SANTA GIACINTA MARESCOTTI. LA SANTA DI
SOLAIO E DELLA TUSCIA.
Incontri
tra noi per noi, Compagnia della Carità di Montecerboli, Montecerboli, 22
febbraio 2017.Testo di Carlo Groppi.
Cari amici ed amiche, grazie per avermi invitato a tenere una piccola e
semplice conversazione su un personaggio che mi ha molto appassionato, Clarice
Marescotti, ovvero Santa Giacinta, la Santa di Viterbo e della Tuscia, che per
un breve lasso di tempo soggiornò anche nella Diocesi di Volterra, nel Comune
di Radicondoli, a Solaio e Cugnanello, terre degli avi.
Nella stesura del capitolo del libro
"Dare qualcosa in cambio di niente"(che grazie ad Andrea uscì
emendato dai molti errori,) affrontai le vicende della Confraternita di
Misericordia esistente nella chiesa, adesso sconsacrata,di San Lorenzo a
Montalbano, sulla strada che da Castelnuovo porta a Montecastelli, accennando,
evocandone il nome, ad una Beata le cui memorie erano legate, come quelle del
giovane San Bernardino, al territorio a nord-est di Castelnuovo, insinuando che
me ne sarei occupato in un secondo tempo. Ho mantenuto la promessa dando vita
ad una ricerca vasta e interessante che rivelò di trattarsi non di una Beata ma
di una Santa, Santa Giacinta Marescotti.
Le
mie ricerche approdarono alla pubblicazione di un breve saggio sulla bella
rivista trimestrale “La Comunità di Pomarance” nei numeri 1 e 2 del 1999 e
nell’estate di quell’anno, 1999, nell’ambito del programma regionale “I luoghi
della Fede in Toscana”, tenni una commemorazione di Santa Giacinta nella sua
Cappella presso la Villa di Solaio, con una grande partecipazione di persone ed
un concerto di musica. Successivamente ne ho parlato in una Conferenza a
Volterra (2002) ed a Belforte (2006). Personalmente sono molto attratto dagli studi di biografie femminili: come, ad
esempio, quelle su Marie Durand e la persecuzione della setta dei Valdesi;
Mathilde Wesendonk e il suo amore con Richard Wagner; Teresa di Lisieux e la
sua sconvolgente santità, Da oltre 50 anni mi sto’ occupando di Norma Parenti,
medaglia d’oro al valor militare della Resistenza, nata a Monterotondo
Marittimo nel 1921 (l’anno di nascita della mia mamma) e uccisa a Massa
Marittima dai nazisti il 24 giugno 1944.
I Santi dell'attuale Diocesi di
Volterra sono otto e tre sono i Beati. Di questi illustri personaggi soltanto Leone I è entrato a far
parte del nuovo calendario romano, ma a "memoria", cioè come un santo
di rango inferiore, mentre gli altri sono venerati solo localmente. Tale sembra
anche la sorte di Clarice Marescotti, o Marescotti, al suo secolo suor
Giacinta, la santa di cui narreremo la storia. Di questi illustri personaggi
soltanto Leone I è entrato a far parte del nuovo calendario romano, ma solo a
“memoria”, cioè in serie C, mentre gli altri sono venerati localmente. Di tutti
esistono però biografie, schede, santini, quadri, altari e preghiere. Molto
meno sappiamo di altri santi e beati che sul nostro territorio hanno
soggiornato o predicato o vi sono stati “romiti” dei quali ne cito alcuni: San Bernardino da
Siena, San Walfredo di Monteverdi, San Guglielmo da Malavalle; San Galgano di
Chiusdino; San Rocco da Montpellier; il betao Antonio Papocchi di Monticiano;
Niccolò Marescotti eremita a Lecceto; il beato Ranieri di Belforte, il beato
Giacomo, il murato, di Montieri o dei santi antichi o fantasiosi, come san
Regolo del Frassine e San Potente di Lustignano.
