martedì 21 febbraio 2017



SANTA GIACINTA MARESCOTTI. LA SANTA DI SOLAIO E DELLA TUSCIA.

Incontri tra noi per noi, Compagnia della Carità di Montecerboli, Montecerboli, 22 febbraio 2017.Testo di Carlo Groppi.

            Cari amici ed amiche, grazie per avermi invitato a tenere una piccola e semplice conversazione su un personaggio che mi ha molto appassionato, Clarice Marescotti, ovvero Santa Giacinta, la Santa di Viterbo e della Tuscia, che per un breve lasso di tempo soggiornò anche nella Diocesi di Volterra, nel Comune di Radicondoli, a Solaio e Cugnanello, terre degli avi.

            Nella stesura del capitolo del libro "Dare qualcosa in cambio di niente"(che grazie ad Andrea uscì emendato dai molti errori,) affrontai le vicende della Confraternita di Misericordia esistente nella chiesa, adesso sconsacrata,di San Lorenzo a Montalbano, sulla strada che da Castelnuovo porta a Montecastelli, accennando, evocandone il nome, ad una Beata le cui memorie erano legate, come quelle del giovane San Bernardino, al territorio a nord-est di Castelnuovo, insinuando che me ne sarei occupato in un secondo tempo. Ho mantenuto la promessa dando vita ad una ricerca vasta e interessante che rivelò di trattarsi non di una Beata ma di una Santa, Santa Giacinta Marescotti.

Le mie ricerche approdarono alla pubblicazione di un breve saggio sulla bella rivista trimestrale “La Comunità di Pomarance” nei numeri 1 e 2 del 1999 e nell’estate di quell’anno, 1999, nell’ambito del programma regionale “I luoghi della Fede in Toscana”, tenni una commemorazione di Santa Giacinta nella sua Cappella presso la Villa di Solaio, con una grande partecipazione di persone ed un concerto di musica. Successivamente ne ho parlato in una Conferenza a Volterra (2002) ed a Belforte (2006). Personalmente sono molto attratto  dagli studi di biografie femminili: come, ad esempio, quelle su Marie Durand e la persecuzione della setta dei Valdesi; Mathilde Wesendonk e il suo amore con Richard Wagner; Teresa di Lisieux e la sua sconvolgente santità, Da oltre 50 anni mi sto’ occupando di Norma Parenti, medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, nata a Monterotondo Marittimo nel 1921 (l’anno di nascita della mia mamma) e uccisa a Massa Marittima dai nazisti il 24 giugno 1944.

            I Santi dell'attuale Diocesi di Volterra sono otto e tre sono i Beati. Di questi illustri  personaggi soltanto Leone I è entrato a far parte del nuovo calendario romano, ma a "memoria", cioè come un santo di rango inferiore, mentre gli altri sono venerati solo localmente. Tale sembra anche la sorte di Clarice Marescotti, o Marescotti, al suo secolo suor Giacinta, la santa di cui narreremo la storia. Di questi illustri personaggi soltanto Leone I è entrato a far parte del nuovo calendario romano, ma solo a “memoria”, cioè in serie C, mentre gli altri sono venerati localmente. Di tutti esistono però biografie, schede, santini, quadri, altari e preghiere. Molto meno sappiamo di altri santi e beati che sul nostro territorio hanno soggiornato o predicato o vi sono stati “romiti”  dei quali ne cito alcuni: San Bernardino da Siena, San Walfredo di Monteverdi, San Guglielmo da Malavalle; San Galgano di Chiusdino; San Rocco da Montpellier; il betao Antonio Papocchi di Monticiano; Niccolò Marescotti eremita a Lecceto; il beato Ranieri di Belforte, il beato Giacomo, il murato, di Montieri o dei santi antichi o fantasiosi, come san Regolo del Frassine e San Potente di Lustignano.

E ancora troppo poco sappiamo sulla plausbile e suggestiva presenza nella contrada che da Bibbona e Montalpruno, toccando Monteverdi e Sasso Pisano, entra nella comunità montierina per finire a Monticiano e quindi ricongiungersi alla via Cassia nei pressi di San Quirico d’Orcia, dell’apostolo Pietro. Per molto tempo se ne è occupato don Mario Bocci lasciando intravedere, qua e là, nei suoi brillanti scritti e prolusioni, tale ipotesi, ma nessun serio approfondimento mi risulta che sia stato fatto.

Certo, il mondo dei martiri, dei santi e dei beati è sconfinato! Il “catalogo” ne comprende circa 40.000 e la sua revisione critica, specialmente dopo il Concilio Vaticano II,  è perennemente in corso e la Chiesa Universale riconosce soltanto le feste  che commemorano quei santi la cui importanza è riconosciuta come universale.

La festa di ogni santo è fissata nel giorno della sua morte, cioè nel momento iniziale della vita eterna.  Comunque dello sterminato numero di santi, martiri e beati la maggior parte sono oggi dimenticati e lasciati alle chiese locali, anche se molte chiese rurali, sono oggi abbandonate o sconsacrate.

Ma veniamo a Santa Giacinta Marescotti, la quale gode ancora di fama e di venerazione.

                        Il ramo dei Marescotti discende direttamente da famiglia nobile scozzese, se non addirittura da quel "Mario Scoto" che nell'VIII secolo fu mandato dal re di Scozia in aiuto di Carlo Magno nella guerra contro i saraceni. I Marescotti si diffusero in Francia e in Italia imparentandosi con le più illustri e facoltose famiglie e dando origine a valorosi soldati, cardinali, beati e santi, conti, imprenditori minerari e grandi possidenti terrieri. Nel 1731, alle navi spagnole dell'Infante Don Carlos si unirono tre navi del granduca di Toscana, comandate dal cavaliere Marescotti, assurto al rango di ammiraglio della flotta di stazza a Livorno.

            Un ramo della famiglia lo troviamo a Siena nel XIV secolo (1316) e proprio in virtù dei servigi resi alla repubblica (arruolamento di soldati? prestito di denaro?) ai Marescotti fu assegnato in propriet… il vasto territorio dell'antico castello di Montalbano, nella contea d'Elci, proprio sul confine del territorio senese verso l'ovest e Volterra. Nulla sappiamo dei rapporti tra il padre di S. Giacinta, Marc'Antonio, con i Marescotti che all'epoca (XVI secolo), possedevano Montalbano, Anqua, Solaio, Cugnanello e Tegoni, ma per fugare ogni dubbio sulla parentela resta la lapide murata nel podere Cugnanello che recita:

"IN QUESTO CHE FU UNO DEI CASTELLI DEI MARESCOTTI LA BEATA GIACINTA FIORE DELL'ANTICHISSIMA SCHIATTA VISSE PARTE DELLA SUA PUERIZIA E DELL'ADOLESCENZA IRREQUIETA. QUETATASI POSCIA E SUBLIMATASI IN DIO PER EROISMO DI VIRTU' CRISTIANE QUI EBBE CULTO DI MEMORIE E DI ALTARE IN UN SUO DEVOTO ORATORIO DURATO FINO AL MDCCCCXXV (1925). QUI SI RICORDA E SI INVOCA AUSPICE PROPIZIATRICE PATRONA AGLI UOMINI E ALLE TERRE CHE UN GIORNO FURON DEI SUOI".

