DINA FERRI, poetessa.
Conferenza
di Carlo Groppi, Biblioteca Comunale “Dina Ferri” di Radicondoli.
Gentili
signore e signori, cari amici,
sono
molto contento di essere tra voi, a Radicondoli, per raccontare una storia, né scientifica, né
famosa: la vita di una giovane donna, figlia di mezzadri, vostra concittadina,
alla quale è dedicata questa Biblioteca Comunale: Dina Ferri, poetessa.
Inizierò ripercorrendo gli
avvenimenti biografici più evidenti di Dina, che sono di una estrema
semplicità. Seguiranno alcune considerazioni bio-bibliografiche e, infine la
lettura di due o tre poesie e le risposte ad eventuali domande dei presenti.
Dina Ferri nasce il 29 settembre
1908 sulle pendici orientali della Carlina, in un podere ora rudere, Prativigne,
nel Comune di Radicondoli, dove trascorre i primissimi anni di vita. Quando
Dina ha quattro anni le nasce il fratello, Amilcare (17/12/1912 – 22/2/1994). Dopo
il trasferimento al podere sottostante, Faule, nel 1915 la famiglia fu
sfrattata per motivi politici e si sposta definitivamente al podere I Trogoli (oggi
San Carlo), a Ciciano e qui, nell’ottobre dello stesso anno, nasce la sorella
Orietta. All’età di nove anni Dina inizia la prima classe elementare a Ciciano,
con la maestra Francesca Corsi. Dina, ormai dodicenne, termina nel giugno 1920
il ciclo delle tre classi elementari inferiori a Ciciano. Ritorna a fare la
contadina e la pastora. In questi anni è testimone di due gravissimi episodi di
violenza: il primo è l’assalto degli squadristi fascisti al podere del padre,
il socialista Santi Ferri; il secondo è la manganellatura di un suo parente al Molino
delle Cerbaie, sul fiume Cecina. Ne rimane fortemente turbata. Inizia a
scrivere ciò che diventerà il “Quaderno del nulla”. Nella primavera del 1924, aiutando
il babbo alla macchina del trinciaforaggio, si amputa quattro diti della mano
destra vanificando per sempre il sogno di diventare una brava ricamatrice. Nel
settembre dello stesso anno, in seguito a questo trauma, i genitori la
iscrivono, ormai sedicenne, alla quarta classe elementare istituita per la
prima volta a Chiusdino, sotto la guida della maestra senese Giuseppina
Cairola, fervente fascista, colta e sensibile. Negli ultimi mesi del biennio
delle elementari superiori (quarta e quinta classe), l’Ispettore scolastico
provinciale, Barni, legge i quaderni dei temi e dei riassunti di Dina restandone
profondamente colpito. Consiglia il padre, a farla proseguire negli studi
superiori. I quaderni con i diari scolastici di Dina, probabilmente tramite la
maestra Cairola, vengono a conoscenza di Aldo Lusini, giovane brillante
intellettuale senese, fondatore, nel 1926, insieme all’amico e maestro,
marchese Piero Misciattelli, romano e proprietario della Fattoria di Luriano, della prestigiosa rivista culturale La Diana. Lusini e
Misciattelli iniziano ad interessarsi a Dina. Grazie a Lusini, il Monte dei
Paschi dispone per una borsa di studio. Dal luglio al settembre 1926, Dina
soggiorna in San Martino, nella casa senese delle sorelle Giuseppina ed Emma Cairola,
preparandosi all’esame di ammissione per le scuole magistrali e, dopo aver
superato l’esame, ormai diciottenne, entra nel Convitto del regio Istituto
Magistrale “Caterina Benincasa”, in via Baroncelli a Siena.
Nel giugno-luglio 1928 esce sulla
rivista “La Diana ”
l’articolo di Aldo Lusini che illustra la vita e l’opera della poetessa,
articolo accompagnato dalla pubblicazione di sette poesie. Dina ne è commossa e
fiera. L’anno successivo Dina termina positivamente il ciclo inferiore delle
scuole Magistrali riuscendo a superare in tre anni i quattro previsti. Mentre
si appresta ad iniziare il ciclo triennale superiore delle Magistrali si
ammala, apparentemente a seguito di una epidemia influenzale che all’inizio
dell’autunno 1929 imperversa nel Comune di Chiusdino. Dopo alcuni mesi di
miglioramenti e ricadute, il 5 dicembre, si alletta e la febbre non
l’abbandonerà più. Vista vana ogni cura, il 14 febbraio 1930, viene ricoverata all’ospedale
di Siena, ma anche nell’ospedale le sue condizioni permangono gravi.