E
ancora troppo poco sappiamo sulla plausbile e suggestiva presenza nella
contrada che da Bibbona e Montalpruno, toccando Monteverdi e Sasso Pisano,
entra nella comunità montierina per finire a Monticiano e quindi ricongiungersi
alla via Cassia nei pressi di San Quirico d’Orcia, dell’apostolo Pietro. Per
molto tempo se ne è occupato don Mario Bocci lasciando intravedere, qua e là,
nei suoi brillanti scritti e prolusioni, tale ipotesi, ma nessun serio
approfondimento mi risulta che sia stato fatto.
Certo,
il mondo dei martiri, dei santi e dei beati è sconfinato! Il “catalogo” ne
comprende circa 40.000 e la sua revisione critica, specialmente dopo il
Concilio Vaticano II, è perennemente in
corso e la Chiesa Universale riconosce soltanto le feste che commemorano quei santi la cui importanza
è riconosciuta come universale.
La
festa di ogni santo è fissata nel giorno della sua morte, cioè nel momento
iniziale della vita eterna. Comunque
dello sterminato numero di santi, martiri e beati la maggior parte sono oggi
dimenticati e lasciati alle chiese locali, anche se molte chiese rurali, sono
oggi abbandonate o sconsacrate.
Ma
veniamo a Santa Giacinta Marescotti, la quale gode ancora di fama e di
venerazione.
Il ramo dei Marescotti
discende direttamente da famiglia nobile scozzese, se non addirittura da quel
"Mario Scoto" che nell'VIII secolo fu mandato dal re di Scozia in
aiuto di Carlo Magno nella guerra contro i saraceni. I Marescotti si diffusero
in Francia e in Italia imparentandosi con le più illustri e facoltose famiglie
e dando origine a valorosi soldati, cardinali, beati e santi, conti,
imprenditori minerari e grandi possidenti terrieri. Nel 1731, alle navi
spagnole dell'Infante Don Carlos si unirono tre navi del granduca di Toscana, comandate
dal cavaliere Marescotti, assurto al rango di ammiraglio della flotta di stazza
a Livorno.
Un ramo della famiglia lo troviamo a
Siena nel XIV secolo (1316) e proprio in virtù dei servigi resi alla repubblica
(arruolamento di soldati? prestito di denaro?) ai Marescotti fu assegnato in
propriet… il vasto territorio dell'antico castello di Montalbano, nella contea
d'Elci, proprio sul confine del territorio senese verso l'ovest e Volterra.
Nulla sappiamo dei rapporti tra il padre di S. Giacinta, Marc'Antonio, con i Marescotti
che all'epoca (XVI secolo), possedevano Montalbano, Anqua, Solaio, Cugnanello e
Tegoni, ma per fugare ogni dubbio sulla parentela resta la lapide murata nel
podere Cugnanello che recita:
"IN
QUESTO CHE FU UNO DEI CASTELLI DEI MARESCOTTI LA BEATA GIACINTA FIORE
DELL'ANTICHISSIMA SCHIATTA VISSE PARTE DELLA SUA PUERIZIA E DELL'ADOLESCENZA
IRREQUIETA. QUETATASI POSCIA E SUBLIMATASI IN DIO PER EROISMO DI VIRTU'
CRISTIANE QUI EBBE CULTO DI MEMORIE E DI ALTARE IN UN SUO DEVOTO ORATORIO DURATO
FINO AL MDCCCCXXV (1925). QUI SI RICORDA E SI INVOCA AUSPICE PROPIZIATRICE
PATRONA AGLI UOMINI E ALLE TERRE CHE UN GIORNO FURON DEI SUOI".
E dei Marescotti senesi, il cui
albero genealogico abbiano rinvenuto all'archivio storico del comune di Castelnuovo
per il periodo 1565-1803, ramo estintosi per mancanza di discendenza maschile,
oggi non restano sul territorio che le testimonianze epigrafiche e tombali a
Solaio, Tegoni e San Lorenzo a Montalbano e scartoffie polverose negli archivi
storici comunali o notarili.