            E dei Marescotti senesi, il cui albero genealogico abbiano rinvenuto all'archivio storico del comune di Castelnuovo per il periodo 1565-1803, ramo estintosi per mancanza di discendenza maschile, oggi non restano sul territorio che le testimonianze epigrafiche e tombali a Solaio, Tegoni e San Lorenzo a Montalbano e scartoffie polverose negli archivi storici comunali o notarili.

            Anche la statua del "santo guerriero", ricoperta da armatura metallica, donata dai Marescotti di Tegoni alla chiesa di San Lorenzo,  a Montalbano, forse il simulacro di un antenato che aveva partecipato alle crociate, Š da tempo scomparsa e ne ignoriamo la sorte. Nel tempio in rovina, poi sconsacrato e restaurato come residenza privata, ma di nuovo abbandonato, rimane la lapide che ne attesta la ricostruzione: "Questa chiesa dedicata a San Lorenzo Martire e che prende il nome da Montalbano antica signoria de' Marescotti, primi fondatori e dotanti, rovinata nel 1864, fu in più ampia e miglior forma ricostruita per le sovvenzioni regie e popolari coi disegni di Giovanni Giusti da Siena, assistendo alla nuova opera il conte Niccolò Carlo Marescotti, 1870". Si tratta probabilmente di uno degli ultimi discendenti della famiglia Marescotti, Carlo, conte di Montalbano, morto a Volterra il 9 gennaio 1910, città nella quale aveva esercitato per trenta anni la professione forense. E' il canonico monsignor Cavallini che ne tesse l'elogio funebre sul giornale locale "La Scintilla" il 15 gennaio 1910. Carlo Marescotti è descritto come "collaboratore del colonnello Gialdini nell'amministrazione del Ministero della Guerra e partecipe del risorgimento d'Italia, accademico dei Sepolti e consigliere comunale, munifico benefattore degli Asili Infantili Riuniti, patrizio senese e valente studioso che aveva dedicato la sua esistenza ad illustrare la benefica influenza sociale della Chiesa in tre volumi "Il Clero e la Civiltà". Intorno al primo decennio del '900 troviamo tre donne, la contessa Giulia Marescotti, collaboratrice del periodico volterrano "La Scintilla", Clara Landucci e Giacinta, sposata con Giovanni Martini, medico provinciale. Non è di poca rilevanza registrare il nome della Santa di famiglia, Giacinta, ad una delle ultime discendenti della casata dei Marescotti a testimonianza di una consuetudine di devozione mai sopita.
           
            Insediatisi stabilmente nell'area tra Elci e Montalbano, i Marescotti li troviamo padroni (dal secolo XIV al XIX), o con lo juspatronato, delle chiese di Tegoni, Montalbano, Vinazzano, Solaio e Sesta. La visita pastorale del 18 marzo 1424 attesta che la chiesa di S. Lorenzo a Montalbano è occupata da Lodovico Marescotti. Il toponimo primitivo non  è più rintracciabile, ma l'antico culto per S. Lorenzo, insieme alla memoria del perduto castello di Montalbano, signoria dei Marescotti, furono nel secolo XIX trasferiti nella nuova chiesa posta sulla strada rotabile di Montecastelli.

            A Solaio, nell'oratorio di famiglia, è appeso il drappo ricamato in oro con l'immagine di S. Giacinta circondata da un serto di rose selvatiche, con la data 1940, probabilmente postovi in occasione del trecentesimo anniversario della morte, mentre due importanti lapidi marmoree attestano la presenza dei Marescotti:“Sia perenne memoria in questo sacro luogo del conte Fausto Marescotti Landucci che la tenuta e Villa di Solaio a lui pervenuta nell’anno 1865 molto predilesse e siano ricordate in benedizione le sorelle di lui, contesse Giulia e Chiara Landucci anime elettissime che nei possessi del fratello succedettero l’una fino al luglio del 1914 l’altra fino all’aprile del 1924 lasciando in tutti che le conobbero e specialmente nella nipote diletta contessa Ida Testa Serafini erede per testamento ricordi incancellabili di bontà e di fede degne degli antichi tempi”. E l’altra recita: “Qui riposa la spoglia esanime di Fabio de’ Conti Marescotti patrizio senese uomo d’antica probità e di gentili costumi ricco di civile sapienza e d’amore del bene di marito e cittadino. Adempiì fedelmente gli uffici più che al miglioramento dell’avito censo all’utile del suo municioiom senza mercede soccorse coll’opera e col consiglio. Colpito da apoplessia nel 16 novembre dell’anno 1843 dopo 70 anni di mortal pellegrinaggio  volò a felicitarsi nell’amplesso del suo Dio da tutti rimpianto e desiderato. La vedova Girolama Ricciarelli di tanta perdita inconsolabile in questa cappella dalla pietà dell’estinto eretta a perpetua ricordanza q.l.p.”

            Infine, nella chiesetta sconsacrata di S. Lucia di Tegoni, di fronte all'altar maggiore c'è una botola di marmo che conduce nella cripta sepolcrale dei Marescotti, da tempo profanata. All'interno vi sono due lastre tombali di Giuseppe Marescotti e di Maria Marescotti, morti infanti alla metà del secolo XIX.

            Clarice Marescotti nasce a Vignanello in provincia di Viterbo, nei Monti Cimini,  nel marzo dell’anno 1585, al tempo del papa Sisto V e dell'imperatore Rodolfo II, da Marc'Antonio e dalla principessa Ottavia Orsini, romana, in quello che è oggi il castello dei principi Ruspoli. Ebbe due sorelle (Ginevra, che fu monaca francescana in San Bernardino a Viterbo; e Ortensia) e due fratelli (Sforza Vicino e Galeazzo). Tutti ricevettero, secondo l'uso del tempo, una profonda educazione cristiana alla cui osservanza si dedicarono con zelo. Soltanto Clarice si dimostrò ribelle agli insegnamenti di modestia, riservatezza e carità, ostentando un carattere libero e altero, inclinato al godimento delle gioie della vita fastosa del suo ceto sociale e del lusso che la circondava, nel quale la sua bellezza risplendeva come una gemma. All'età di nove anni Ginevra fu portata nel monastero delle francescane di San Bernardino a Viterbo e indirizzata, non sappiamo quanto consapevolmente, alla vita monastica. Col nome di suor "Innocenza" visse esemplarmente la sua rinuncia al mondo dimostrando negli anni una fede forte e matura. Sbarazzatisi della figlia primogenita Ginevra, e con un occhio vigile alle doti che avrebbero dovuto accompagnare l'eventuale matrimonio delle altre due sorelle, assottigliando il patrimonio della casata, i Marescotti avviano al monastero anche la "ribelle" Clarice ponendola sotto la guida della sorella. Ma la durezza della regola, le ossessionanti orazioni, il buio e il freddo che regnavano nell'ambiente claustrale, finirono per rendere insopportabile la sua vita nel convento e Clarice ritornò in famiglia. Era una fanciulla bella, alta, elegante e aveva molti corteggiatori tra i quali un marchese di cui si innamorò. Probabilmente questa unione non piaceva ai Marescotti (certamente per ragioni economiche), cosicché i genitori decisero di anteporle nel matrimonio la sorella minore, Ortensia, dandola in sposa al marchese Paolo Capizucchi dei signori di Poggio Catino, con una cerimonia incredibilmente sfarzosa per doni e festeggiamenti. Clarice ne fu colpita violentemente entrando in una crisi depressiva profonda. E' probabilmente in questo tempo, nei primi anni del '600, che Clarice viene "confinata" nei possedimenti terrieri di Solaio, di Lodovico Carlo Marescotti, per farle ritrovare serenità d'animo e superare la grave crisi di nervi che per poco non l'aveva condotta precocemente alla morte, e per evitare o attenuare le chiacchiere per la vita liberale che menava a Vignanello.