Tardivamente i sanitari si rendono conto della natura del male: tubercolosi
intestinale con infezione del peritoneo. A metà giugno 1930 i medici decidono
un estremo quanto velleitario intervento chirurgico: il mattino del 18 giugno
Dina viene operata all’intestino. Muore pochi minuti dopo, nel suo letto n. 185
nella corsia delle donne povere. La diagnosi parla di peritonite causata da
tubercolosi intestinale. Il pomeriggio del giorno seguente, un giovedì luminoso
e caldo, viene sepolta nel cimitero della Misericordia di Siena. Il suo amico
Aldo Lusini tiene la commemorazione funebre davanti a pochi familiari, alla
maestra Giuseppina Cairola ed alle sue compagne delle magistrali.
In questa scarna biografia manca la
cronistoria dell’attività creatrice di Dina. Un dato piuttosto difficile da
trovare, avendo essa, più volte, rimescolato i propri scritti secondo un
progetto letterario e non cronologico, a noi ignoto. Il ritrovamento, nel 1998,
di due quaderni del diario giornaliero potrebbe fornirci utili elementi per una
più precisa datazione e ricomporre unitariamente quanto pubblicato sul
“Quaderno del nulla” edito nel 1931, testo che può essere ancora oggi
considerato fondamentale ed assai ricercato.
Adesso tenterò di tracciare il
percorso editoriale e umano, in sintesi, nel modo che è stato possibile ricostruire,
con molte lacune e incertezze.
Nel 1974 incontrai casualmente, a
Radicondoli, Amilcare, il fratello di Dina, ed egli mi accennò alla sorella
poetessa. Poco tempo dopo ebbi la possibilità di leggere i manoscritti ed il
materiale che egli custodiva gelosamente nella sua casa, in un piccolo salotto
ricco di memorie della sorella. Da allora il rapporto di amicizia con la
famiglia Ferri si è mantenuto saldo e affettuoso fino ad oggi,
E’ in particolare a Nunziatina Cheli,
moglie di Amilcare Ferri, ed alla loro figlia, Dina Ferri Borgianni, che si
deve l'amorevole conservazione degli scritti della poetessa (compresi i
quaderni scolastici autografi mostrati dalla maestra Giuseppina Cairola
all'Ispettore scolastico Barni), della sua intera biblioteca privata, della
prima edizione del “Quaderno del nulla” e di molti articoli di stampa che la
riguardavano. Conservazione che potrebbe consentire in futuro, almeno lo spero,
la stesura critica dell'opera letteraria di Dina.
Quando nel 1931 uscì, per l'editore
Fratelli Treves di Milano, il volume “Quaderno del nulla”, con un grande
successo di pubblico e di critica, che costituì un vero e proprio “caso
letterario nazionale”, la poetessa Dina Ferri era morta da circa un anno. Aveva
avuto in vita, nel giugno 1928, solo la grande gioia di vedere pubblicate alcune
delle sue poesie, scelte da Aldo Lusini dai suoi manoscritti, sulla prestigiosa
rivista senese “La Diana ”.
Adesso il “Quaderno del nulla” è quasi introvabile, così come gli articoli sui
giornali dell'epoca, in particolare quelli su “La Diana ” e sul “…
libro che parla di me e dove c’è la mia fotografia…”, cioè il brevissimo
accenno alla poetessa che Aldo Garsia pubblicò sull’ ”Arcilibro” del 1929. Nel
1933 uscirà a Boston (USA) la bellissima traduzione in inglese di “Quaderno del
nulla” a cura di Helen Josephine Robins ed Herriet Reid, per l'editore Bruce
Humphries, volume ormai raro.
Oltre ai brevi articoli sulla
cronaca senese di alcuni quotidiani (in occasione della morte di Dina e
dell'uscita del “Quaderno del nulla”), ci restano i tre articoli sul
settimanale della diocesi volterrana “L’Araldo”, pubblicati nel corso del 1940
(30 marzo, 13 e 27 aprile, senza firma, probabilmente dovuti alla penna di don
Rino Biondi), acuti per introspezione psicologica e per adesione sentimentale.