Anche la statua del "santo
guerriero", ricoperta da armatura metallica, donata dai Marescotti di
Tegoni alla chiesa di San Lorenzo, a
Montalbano, forse il simulacro di un antenato che aveva partecipato alle
crociate, Š da tempo scomparsa e ne ignoriamo la sorte. Nel tempio in rovina,
poi sconsacrato e restaurato come residenza privata, ma di nuovo abbandonato,
rimane la lapide che ne attesta la ricostruzione: "Questa chiesa dedicata
a San Lorenzo Martire e che prende il nome da Montalbano antica signoria de' Marescotti,
primi fondatori e dotanti, rovinata nel 1864, fu in più ampia e miglior forma
ricostruita per le sovvenzioni regie e popolari coi disegni di Giovanni Giusti
da Siena, assistendo alla nuova opera il conte Niccolò Carlo Marescotti,
1870". Si tratta probabilmente di uno degli ultimi discendenti della
famiglia Marescotti, Carlo, conte di Montalbano, morto a Volterra il 9 gennaio
1910, città nella quale aveva esercitato per trenta anni la professione
forense. E' il canonico monsignor Cavallini che ne tesse l'elogio funebre sul
giornale locale "La Scintilla" il 15 gennaio 1910. Carlo Marescotti è
descritto come "collaboratore del colonnello Gialdini nell'amministrazione
del Ministero della Guerra e partecipe del risorgimento d'Italia, accademico
dei Sepolti e consigliere comunale, munifico benefattore degli Asili Infantili
Riuniti, patrizio senese e valente studioso che aveva dedicato la sua esistenza
ad illustrare la benefica influenza sociale della Chiesa in tre volumi "Il
Clero e la Civiltà". Intorno al primo decennio del '900 troviamo tre
donne, la contessa Giulia Marescotti, collaboratrice del periodico volterrano
"La Scintilla", Clara Landucci e Giacinta, sposata con Giovanni
Martini, medico provinciale. Non è di poca rilevanza registrare il nome della
Santa di famiglia, Giacinta, ad una delle ultime discendenti della casata dei Marescotti
a testimonianza di una consuetudine di devozione mai sopita.
Insediatisi stabilmente nell'area
tra Elci e Montalbano, i Marescotti li troviamo padroni (dal secolo XIV al
XIX), o con lo juspatronato, delle chiese di Tegoni, Montalbano, Vinazzano,
Solaio e Sesta. La visita pastorale del 18 marzo 1424 attesta che la chiesa di
S. Lorenzo a Montalbano è occupata da Lodovico Marescotti. Il toponimo
primitivo non è più rintracciabile, ma
l'antico culto per S. Lorenzo, insieme alla memoria del perduto castello di
Montalbano, signoria dei Marescotti, furono nel secolo XIX trasferiti nella
nuova chiesa posta sulla strada rotabile di Montecastelli.
A Solaio, nell'oratorio di famiglia,
è appeso il drappo ricamato in oro con l'immagine di S. Giacinta circondata da
un serto di rose selvatiche, con la data 1940, probabilmente postovi in
occasione del trecentesimo anniversario della morte, mentre due importanti
lapidi marmoree attestano la presenza dei Marescotti:“Sia perenne memoria in
questo sacro luogo del conte Fausto Marescotti Landucci che la tenuta e Villa
di Solaio a lui pervenuta nell’anno 1865 molto predilesse e siano ricordate in
benedizione le sorelle di lui, contesse Giulia e Chiara Landucci anime
elettissime che nei possessi del fratello succedettero l’una fino al luglio del
1914 l’altra fino all’aprile del 1924 lasciando in tutti che le conobbero e
specialmente nella nipote diletta contessa Ida Testa Serafini erede per
testamento ricordi incancellabili di bontà e di fede degne degli antichi
tempi”. E l’altra recita: “Qui riposa la spoglia esanime di Fabio de’ Conti
Marescotti patrizio senese uomo d’antica probità e di gentili costumi ricco di
civile sapienza e d’amore del bene di marito e cittadino. Adempiì fedelmente
gli uffici più che al miglioramento dell’avito censo all’utile del suo
municioiom senza mercede soccorse coll’opera e col consiglio. Colpito da
apoplessia nel 16 novembre dell’anno 1843 dopo 70 anni di mortal
pellegrinaggio volò a felicitarsi
nell’amplesso del suo Dio da tutti rimpianto e desiderato. La vedova Girolama
Ricciarelli di tanta perdita inconsolabile in questa cappella dalla pietà
dell’estinto eretta a perpetua ricordanza q.l.p.”