            Ma per Clarice, figlia ribelle e scomoda, non ci furono alternative al velo di monaca. E pur contro la sua volontà, appena ventenne, varca il portone della clausura del monastero viterbese di San Bernardino per non uscirne mai più. Vi entrò portando nell'animo, come scrive un biografo (Flaminio Annibali da Latera), "dispetto, sdegno e spirito secolaresco". Fredda e insensibile alla vita monastica, Clarice, adesso suor Giacinta, in virtù dei privilegi che l'alto lignaggio le assicurava, si costruì nel convento un appartamento signorile di più camere e si circondò di tutti i piaceri e di tutte le vanità.

            La scelta medesima del nome rivela l'amarezza del suo cuore innamorato, perché‚ nel suo inconscio. ella si identifica con Giacinto, l'efebo bellissimo amato da Apollo e ucciso per la gelosia di Zefiro e dal cui sangue sboccerà il fiore odoroso.

            Suor Giacinta visse per circa dieci anni in questa condizione "di secolare in convento", ostinandosi nella sua sconveniente condotta e recando scandalo alle altre suore. I biografi hanno steso un velo di pudico silenzio su questi anni, e pertanto ci possiamo soltanto immaginare la sua vita di peccatrice dai molti racconti e testimonianze sulle donne nella clausura, di cui i più celebri restano Boccaccio, Diderot e Manzoni. Di se stessa Giacinta ebbe a scrivere che tale periodo era stato contrassegnato  "di molte vanità et sciocchezze nelle quali hero vissuta nella sacra religione".

            All'età di trent'anni, Giacinta, gravemente ammalata, vistasi negare l'assoluzione dal confessore, scandalizzato dalla sua condotta,  fu colpita  dall'atroce pensiero di essere condannata alle pene eterne dell'Inferno se non avesse mutato radicalmente la propria condotta espiando i peccati commessi. E' l'anno 1615. Giacinta, vestita una rozza tunica, si frusta a sangue di fronte alle consorelle allibite, dichiarando tra i singhiozzi che avrebbe d'innanzi vissuto nella povertà e nella penitenza.

            E cosìfece. I ventiquattro anni che le resteranno da vivere altro non saranno che una interminabile  lista di sofferenze spirituali e corporali (nell'arduo impegno di ripetere la Passione di Cristo), quest'ultime inferte al suo corpo con micidiale determinazione e accanimento, si da ingenerare il dubbio che qualcosa di grave sia avvenuto nella sua mente per condurla al masochismo. Come altrimenti potremmo interpretare  il legarsi con una catena di ferro, anche durante il sonno, ad una immensa croce di legno collocata nella sua cella? o il dormire su un materasso fatto di sarmenti che poggiava sopra tre dure assi di legno? o poggiare la testa, anziché sul guanciale, su un ruvido sasso? oppure aver ridotto il cibo quotidiano ad un solo pasto costituito da tozzi di pan secco avanzati dalla refezione delle consorelle? E non parliamo dell'abito suo, ricavato nel saio consunto di un frate morto o dell'uso di camminare scalza anche nel rigido inverno? e del denaro, che una volta tanto bramato, era trattato come immondizia e gettato, quando ne veniva in contatto, negli angoli della cella? Anche il nome aveva dimenticato, delle monete. Ma il culmine delle efferatezze contro il suo fragile, ma ancora bellissimo corpo, lo raggiungeva flagellandosi ogni venerdìcon un mazzo di pungitopo fino a veder sgorgare il sangue. Spezzava il ghiaccio coi piedi nudi immergendosi nell'acqua gelata dell'orto; masticava assenzio amarissimo; di notte saliva una ripida scala con la pesante croce sulle spalle, cadendo e rialzandosi per flagellarsi con accanimento. A questo artificioso e inumano regime di privazioni ben presto si aggiunse la sofferenza delle malattie, che con tale regime di vita, non potevano mancare.

                        Giacinta amava non solo la povertà, ma anche i poveri e nelle sue preghiere chiedeva di potersi trasformare in "pane" per saziare tutti i derelitti e affamati del mondo! Dalla clausura escogitò ogni stratagemma per dare aiuto ai poveri viterbesi. La sua attenzione era inoltre rivolta ai carcerati e agli esecutori di delitti, insomma a chi si trovava in peccato mortale. Fra le conversioni ottenute da Giacinta si ricorda, in particolare, quella di un soldataccio di ventura, un certo Francesco Pacini di Pistoia, perverso e crudele, attraverso il quale si esplicò l'azione della Santa che a lui fu legata da un complesso rapporto affettivo, anche se mascherato e mediato dall'esaltazione mistica. Per dar seguito stabile alla sua azione, Giacinta fondò due confraternite, che curavano i malati, i poveri e gli anziani, una delle quali, chiamata "dei Sacconi" esiste tutt'ora. L'altra confraternita era detta degli "Oblati di Maria" e si dedicava all'assistenza agli anziani dell'ospizio di S. Carlo.

            Giacinta conobbe l'estasi dell'amor divino e visse momenti in cui parve fuori dalla dimensione umana: gridava nella notte, affacciata alla finestra, "Amore, Amore, Amore dolcissimo vieni a me!" Altre volte a mezzanotte si stendeva davanti all'altare gridando: "Amore, Amore, vieni nel mio cuore!" e ritirandosi nella sua cella cominciava a flagellarsi gridando: "O mio dolce e caro Amore, come potrò vivere se non mi sazio appieno di amarti?" In una lettera scrisse queste parole: "...peno di non trovare ancora modo di amare Dio, tanto che pare alle volte che il cuore mi si schianti, non trovando strada per progredire nell'amore; e pur sento voci interne, che mi richiamano a mutar vita, e passo le notti in pianti e gemiti inconsolabili...". Spesso versando lacrime di dolore esclamava: "Amor meus crucifixus est!". Parimenti all'amore per il SS. Sacramento, verso il quale ravvivò le pratiche di pia devozione, Giacinta ebbe anche amore ardentissimo per la Madonna e dal momento della sua consacrazione si firmò sempre come Giacinta di Maria Vergine apponendo su tutti gli oggetti usati l'immagine della madre di Cristo. Sentiva Dio presente e quasi lo vedeva e quando si metteva in preghiera la sua unione con Lui si faceva così profonda che pareva uscire dalla dimensione terrena. Una volta fu vista levitare nell'aria, verso il crocefisso, e rimanervi per oltre un'ora. Ebbe visioni profetiche ripetute e provate dai fatti e nell'estasi il dono della profezia e della scrutazione dei cuori.