Nel 1974 uscì, a cura di un prete, don Martino Ceccuzzi
(Idilio Dell'Era), un’antologia poetica ed epistolare di Dina Ferri e nel 1977
fu pubblicata una mia poesia a lei dedicata. In quegli anni, una parente della
poetessa, Gelsia Moschini, mia vicina di casa, mi fornì le prime notizie
biografiche che mi spinsero a visitare i luoghi ove Dina nacque e visse i suoi
primi anni, e così, mettendo insieme i tasselli di una ricerca non facile, riuscii
finalmente a pubblicare, nel 1998, sulla rivista La Comunità di Pomarance, una
prima traccia biografica dal titolo “Dina Ferri: testimonianza umana di poesia
e dolore di una contadina romantica tra Anqua e Ciciano”, che tentava di
riparare al lunghissimo silenzio che ormai era calato sulla sua vicenda
letteraria e umana..
In occasione della commemorazione del
90° anniversario della nascita di Dina (1998), si tenne a Chiusdino un
importante convegno di studi organizzato dai comuni di Chiusdino e Radicondoli,
dalla Provincia di Siena e dall’Università di Siena, con l’obiettivo
fondamentale: far uscire definitivamente Dina dalla dimensione locale per
proiettarla almeno in quella regionale, se non nazionale, obiettivo, purtroppo,
non ancora raggiunto. L’anno seguente sarà Claudio Borgianni, pronipote della
poetessa, a tenere accesa la memoria di Dina con uno spettacolo magistrale di musica e recitazione eseguito a
Radicondoli.
In quello stesso anno, era uscito il
mio lavoro “Antologia lirica”, edito da Migliorini di Volterra, contenente poesie,
un saggio biografico ed un dramma liberamente ispirato alla vita ed alle opere
della poetessa, messo in scena per la prima volta per la regia di Cristina
Pavolini. Il dramma, “Dormirò sul ciglio del fossato”, introduce molte
invenzioni letterarie, ma non irrealistiche (colloquio con il padre sul monte
Le Cornate di Gerfalco; sparizione del Diario dell’Ospedale…), ed in esso
affiorano per la prima volta i risvolti politici della sua vita ed i suoi
rapporti coi mecenati Aldo Lusini e Piero Misciattelli e con il padre, Santi,
notevole figura di socialista antifascista.
In effetti ho collocato Dina in un progetto di rappresentazione della
violenza, quella del “plagio”. E’ attraverso Dina che il fascismo intendeva
additare all’intero popolo mezzadrile e delle campagne, l’azione redentrice del
Regime, capace di scoprire e innalzare alla gloria una sconosciuta pastora,
figlia di mezzadri toscani. E Dina pare, ad un certo momento, cadere nel
tranello fino a entrare in un dissidio profondo col babbo, tanto amato. Sarà
solo attraverso la meditazione nella sofferenza che ella comprenderà la vera
natura del male e della sopraffazione, forse ripudiando quell’infatuazione per
Mussolini che aveva manifestato. Certo aveva scritto nel suo famoso quaderno
dell’Ospedale qualcosa di sconvolgente se Lusini lo cercava disperatamente, non
solo quello che aveva sottratto obbligando la suora a consegnaglielo, ma con la
paura che ne esistesse altra copia, fino a richiederlo ansiosamente al padre
Santi. Ma di copie Dina non ne aveva potute fare!
Negli anni seguenti
hanno finalmente visto la luce: la ristampa anastatica del “Quaderno del nulla”
unitamente agli Atti del Convegno e pochi articoli, su riviste locali e
quotidiani regionali, soprattutto per merito di Claudio Borgianni e Luigi
Oliveto.
Alle
domande fondamentali che mi ero posto: Dina Ferri è la donna e l’artista che i suoi mecenati ci hanno consegnato? un’icona
perfetta e intoccabile nella sua staticità? oppure, ancora esistono di lei “lati
oscuri”, soprattutto in relazione ad una ipotizzabile “svolta ideologica” avvenuta
nella sofferenza e nella meditazione dei lunghi mesi del suo ricovero in ospedale,
dal quale uscirà cadavere? non ho potuto rispondere con certezza, ma solo
formulare qualche ipotesi.