Infine, nella chiesetta sconsacrata
di S. Lucia di Tegoni, di fronte all'altar maggiore c'è una botola di marmo che
conduce nella cripta sepolcrale dei Marescotti, da tempo profanata. All'interno
vi sono due lastre tombali di Giuseppe Marescotti e di Maria Marescotti, morti
infanti alla metà del secolo XIX.
Clarice Marescotti nasce a
Vignanello in provincia di Viterbo, nei Monti Cimini, nel marzo dell’anno 1585, al tempo del papa
Sisto V e dell'imperatore Rodolfo II, da Marc'Antonio e dalla principessa
Ottavia Orsini, romana, in quello che è oggi il castello dei principi Ruspoli.
Ebbe due sorelle (Ginevra, che fu monaca francescana in San Bernardino a
Viterbo; e Ortensia) e due fratelli (Sforza Vicino e Galeazzo). Tutti
ricevettero, secondo l'uso del tempo, una profonda educazione cristiana alla
cui osservanza si dedicarono con zelo. Soltanto Clarice si dimostrò ribelle
agli insegnamenti di modestia, riservatezza e carità, ostentando un carattere
libero e altero, inclinato al godimento delle gioie della vita fastosa del suo
ceto sociale e del lusso che la circondava, nel quale la sua bellezza
risplendeva come una gemma. All'età di nove anni Ginevra fu portata nel
monastero delle francescane di San Bernardino a Viterbo e indirizzata, non sappiamo
quanto consapevolmente, alla vita monastica. Col nome di suor
"Innocenza" visse esemplarmente la sua rinuncia al mondo dimostrando
negli anni una fede forte e matura. Sbarazzatisi della figlia primogenita
Ginevra, e con un occhio vigile alle doti che avrebbero dovuto accompagnare
l'eventuale matrimonio delle altre due sorelle, assottigliando il patrimonio
della casata, i Marescotti avviano al monastero anche la "ribelle"
Clarice ponendola sotto la guida della sorella. Ma la durezza della regola, le
ossessionanti orazioni, il buio e il freddo che regnavano nell'ambiente
claustrale, finirono per rendere insopportabile la sua vita nel convento e
Clarice ritornò in famiglia. Era una fanciulla bella, alta, elegante e aveva
molti corteggiatori tra i quali un marchese di cui si innamorò. Probabilmente
questa unione non piaceva ai Marescotti (certamente per ragioni economiche),
cosicché i genitori decisero di anteporle nel matrimonio la sorella minore,
Ortensia, dandola in sposa al marchese Paolo Capizucchi dei signori di Poggio
Catino, con una cerimonia incredibilmente sfarzosa per doni e festeggiamenti.
Clarice ne fu colpita violentemente entrando in una crisi depressiva profonda.
E' probabilmente in questo tempo, nei primi anni del '600, che Clarice viene
"confinata" nei possedimenti terrieri di Solaio, di Lodovico Carlo
Marescotti, per farle ritrovare serenità d'animo e superare la grave crisi di
nervi che per poco non l'aveva condotta precocemente alla morte, e per evitare
o attenuare le chiacchiere per la vita liberale che menava a Vignanello.