            Finalmente giunse, liberatore, il giorno della sua preziosa morte, alla quale Giacinta si accostava da tempo per piccoli insignificanti eventi. Pur nella sofferenza di una micidiale peritonite ebbe parole dolcissime per le consorelle che le stavano intorno nell'ora estrema e mentre mormorava: "Aiutatemi, Gesù mio, mio sposo" e "Nelle tue mani Signore raccomando l'anima mia...", dolcemente spirò. Erano le ore 18,30 di lunedì 30 gennaio 1640, giorno di Santa Martina.

            Come scrive un suo biografo: "...la santa lasciò un piccolo diario autografo conservato nell'archivio del convento dei SS. Apostoli a Roma e intitolato Liber scriptus a B. Virgine Hyacintha de Marescottis. E' contenuto nei primi undici fogli di un quaderno di centoquarantacine pagine. Ella vi appose questo titolo: "Diversi detti spirituali per accendere le anime devote al puro amore di Jesù et Maria". L'opera è in due parti: nella prima sono riportate sentenze spirituali o norme di vita; nella seconda si ha il diario di meditazioni e risoluzioni pratiche. Lo scrisse al trentatreesimo anno di età". Nonostante l'avallo tardivo di un vescovo a testimoniarne la veridicità (anno 1735), molti dubbi sussistono sull'originalità dello scritto e il testo appare come totalmente o in parte opera posteriore.

            La fama che si era diffusa in Viterbo e nelle zone vicine fece affluire intorno alla salma esposta in S. Maria delle Rose, sede dei Sacconi, una moltitudine di persone eccitate che nessuno riuscì a tenere a bada: per ben tre volte, nonostante l'intervento di soldati armati, si riuscìad impedire che gli abiti di Giacinta fossero strappati e tagliuzzati per ricavarne reliquie, fino a spogliare completamente il corpo senza vita; anche le unghie e i capelli furono tagliati e cosìfu minutamente spezzettata la corona di rose che le era stata posta intorno alla testa...ma l'entusiasmo della folla giunse al parossismo quando uno storpio, che lentamente era riuscito ad arrivare a toccare la morta, alzando al cielo le stampelle, dimostrò di essere stato miracolosamente sanato. Finalmente, due giorni dopo il decesso furono celebrati i funerali e il corpo mortale di Giacinta, avvolto in un semplice lenzuolo, fu tumulato nella sepoltura davanti all'altar maggiore della chiesa di San Bernardino, in piazza della Morte, a Viterbo, ove si trova ancor oggi, in un sacello più volte rimaneggiato e abbellito e definitivamente rifatto dopo le distruzioni provocate all'edificio dalla seconda guerra mondiale, edificio  che porta il nome di S. Giacinta. Una reliquia della santa si conserva nella chiesa di Vignanello e cimeli sono tutt'ora nel palazzo Marescotti-Ruspoli della medesima località dell'alto Lazio e nell’archivio della basilica dell’Osservanza di Siena, nella quale ebbi la fortuna di incontrare il vecchio fratello di mio amico storico della Resistenza Italiana,  frate Remigio, che mi mostrò le preziose reliquie.

            Dopo la morte la fama di "santità" di Giacinta si propagò non solo nelle terre vicine a Viterbo ma anche in regioni lontanissime. I miracoli a lei attribuiti iniziarono prestissimo a compiersi e sono mirabili in quantità ed effetti. Storpi che riacquistano l'uso delle gambe; ciechi che recuperano la vista; salvataggi da annegamenti e da cadute mortali; guarigioni da malattie contagiose e altri ancora. Per questi moltissimi miracoli, rigorosamente esaminati dalla Sacra Congregazione dei Riti, il pontefice Benedetto XIII, con decreto del 14 luglio 1726, promulgò la beatificazione.

            La cerimonia solenne fu celebrata nella basilica di San Pietro il 1 settembre dello stesso anno. Il culto per la Beata Giacinta si fece ancora più intenso e i miracoli seguirono meravigliosi. Tre furono rigorosamente esaminati dalla Congregazione dei Riti e posero il suggello alla causa di canonizzazione. Il 15 agosto 1790 il papa Pio VI promulgò il decreto che sanciva in eterno la santità di suor Giacinta Marescotti o della Vergine Maria.Per l'esilio e la morte in prigionia del pontefice la solenne cerimonia di canonizzazione fu rinviata e toccò al suo successore, Pio VII, il 24 maggio 1807, festa della SS. Trinità, a proclamarla Santa con una solenne cerimonia in San Pietro a Roma.




Episodio di Cugnanello.
Contatti coi Ruspoli e lettera.
P.Flamino Annibali, da Latera – Vita della vergine S. Giacinta Merescotti, Roma, A.Fulgoni, 1805.
Anonimo frate e suora di Montieri, primo Novecento.
Piccola Biblioteca Francescana, S. Giacinta Marescotti, anni 20-30 del Novecento.
Testimonianza di padre Remigio, Basilica dell’Osservanza di Siena.

Calendario Annuale, gennaio, 30.

mercoledì 15 febbraio 2017



Piazza del Plebiscito, nella porta che si intravede a dx. abitano Genny, Aida e Nuredin. La persiana che si trova sopra la panchina adesso non c'è: da circa due anni è "riparazione"?  La privacy è limitata. Si potrebbe  ricollocare?

Profughi, accoglienza, sostenibilità, e un  gesto di umana solidarietà.


