del mistero della
vita e Hans Castorp, il viandante in cerca di cultura abbraccia
volontaristicamente la malattia e la morte perché già il primo incontro con
esse gli promette una comprensione straordinaria, un avventuroso progresso. Il
Gral, la suprema verità a cui tende, e che egli intuisce nel suo sogno quasi
mortale prima di essere trascinato dalla sua altezza nella catastrofe europea,
è l’idea dell’uomo, la concezione di umanità futura, passata attraverso la più
profonda conoscenza della malattia e della morte. In quanto all’intenzione e al
fine dell’opera l’autore stesso ebbe a dire: ‘l’interesse alla morte e alla
malattia, ai fenomeni patologici, alla decadenza, non è che una variata
espressione dell’interesse alla vita, all’uomo, come dimostra la facoltà
umanistica di medicina; chi si interessa ai fatti organici, alla vita, si
interessa in particolare alla morte…’”.
L’orizzonte interno del romanzo non solo è vasto, ma
si direbbe, sconfinato: anatomia, fisiologia, patologia, farmacologia,
botanica, radiologia, musica, psicologia, biologia, meteorologia, occultismo,
filosofia, tecnologia, politica…L’uomo non ha misteri per Mann, egli lo spia
con precisione realistica nei gesti, nell’espressione di uno sguardo,
nell’intenzioni palesi o mascherate e nei particolari anormali del fisico e
della mente. E nel capitolo in cui si legge la stupenda descrizione della
tormenta di neve e del sogno di Castorp intorpidito dal gelo, la simbolica
visione di un mondo ideale, sereno, armonioso e di un’umanità concorde e rispettosa
del prossimo, gli spalanca gli orizzonti della mente e gli fa intendere il
valore della morte e il mistero della sapienza e dell’amore.
Comprende che la morte è una grande
potenza, che ad essa dobbiamo, si, restare fedeli, ma senza dimenticare che la
fedeltà alla morte e al passato è tetra voluttà e misantropia. Alla morte si
oppone l’amore, al passato l’avvenire. Le riflessioni di Hans Castorp si
condensano quindi nelle parole, punto più alto del romanzo, “per rispetto alla
bontà e all’amore l’uomo ha l’obbligo di non concedere alla morte il dominio
sui propri pensieri”.
Questo romanzo multiforme e complesso,
romanzo del tempo e del suo fluire, è anche un esauriente ritratto della
civiltà occidentale a cavallo tra i secoli XIX e XX e nella sua incantata
fusione di prosa e poesia, di vastità scientifica e di raffinata arte, il libro
forse più grandioso che sia stato
scritto nel Novecento.
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