Ma per Clarice, figlia ribelle e
scomoda, non ci furono alternative al velo di monaca. E pur contro la sua
volontà, appena ventenne, varca il portone della clausura del monastero
viterbese di San Bernardino per non uscirne mai più. Vi entrò portando
nell'animo, come scrive un biografo (Flaminio Annibali da Latera),
"dispetto, sdegno e spirito secolaresco". Fredda e insensibile alla
vita monastica, Clarice, adesso suor Giacinta, in virtù dei privilegi che
l'alto lignaggio le assicurava, si costruì nel convento un appartamento signorile di più
camere e si circondò di tutti i piaceri e di tutte le vanità.
La scelta medesima del nome rivela
l'amarezza del suo cuore innamorato, perché‚ nel suo inconscio. ella si identifica
con Giacinto, l'efebo bellissimo amato da Apollo e ucciso per la gelosia di
Zefiro e dal cui sangue sboccerà il fiore odoroso.
Suor Giacinta visse per circa dieci
anni in questa condizione "di secolare in convento", ostinandosi
nella sua sconveniente condotta e recando scandalo alle altre suore. I biografi
hanno steso un velo di pudico silenzio su questi anni, e pertanto ci possiamo
soltanto immaginare la sua vita di peccatrice dai molti racconti e
testimonianze sulle donne nella clausura, di cui i più celebri restano
Boccaccio, Diderot e Manzoni. Di se stessa Giacinta ebbe a scrivere che tale
periodo era stato contrassegnato
"di molte vanità et sciocchezze nelle quali hero vissuta nella
sacra religione".
All'età di trent'anni, Giacinta,
gravemente ammalata, vistasi negare l'assoluzione dal confessore, scandalizzato
dalla sua condotta, fu colpita dall'atroce pensiero di essere condannata
alle pene eterne dell'Inferno se non avesse mutato radicalmente la propria
condotta espiando i peccati commessi. E' l'anno 1615. Giacinta, vestita una
rozza tunica, si frusta a sangue di fronte alle consorelle allibite,
dichiarando tra i singhiozzi che avrebbe d'innanzi vissuto nella povertà e
nella penitenza.
E cosìfece. I
ventiquattro anni che le resteranno da vivere altro non saranno che una
interminabile lista di sofferenze
spirituali e corporali (nell'arduo impegno di ripetere la Passione di Cristo),
quest'ultime inferte al suo corpo con micidiale determinazione e accanimento,
si da ingenerare il dubbio che qualcosa di grave sia avvenuto nella sua mente
per condurla al masochismo. Come altrimenti potremmo interpretare il legarsi con una catena di ferro, anche
durante il sonno, ad una immensa croce di legno collocata nella sua cella? o il
dormire su un materasso fatto di sarmenti che poggiava sopra tre dure assi di
legno? o poggiare la testa, anziché sul guanciale, su un ruvido sasso? oppure
aver ridotto il cibo quotidiano ad un solo pasto costituito da tozzi di pan
secco avanzati dalla refezione delle consorelle? E non parliamo dell'abito suo,
ricavato nel saio consunto di un frate morto o dell'uso di camminare scalza
anche nel rigido inverno? e del denaro, che una volta tanto bramato, era
trattato come immondizia e gettato, quando ne veniva in contatto, negli angoli
della cella? Anche il nome aveva dimenticato, delle monete. Ma il culmine delle
efferatezze contro il suo fragile, ma ancora bellissimo corpo, lo raggiungeva
flagellandosi ogni venerdìcon un mazzo di pungitopo fino a veder sgorgare il
sangue. Spezzava il ghiaccio coi piedi nudi immergendosi nell'acqua gelata
dell'orto; masticava assenzio amarissimo; di notte saliva una ripida scala con
la pesante croce sulle spalle, cadendo e rialzandosi per flagellarsi con
accanimento. A questo artificioso e inumano regime di privazioni ben presto si
aggiunse la sofferenza delle malattie, che con tale regime di vita, non
potevano mancare.