Dal novembre 2016 si è costituito a Castelnuovo di Val di Cecina un “COMITATO DI ACCOGLIENZA SOLIDALE. Il Comitato è sorto per una reazione umanitaria alla posizione del Sindaco del Comune, contraria all’accoglienza di “profughi”  nel nostro Comune, definito “ad accoglienza zero”. Questa posizione intransigente si  è determinata all’arrivo di tre giovani ragazze africane, destinate a Castelnuovo dalle Autorità di Governo (Prefetto), con una procedura d’urgenza e, all’inizio, con carenza d’informazione. D’altra parte sappiamo che il nostro Comune non è l’unico in Italia a manifestare tali posizioni, ma, anzi, soltanto il 25% di tutti i comuni italiani sono quelli disposti all’accoglienza. Quindi il problema è nazionale, più che locale. Naturalmente il Sindaco ha messo a disposizione delle tre “profughe” un appartamento  provvedendo, col personale del Comune,  a tutte le altre incombenze di accoglienza. Tra l’altro, dopo poche settimane dall’arrivo, due di queste ragazze sono scomparse “nel nulla” ed a oggi risultano”clandestine”. Al loro posto è arrivata una “profuga” con il figlioletto di circa due anni di età, di nazionalità diversa da quella della ragazza rimasta. Difficile farsi capire e capire le loro esigenze. Molti cittadini hanno dato sorrisi, calore umano, e provveduto alle prime necessità. Su questa spinta volontaristica è poi sorto il COMITATO DI ACCOGLIENZA SOLIDALE”, regolarmente registrato che ha provveduto  ai contatti con le profughe e con le altre Istituzioni del Comune. Il Comitato è costituito da 7 persone e conta oltre 50 cittadini iscritti appartenenti a 9 Associazioni. E’ stato approvato uno Statuto  con la definizione degli obiettivi primari: dialogo, disponibilità all’accoglienza, reciproco arricchimento, superando in tal modo l’atteggiamento iniziale di ostilità del Sindaco. Il Comitato si prefigge inoltre lo scopo di sviluppare forme di prevenzione e di lotta all’esclusione, alla xenofobia, all’intolleranza, al disagio, all’emarginazione ed alla solitudine. Il Comitato sta adesso raccogliendo le firme per sostenere la richiesta all’Amm.ne Comunale dell’apertura di uno “Sportello Immigrati”, senza dover ricorrere a quelli di Pomarance (aperto per 6 ore settimanali) e Ponteginori (aperto per 3 ore settimanali), oberati di lavoro e pertanto al limite del collasso. La presenza di extracomunitari a Castelnuovo è elevata, al 1° gennaio del 2016 ammontava al 19,2% dei residenti (circa 420), il numero di bambini  figli di extracomunitari nelle scuole materna, elementare e media ha superato il 50%; su 180 studenti, 91 sono extracomunitari. L'apertura di un apposito sportello immigrati nel Comune rappresenta quindi un'esigenza sempre più evidente e imprescindibile. Sono convinto che presto questo”Sportello Immigrati” potrà funzionare a Castelnuovo e che  il Sindaco e la Giunta non saranno sordi alla richiesta. Vorrei anche invitare il Sindaco Alberto Ferrini, a fare un gesto “umanitario”, al di là della visione “politica” che  ha ispirato la sua posizione contraria all’accoglienza dei profughi, andando a trovare e salutare le due profughe Anita e Genny ed il piccolo Nuredin. Mi ricordo che tra il 1987 ed il 1988, quand’ero sindaco, arrivarono a Castelnuovo, da Brindisi, i primi profughi dall’Albania. Non solo maggioranza e minoranza si impegnarono ad accoglierli, trovargli casa, e poi lavoro, facilitando il loro inserimento, ma, poco dopo, dettero “accoglienza solidale” ad un cittadino marocchino, il primo che  arrivò da noi, poverissimo, al quale fu trovato l’alloggio nella ex scuola di Montecastelli ed un lavoro presso una Ditta della zona. I suoi figli sono oggi cittadini italiani, abitano ancora tra noi e le loro famiglie sono oneste e laboriose. Certo, da allora, la questione è notevolmente cambiata, ed anche il nostro Comune si deve misurare con “la sostenibilità” del territorio all’accoglienza, la quale ha raggiunto un livello molto elevato. Problemi non indifferenti che tutti dovremmo affrontare senza alcun pregiudizio. 

martedì 14 febbraio 2017




GOETHE WOLFGANG (II).

Ecco un’altra opera che amo particolarmente: la pubblicazione di tutte le lettere scritte da Goethe alla signora Charlotte von Stein, a cura di Roberto Spaini, tradotte da Renata  Pisaneschi Spaini sulla edizione curata da A.Scholl, 2 volumi, Frankfurt a M., 1883. Le lettere si snodano dal 1776 al 1826.  L’editore Parenti  effettuò la stampa in due volumi riccamente illustrati, rilegati in tela in cofanetto,  curati da Amerigo Terenzi,  nel 1959, all’allora prezzo  14.000 £. (che equivalevano ad un terzo del mio stipendio mensile!).  Si tratta della versione integrale di tutte le lettere di Goethe, la prima italiana. Come sappiamo le lettere di Goethe alla sua amica Charlotte sono in Germania uno dei libri più amati. Le cinquanta incisioni fuori testo che  illustrano  i due volumi italiani sono tratte dalle “antichità”  di Ercolano  edite nel 1780 dal David a Parigi. Le lettere alla signora von Stein trovano così un contrappunto grafico che non sarebbe certo dispiaciuto  al loro Autore, che conobbe le “antichità” di Pompei ed Ercolano e ne fece ampia materia poetica negli Epigrammi veneziani e nella descrizione del suo Viaggio in Italia. Le lettere sono un grande e perfetto specchio dal quale balza vivo e attuale Goethe, con le sue doti universali e le sue umane debolezze.

Oggigiorno il modo di comunicare tra le persone, vicine e lontane, è del tutto mutato. La frenesia del movimento incessante delle vite umane e della quasi istantanea comunione del pensiero e conoscenza dei fatti del mondo,  non ha limiti. Carta, penna e inchiostro, carta assorbente, busta fogli, francobolli, attese, brevi e lunghe, emozioni visive, cartoline, piccoli fiori secchi, ritagli e intagli, disegni e cifrati ammiccamenti, son materiale per i “luoghi della memoria” dove gli studiosi e gli inguaribili “romantici” del tempo perduto trovano conforto. Io appartengo a quel mondo nell’anima, anche se  negli ultimi anni della mia vita mi sono avvalso della scrittura elettronica , post, sms e rare lettere scritte a macchina.  Per fortuna ho conservato alcune importanti “corrispondenze” bilaterali, unendo alle mie lettere anche quelle dell’interlocutore, amico od amica. La più importante tra loro è quella con “la signora di Zurigo”, che si è protratta  regolarmente tra il 1962 e il 2014, quasi il tempo di quelle di Goethe alla von Stein. Ed è per questo che un po’ mi ritrovo in queste lettere del Poeta alla signora Charlotte.

lunedì 13 febbraio 2017







Wolfgang Goethe.

Nonostante non avessi sentito pronunciare il suo nome, durante i cinque anni delle scuole elementari (1944-1949), anzi, dei sei anni dato che avevo ripetuto la prima classe, e nemmeno nei quattro anni delle famose Scuole Aziendali della Larderello SpA (1951-1955), mi avvicinai precocemente agli scritti di Wolfgang Goethe, attraverso un volume della Utet, anni ’30, Urfaust, al quale  feci seguire, sempre nella stessa collana dei Classici Stranieri della Utet, il Faust, successivamente riletto in una traduzione più moderna di Barbara Allason. E per questa opera titanica mi sono impegnato nella lettura e rilettura fino ad oggi che sono vecchio, sfruttando di tanto in tanto le mie modeste conoscenze della lingua tedesca. E così, vennero il Werther, il Guglielmo Meister, le 50 Poesie, tradotte da Diego Valeri, nella bellissima edizione della Sansoni, fino ai recenti quattro volumi dei Meridiani  e “Vita poetica, opere scelte” nell’edizione de Il Sole 24 Ore dedicata ai grandi poeti. Come sappiamo Goethe ci ha lasciato circa 2000 poesie! Un numero impressionante di testi che vanno dal sublime al mediocre e occasionale. Ci ha lasciato anche molti Epigrammi, e, Motti e proverbi. Mi ripropongo di esaminarli tutti per arricchire, ed alzare di tono, il mio Dizionario dei proverbi, soprattutto cercando quelli a più spiccato carattere passionale e licenzioso. Sono contento di conoscere Carlsbad e Marienbad, luoghi amati da Goethe, anzi quelli dove l’inesausto amante, s’innamorò  all’età di 72 anni della graziosa Ulrike, figlia diciassettenne di una amica di Goethe,  che sembrò ricambiarlo, ma di fronte alla proposta di formale di matrimonio (dato che Goethe era vedovo) e al vasto mormorio di disapprovazione dell’ambiente frequentato dal poeta, la proposta non ebbe risposta e cadde nel vuoto. Dopo l’ultimo incontro con Ulrike a Carlsbad, durante il tragitto di ritorno in carrozza, Goethe compose una delle più belle liriche del suo immenso canzoniere: la Elegia di Marienbad nella quale si leggono questi versi nei quali il “superuomo” si fa più umano:

Per me tutto è perduto e anch’io per me stesso,
io che finora per gli Dèi ero il beniamino…

Cinque Epigrammi Veneziani di W. Goethe.

72) Fossi una donna di casa, provvista del necessario,
sarei fedele, e contenta d’abbracciare e baciare il mio uomo.
Così mi cantava a Venezia, tra altri stornelli triviali, una sgualdrinella,
e non avevo mai udito una preghiera più pia.

84) Divino Morfeo, invano agiti i dolci papaveri;
gli occhi miei restano aperti se non è Amore a chiuderli.

85) Tu ispiri amore e desiderio; lo sento e ardo.
Adesso, adorata, ispirami fiducia!

92) Dimmi, come vivi? Vivo! Fossero cento e cento
gli anni concessi all’uomo, vorrei il domani come oggi.

98) Povera e spoglia era la giovane quando la conquistai;
allora mi piacque nuda, come anche adesso mi piace.

domenica 12 febbraio 2017



EMIGRAZIONE.

Quando anche noi eravamo migranti e attraversavamo l’Oceano in 30 e più giorni ed ad accoglierci, il più delle volte, dopo la “quarantena” di disinfezione ad Ellis Eiland, erano trafficanti di uomini e sfruttatori!

La comunità di Castelnuovo di Val di Cecina è stata in passato una “terra di emigranti”. Nella seconda metà dell’800, a partire dal 1888, la Comunità è testimone di una grande emigrazione verso l’Europa e le due Americhe, emigrazione che si intensificherà fino allo scoppio della Prima Guerra Mondiale con effetti sociali di grande rilevanza. La crisi che colpisce l’Italia da questo anno fino al 1896 costringe  un gran numero di italiani ad emigrare, Dal 1896 al 1900 si calcolano dalle 300.000 alle 350.000 partenze ogni anno, con un forte numero di emigranti permanenti. E’ stato calcolato che nell’ultimo ventennio dell’800 gli emigranti italiani supereranno i 2.000.000 di unità. I dati precisi sull’emigrazione iniziano ad essere raccolti in base alla legge Crispi n. 5887, dal 1888, anno nel quale non si registra alcuna partenza da Castelnuovo  se non quella di numerosi operai stagionali per la Corsica, dato che la Francia non richiedeva documenti di espatrio. Si tratta, in prevalenza, di operai carbonai, segantini e cavatori del ciocco di scopa. Arrivano inoltre notizie pessimistiche su operai manovali impiegati in opere pubbliche, emigrati in Grecia che fanno rallentare le partenze. In sostanza i flussi di espatrio dall’Italia sono notevoli:
dall’anno 1876 al 1885: 850.000 emigranti verso i paesi europei; 465.000 verso i paesi extraeuropei, dei quali: 88.000 verso gli USA; 174.000 verso l’Argentina; 61.000 verso il Brasile.  
dall’anno 1886 al 1895: 960.000 emigranti verso i paesi europei; 1.421.000 emigranti verso i paesi extraeuropei, dei quali: 377.000 verso gli USA; 414.000 verso l’Argentina; 504.000 verso il Brasile.
Dalla Comunità di Castelnuovo, per il periodo 1881-1900, emigrano circa 40 persone ogni anno. Tuttavia la massiccia emigrazione avverrà più tardi, tra il 1901 ed il 1914 (oltre 400 giovani, al seguito dei quali si aggiungeranno le mogli, sposate per “procura” ed anche altre “giovani donne a scopo corruzione”), e sarà prevalentemente diretta verso gli Stati Uniti d’America, stato della Pennsylvania, bacino carbonifero di Pittsburgh e verso la Francia, Dipartimento del Delfinato, area della città di Vienne. Tuttavia molti castelnuovini si stabiliranno anche a Paterson nel New Jersey. Verso la Francia (Corsica) si attiverà inoltre un costante flusso di stagionali. L’emigrazione verso territori italiani e confinanti si compensa con le relative immigrazioni, mentre quella stagionale è diretta soprattutto in Maremma.
Da una nota del 1891 si rileva che: nel Comune di Castelnuovo si registra la prima richiesta di un passaporto per gli Stati Uniti d’America, segno dell’inizio dell’emigrazione verso quel paese. L’Italia ha sottoscritto col Brasile un accordo per l’immigrazione di 5000 operai nello Stato di Pernambuco, nel nord. Il clima vi è malsano, e la temperatura elevata. Positiva è invece l’emigrazione per gli Stati del Sud del Brasile, ai quali finora l’emigrazione italiana si è rivolta. Difficili le condizioni degli emigranti che espatriano verso il Venezuela dove è in corso la costruzione della ferrovia Caracas-Valenza (30 chilometri nello Stato di Miranda). Il vitto è caro e il salario appena di 9-10 lire al giorno.
Ho raccolto alcune storie di emigranti castelnuovini ed anche una più completa ricostruzione dell’emigrazione di una intera famiglia, i Bisogni. Quanto grande sia stato questo flusso migratorio lo deduco dal coinvolgimento della mia famiglia: la nonna emigrò per alcuni anni in Lombardia, come cameriera di una nobildonna; il nonno paterno emigrò negli USA e rientrò dopo alcuni anni più povero di quando era partito; mia suocera e sua sorella son nate negli USA dov’erano emigrati i loro genitori; tre zii di mia moglie emigrarono negli USA e di loro soltanto uno ritornò per una breve visita a Castelnuovo nel 1963; là cambiarono il cognome con una versione inglesizzata. Di un’altra famiglia appartenente al ramo dei Groppi, tengo ancora i contatti con i discendenti che vivono nel Colorado, in Florida e nel New Jersey…
 E’ anche su questa base “culturale” ed “umana” che sono entrato a far parte del “Comitato di Accoglienza Solidale” che si è recentemente costituito a Castelnuovo di Val di Cecina, una bellissima realtà,  alla quale invito ad aderire, e della quale riprodurrò i comunicati più significativi.