Giacinta amava non solo
la povertà, ma anche i poveri e nelle sue preghiere chiedeva di potersi
trasformare in "pane" per saziare tutti i derelitti e affamati del
mondo! Dalla clausura escogitò ogni stratagemma per dare aiuto ai poveri
viterbesi. La sua attenzione era inoltre rivolta ai carcerati e agli esecutori
di delitti, insomma a chi si trovava in peccato mortale. Fra le conversioni
ottenute da Giacinta si ricorda, in particolare, quella di un soldataccio di
ventura, un certo Francesco Pacini di Pistoia, perverso e crudele, attraverso
il quale si esplicò l'azione della Santa che a lui fu legata da un complesso
rapporto affettivo, anche se mascherato e mediato dall'esaltazione mistica. Per
dar seguito stabile alla sua azione, Giacinta fondò due confraternite, che
curavano i malati, i poveri e gli anziani, una delle quali, chiamata "dei
Sacconi" esiste tutt'ora. L'altra confraternita era detta degli
"Oblati di Maria" e si dedicava all'assistenza agli anziani
dell'ospizio di S. Carlo.
Giacinta conobbe l'estasi dell'amor
divino e visse momenti in cui parve fuori dalla dimensione umana: gridava nella
notte, affacciata alla finestra, "Amore, Amore, Amore dolcissimo vieni a
me!" Altre volte a mezzanotte si stendeva davanti all'altare gridando:
"Amore, Amore, vieni nel mio cuore!" e ritirandosi nella sua cella
cominciava a flagellarsi gridando: "O mio dolce e caro Amore, come potrò
vivere se non mi sazio appieno di amarti?" In una lettera scrisse queste
parole: "...peno di non trovare ancora modo di amare Dio, tanto che pare
alle volte che il cuore mi si schianti, non trovando strada per progredire
nell'amore; e pur sento voci interne, che mi richiamano a mutar vita, e passo
le notti in pianti e gemiti inconsolabili...". Spesso versando lacrime di
dolore esclamava: "Amor meus crucifixus est!". Parimenti all'amore
per il SS. Sacramento, verso il quale ravvivò le pratiche di pia devozione,
Giacinta ebbe anche amore ardentissimo per la Madonna e dal momento della sua
consacrazione si firmò sempre come Giacinta di Maria Vergine apponendo su tutti
gli oggetti usati l'immagine della madre di Cristo. Sentiva Dio presente e
quasi lo vedeva e quando si metteva in preghiera la sua unione con Lui si
faceva così profonda che pareva uscire dalla dimensione
terrena. Una volta fu vista levitare nell'aria, verso il crocefisso, e
rimanervi per oltre un'ora. Ebbe visioni profetiche ripetute e provate dai
fatti e nell'estasi il dono della profezia e della scrutazione dei cuori.
Finalmente giunse, liberatore, il
giorno della sua preziosa morte, alla quale Giacinta si accostava da tempo per
piccoli insignificanti eventi. Pur nella sofferenza di una micidiale peritonite
ebbe parole dolcissime per le consorelle che le stavano intorno nell'ora
estrema e mentre mormorava: "Aiutatemi, Gesù mio, mio sposo" e
"Nelle tue mani Signore raccomando l'anima mia...", dolcemente spirò.
Erano le ore 18,30 di lunedì 30 gennaio 1640, giorno di Santa Martina.
Come scrive un suo biografo:
"...la santa lasciò un piccolo diario autografo conservato nell'archivio
del convento dei SS. Apostoli a Roma e intitolato Liber scriptus a B. Virgine
Hyacintha de Marescottis. E' contenuto nei primi undici fogli di un quaderno di
centoquarantacine pagine. Ella vi appose questo titolo: "Diversi detti
spirituali per accendere le anime devote al puro amore di Jesù et Maria".
L'opera è in due parti: nella prima sono riportate sentenze spirituali o norme
di vita; nella seconda si ha il diario di meditazioni e risoluzioni pratiche.