Ne parleremo in un post successivo.

giovedì 9 febbraio 2017




DIZIONARIO DI PROVERBI

Proverbi licenziosi ed altri motti spiritosi della cultura orale nelle Colline Metallifere, in Maremma e in Toscana, con l’aggiunta di aforismi ed espressioni proverbiali moraleggianti, latine, italiane e straniere raccolti da Carlo Groppi, ordinati per lettera di alfabeto.

TOTALE nel Dizionario dei Proverbi:  n°. 8951, alla data del  9 febbraio 2017; dei quali ben 532  sono stati tratti e trascritti dal  “Diccionario de Refranes” di Luis Junceda, BBV Banco Bilbao Vizcaya, Madrid 1995, un libro bellissimo, riccamente illustrato nel testo e fuori testo,  in bianco e nero ed a colori, rilegato, di pagine 606. Prezioso regalo di Susana e Manuel. Vorrei nel corso dell’anno consultare  qualche altro testo:

Bacci O., Ninne-nanne, cantilene, che si dicono in Valdelsa, Firenze, 1891.
Bastanzi G.B., Le superstizioni delle Alpi Venete, Treviso, 1888.
Ostermann V., Proverbi Friulani, Udine, 1876.
Ungarelli G., I proverbi bolognesi sulla donna, Bologna 1890.
Ungarelli G., Raccolta di proverbi in dialetto bolognese, Bologna, 1892.


E adesso  una sosta.

lunedì 6 febbraio 2017




Le immagini  furono scattate con una Nikkormat su pellicola  e sono raccolte in un album. La loro riproduzione casalinga è pessima, ma l'insieme dell'album bellissima. Partenza in tre con Ibiza nella notte tra l'8 ed il 9 luglio 1988, ritorno nella notte del 2 agosto. Km. percorsi  in auto 10.603. Il primo giorno da Castelnuovo a Lauf in una notte quieta e calda. Tappa alla locanda  "I tre orsi neri", km. percorsi 918. Il giorno seguente arrivammo a Lanshan, Km. 715, con cielo azzurro e temperatura fresca. Si pensa al Nord, ancora lontano...








A Capo Nord.
  

Nell’agosto 1988, a bordo della mia piccola auto, ho compiuto il terzo tour in Scandinavia, il più emozionante ed oggi ne do’ notizia perché a distanza di quasi trenta anni, due giovani italiani si aggregarono a noi nel tratto finale. Uno di loro si chiamava Mauro.  Oggi, siamo diventati amici su FB! Il mondo s’è fatto, per certi versi, più piccolo. Mauro ha sposato una bellissima donna di Praga, ha due figli splendidi, e non solo perché è aviatore, gira il mondo. Ma Praga e la Boemia sono nel suo cuore, ed anche nel mio. Sono felice di averlo ritrovato ed anche di vedere le sue splendide fotografie, come quella del Ponte Carlo innevato. A distanza di anni ripercorro con la memoria il lungo viaggio nel Nord, in quelle terre dalla strana forma d’orso che tanto mi avevano incuriosito guardandole sulla mappa appesa nell’aula delle scuole elementari. Un viaggio intenso, indimenticabile, che non potrò ripercorre se non nel ricordo e nella fantasia, anche sé non potrò mai cancellare  l’impressione più profonda e durevole che è rimasta in me, quella del predominio della natura, nei suoi multiformi aspetti di acque, nevi, ghiacci, selve, rocce, cascate e cieli aperti su orizzonti sconfinati, e luce che in estate pare eterna (e poi viene il regno delle tenebre, per mesi, a sottolineare questo antico dualismo che è in tutte le cose, Dio-Demonio, Morte-Vita, Ebbrezza-Malinconia…), e nemmeno quella della fissità senza tempo di antichi giorni d’infanzia, che più corrispondente all’anima profonda di queste terre. Lassù il segno dell’uomo altro non è che una lieve scalfittura sul corpo immenso, ed anche dove esso appare più netto e profondo si avverte tutta intera la fragilità, la provvisorietà. Basterebbe una minima diminuzione della temperatura delle acque marine perché la sua presenza fosse nuovamente respinta dalla banchisa e dalle tormente…in ogni caso, è l’uomo che deve adattarsi all’ambiente, amarlo, propiziarselo per non soccombere. Ed è forse in questa estrema sintesi, in questo continuo rimando alla conoscenza di noi stessi che procurano le grandiose forme dell’ambiente esterno, che hanno origine le malinconiche e struggenti visioni di inutilità e transitorietà e gli eccessi più sfrenati di gioia e voglia di vivere, come ci rivelano le magistrali opere di Munch, di Ibsen e dello scultore Vigeland al Parco di Oslo. Si viaggia per migliaia di chilometri entro sconfinate foreste, laghi e pianure al Sud e poi per monti modellati dalle glaciazioni che paiono altissimi e sui quali si ergono piccole pietraie votive, tra i ghiacciai ed i nevai eterni accerchiati dall’effimera fioritura di erbe artiche, in nebbie veloci e improvvise che nascondono il precipitare di acque bianchissime in gole profonde, verso fiordi sottili e intricati come scritture runiche, che portano chiese e barche, luce, ciliegie, fragole, mele, colore e vita quando meno te lo aspetti e già disperi di trovare un rifugio e gente ospitale. E poi la chiara notte senza luna e senza stelle, con il carillon dei campani dei greggi erranti su rocce aspre o stranamente rotonde dipinte dal vento e dai licheni, pecore e renne e alci e le altre invisibili presenze fra magia e realtà che da un immemore tempo sognavo, il tempo, anch’esso magico e fiabesco, di quando in pace entro noi stessi si stava, senza paura dell’universo amico.

sabato 4 febbraio 2017




Chiedo perdono a Rilke ed a Twardowski e a molti altri defunti e vivi, vicini e lontani, per l'imprudenza nel palesarmi e l'egoismo che mi porta a parlar di me, una nullità al confronto.
Non so nemmeno se si possa parlare di poesia, ma credetemi è così facile farlo quando si ama!