Lo scrisse al trentatreesimo anno di età". Nonostante l'avallo tardivo di
un vescovo a testimoniarne la veridicità (anno 1735), molti dubbi sussistono
sull'originalità dello scritto e il testo appare come totalmente o in parte
opera posteriore.
La fama che si era diffusa in
Viterbo e nelle zone vicine fece affluire intorno alla salma esposta in S.
Maria delle Rose, sede dei Sacconi, una moltitudine di persone eccitate che
nessuno riuscì a tenere a bada: per ben tre volte, nonostante
l'intervento di soldati armati, si riuscìad impedire che gli abiti di Giacinta fossero
strappati e tagliuzzati per ricavarne reliquie, fino a spogliare completamente
il corpo senza vita; anche le unghie e i capelli furono tagliati e cosìfu minutamente
spezzettata la corona di rose che le era stata posta intorno alla testa...ma
l'entusiasmo della folla giunse al parossismo quando uno storpio, che
lentamente era riuscito ad arrivare a toccare la morta, alzando al cielo le
stampelle, dimostrò di essere stato miracolosamente sanato. Finalmente, due
giorni dopo il decesso furono celebrati i funerali e il corpo mortale di
Giacinta, avvolto in un semplice lenzuolo, fu tumulato nella sepoltura davanti
all'altar maggiore della chiesa di San Bernardino, in piazza della Morte, a
Viterbo, ove si trova ancor oggi, in un sacello più volte rimaneggiato e
abbellito e definitivamente rifatto dopo le distruzioni provocate all'edificio
dalla seconda guerra mondiale, edificio
che porta il nome di S. Giacinta. Una reliquia della santa si conserva
nella chiesa di Vignanello e cimeli sono tutt'ora nel palazzo Marescotti-Ruspoli
della medesima località dell'alto Lazio e nell’archivio della basilica
dell’Osservanza di Siena, nella quale ebbi la fortuna di incontrare il vecchio
fratello di mio amico storico della Resistenza Italiana, frate Remigio, che mi mostrò le preziose
reliquie.
Dopo la morte la fama di
"santità" di Giacinta si propagò non solo nelle terre vicine a
Viterbo ma anche in regioni lontanissime. I miracoli a lei attribuiti
iniziarono prestissimo a compiersi e sono mirabili in quantità ed effetti.
Storpi che riacquistano l'uso delle gambe; ciechi che recuperano la vista;
salvataggi da annegamenti e da cadute mortali; guarigioni da malattie
contagiose e altri ancora. Per questi moltissimi miracoli, rigorosamente
esaminati dalla Sacra Congregazione dei Riti, il pontefice Benedetto XIII, con
decreto del 14 luglio 1726, promulgò la beatificazione.
La cerimonia solenne fu celebrata
nella basilica di San Pietro il 1 settembre dello stesso anno. Il culto per la
Beata Giacinta si fece ancora più intenso e i miracoli seguirono meravigliosi.
Tre furono rigorosamente esaminati dalla Congregazione dei Riti e posero il
suggello alla causa di canonizzazione. Il 15 agosto 1790 il papa Pio VI promulgò
il decreto che sanciva in eterno la santità di suor Giacinta Marescotti o della
Vergine Maria.Per l'esilio e la morte in prigionia del pontefice la solenne
cerimonia di canonizzazione fu rinviata e toccò al suo successore, Pio VII, il
24 maggio 1807, festa della SS. Trinità, a proclamarla Santa con una solenne
cerimonia in San Pietro a Roma.
Episodio di Cugnanello.
Contatti coi Ruspoli e lettera.
P.Flamino Annibali, da Latera – Vita della vergine S.
Giacinta Merescotti, Roma, A.Fulgoni, 1805.
Anonimo frate e suora di Montieri, primo Novecento.
Piccola Biblioteca Francescana, S. Giacinta Marescotti, anni
20-30 del Novecento.
Testimonianza di padre Remigio, Basilica dell’Osservanza di
Siena.
Calendario Annuale, gennaio, 30.