Se scrivo di me

se scrivo di me non è per vanagloria
non ho nient’altro da dire d’importante
sto sul la rama infreddolito come l‘amico
merlo ma  lui canta e la merla
gli risponde e l’ama ora che le persone
intorno non ne ho molte e spariscono
mute devo affrettarmi anch’io a non perderle
del  tutto e la notte mi arrovello ore
a scandagliare nomi volti abbracci e qualche
 bacio bambino che mi guidò sul cammino
                                                     dell’amore
vorrei ma senza speranza uscire come
un sogno dalla stanza ed abbracciare il cielo
ed anche il melo coi suoi fiori rosa
che non c’è più e nel caldo mare uscir
dall’acqua per catturare le stelle
                                         e la promessa sposa
e sulla rama si posa l’umida sera
di un anno tardo di antica memoria
presto sarò con voi ma non abbiate fretta
di nuovo s’incontreranno le nostre strade

                                               lassù 

venerdì 3 febbraio 2017



Jan Twardowski, un poeta.

Nonostante  utilizzi il computer per due o tre ore ogni giorno, e lo ritenga indispensabile per il mio lavoro di scrittura, anche perché mi facilita aggiunte, cancellazioni, inserimenti, indici…ai testi senza dover faticare con schede, fotocopie e riscritture, il mio amore va’ ai libri stampati, specialmente ai “vecchi libri”, prime edizioni, nuove traduzioni, moderne introduzioni ecc. ecc, nonché, quando ci sono, illustrazioni. Il mio amore per la carta stampata mi ha portato a possedere oltre cinquemila volumi(volumetti/fascicoli/collezioni di giornali e riviste/fumetti e, in particolare, moltissimi testi di “proverbi”, aforismi, diciamo pure folklore. Per non parlare del materiale inerente al mio lavoro nel campo della geotermia, sia storico che tecnico e scientifico.
In questo preciso momento ho sottomano, sul tavolo alla mia sinistra, alcuni libri,  che leggo contemporaneamente. Interessanti tutti, ma mi ha colpito quello del poeta JanTwardowski “Affrettiamoci ad amare”, stampato da Marietti 2009/2015, un libro, come è scritto nella presentazione, di spudorata bellezza, fatto di poesie timide e scalze…le sue poesie hanno una forza prodigiosa e chiara. Sia che presentino un colloquio con le creature della natura, che sottintendano  i tanti drammi normali di tutti noi a riguardo dell’amore, della morte,  delle domande che agitano i cuori umani”. Jan Twardowski (1915-2006) è considerato una delle voci più originali della poesia polacca del Novecento. “Affrettiamoci ad amare” è la prima raccolta di poesie pubblicata in Italia.

Affrettiamoci ad amare le persone se ne vanno
                                                        così presto
e quelle che non se ne vanno non sempre ritornano
e non si sa mai parlando dell’amore
se il primo sia l’ultimo o l’ultimo il primo


Mi ci ritrovo, e lo dico sommessamente, con le mie poesie minimali, sia che colloqui con il vecchio castagno, il pero ed il cipresso, ed anche con il mandorlo fiorito ne “Il tempo dell’amicizia”. Grazie a mia figlia che me lo ha regalato!

giovedì 2 febbraio 2017




PURIFICAZIONE DI MARIA.
PRESENTAZIONE DI GESU’ AL TEMPIO.
LA CANDELORA.

Oggi, 2 febbraio, la Chiesa Cattolica e il “calendario” civile, commemorano un data molto importante, istituita, credesi, da Papa Gelasio nel 492. Il Papa Sergio I la riordinò intorno al 689 aggiungendovi la “processione delle candele”, da ciò deriva il nome di “Candelora” o “Candelaia”, dato comunemente a questa festa.  Forse essa fu solennizzata per togliere il ricordo di alcuni riti pagani: o le feste Amburbali (feste in onore di Proserpina il cui simulacro veniva portato per la città preceduto da torcie accese), o per i Lupercali (orgie in onore del dio Pan). Ma, qualunque sia  l’origine storica la Chiesa ha voluto esaltare nella festa l’unità stretta tra Maria e Gesù. E nel momento che il vecchio Simeone vide il Salvatore, che vide il suo splendore, comprese che poteva incamminarsi sereno verso la morte, perché nella morte c’è la vita e oltre le tenebre rimane la luce. A questa estrema luce si giunge per intercessione di Maria. Anch’essa dovrà superare la tremenda prova del ferro che le trapasserà il cuore, la prova del dolore della Croce. E così, la piccola candela che metteremo da parte dopo la benedizione del Sacerdote nella Festa della Purificazione, potremo vederla brillare nella scena del nostro trapasso, allorché Maria “porterà nel Regno dei Cielo la nostra anima, tra le sue braccia, come un giorno ha portato Gesù”.
A Castelnuovo di Val di Cecina la grande Chiesa del Borgo è stata da sempre intitolata alla Vergine Maria e retta dalla Compagnia di Santa Maria, che all’inizio  del XIV secolo, aveva una Casa Ospitaliera e oratorio fuori dalle mura, addossata alla Porta Romana.  Essa fu trasferita all’interno delle mura, nell’attuale sede, pochi decenni dopo, e fu intitolata  alla Purificazione di Maria, dalla quale si originò la Confraternita di Misericordia, ancor oggi operante,  non solo per la Comunità di Castelnuovo, ma per un ben più ampio territorio.  Ed è per questo motivo fondativo che il giorno 2 febbraio si paga la “tassolina” annuale dell’iscrizione alla Misericordia, uno dei maggiori doni posseduti dalla nostra Comunità, religiosi e laici, cattolici e di altre religioni, oppure di nessuna religione! Ma nel rispetto  nel Santo Vangelo e delle Opere di Misericordia.

Secondo il Vangelo di Luca(2, 21-52), …passati gli otto giorni prescritti per la circoncisione, al Bambino fu dato il nome di Gesù, nome che l’Angelo aveva pronunciato  prima del suo concepimento. Quando venne il giorno della cerimonia della  purificazione di Maria, sua madre, dopo i 40 giorni dal parto, prescritta dalla Legge di Mosè, lo portarono a Gerusalemme per presentarlo al Signore e per offrire il sacrificio richiesto nella Legge del Signore: un paio di tortore e due piccioni giovani. Ora a Gerusalemme viveva un certo Simeone, uomo giusto e scrupoloso nell’osservanza della legge…mosso dallo Spirito  egli andò al Tempio e quando i genitori portarono il piccolo Gesù per fare quanto la Legge prescriveva nel suo caso, fu lui a prenderlo in braccio…c’era anche la profetessa Anna, figlia di Fanuel, della tribù di Ascér; era una vegliarda quanto mai avanti negli anni: sposatasi appena giunta alla pubertà, aveva vissuto col marito sette anni e adesso era vedova da ottantaquattro anni, non lasciava mai il Tempio, ma adorava Dio giorno e notte. Ed è da questo passo di Luca che il pittore Cosimo Daddi dipinse nel 1597, per la Confraternita della Misericordia di Castelnuovo, la grande tela che riproduce l’intera scena. Un capolavoro del manierismo italiano, oltre che il simbolo delle radici della nostra Confraternita, che si può ancora oggi ammirare nella Chiesina di San Rocco o della Misericordia.