Faccio notare che una incolmabile
perdita per la cultura è rappresentata dalla scomparsa del suo diario dell'ospedale,
scritto durante i lunghi quattro mesi di solitudine interiore. Custodito sotto
il guanciale e riposto sotto il materasso prima di entrare in sala operatoria
(con raccomandazione alla compagna di letto di consegnarlo al padre e al
fratello Amilcare che, partiti da Ciciano col postale, stavano arrivando), non
fu mai trovato. E' Amilcare a ricordare, rispondendo nel 1974 ad un
questionario degli alunni delle scuole di Chiusdino, a proposito dei quaderni
di Dina, che: “...un quaderno lo abbiamo
in casa, il primo, ma un altro, nel quale scriveva quando era ricoverata
nell'Ospedale di Siena, non lo abbiamo mai visto”.
Infatti, dopo l’inserzione
pubblicitaria su “La Diana ”
nel 1931, che annunciava l’uscita del “Quaderno del nulla” per l’editore Treves
e le “commemorazioni” post mortem di Dina Ferri nei Circoli culturali italiani,
svolte da Lusini, ritroveremo soltanto nel 1956, sul periodico “Il Campo di
Siena”, un breve articolo di Lusini in ricordo della giovane poetessa morta
vent’anni prima. E’ da tale articolo che veniamo a conoscenza che Aldo Lusini
era in possesso di una copia del “Quaderno del nulla”, “…il quaderno semplice e cerato di Dina Ferri, che il padre mi ha
recato…”, forse quello che, riassemblato, uscirà più tardi per i tipi dei Fratelli
Treves, dato che, la famiglia di Dina aveva ricevuto dall’Ospedale solo la
corrispondenza e mai una copia degli scritti e poesie che ella appuntava sul
diario dell’ospedale. Oppure Lusini cercava la copia del nuovo manoscritto,
quello ansiosamente richiesto al padre di Dina nella famosa lettera del 1930,
scritta pochi giorni dopo la morte della poetessa? Non lo sappiamo e nulla
sembra emergere dalle carte di Aldo Lusini, almeno da quelle pubbliche ed
accessibili. Possiamo soltanto mettere in evidenza la rapida “scomparsa” dalla
scena dei due mecenati di Dina, figure
di spicco del fascismo senese, Misciattelli, e Lusini, il primo morto a Roma
nel 1937 ed il secondo a Siena negli anni ’60.
E’ certo che Dina scrisse molto
durante i mesi di ricovero all’ospedale “Santa Maria della Scala” di Siena. Dai
contenuti delle lettere inviate ai familiari in questo periodo si può soltanto
immaginare quale valore potesse avere il “quaderno dell’ospedale”: un volo
ampio e sicuro nelle profondità dell'anima, le nude verità della vita in attesa
della morte, la presa di coscienza di fronte al fascismo vittorioso e la
comprensione per l’ideologia antifascista del padre, la nostalgia universale
del vagheggiato tempo perduto, la potenza dell'amore che liberatosi degli
impacci infantili si esprimeva alfine interamente.
Contrariamente a quanto lascerebbe
supporre una lettura superficiale dei suoi scritti, fondati su ripetuti
richiami al tema della morte e della malinconia (frutto di una formazione
culturale romantica post-crepuscolare e neo-pascoliana), Dina voleva vivere, amava la vita, ne sapeva
godere gli aspetti più consueti e modesti.
Le sue letture, come bene rappresenta il disegno del maestro Dino Petri, di
Massa Marittima, che illustra la copertina di questo volume, spaziavano dagli
autori classici greci e latini fino ai russi contemporanei, come Gorki. Cullava
in cuor suo, forse, il grande sogno di raggiungere le vette dell'arte, della
poesia, chi sa? resterà per sempre un segreto.
Una settimana prima della morte,
Dina scrive in una lettera: “...muore
l'estate come un gran giorno pieno di sole. Ingialliscono le foglie del
granturco e il sole non arde più. Ritorna l'autunno...io amo gli ardori della
canicola che imbianca le stoppie e ho paura dell'autunno, perché dietro di esso
c'è l'asprezza del rovaio. No, io non desidero l'autunno, perché non so cantare
lungo i filari, e non voglio udire il canto della vendemmia, perché la
malinconia di quel canto assopirà le campagne. E poi io non potrò raccogliere,
come il forte agricoltore, il frutto del dolce liquore, poiché nulla avrò
seminato o saranno morte le tenere viti...ma io non vedrò ingiallire le foglie
della vite come quelle del granturco. Quando l'ultimo raggio della canicola
sarà impallidito, io dormirò sul ciglio del fossato”.
E' presaga della morte e triste del
pensiero che seccheranno le tenere viti, i suoi fragili versi e diari, triste
per quel realismo contadino che poco valore riconosce al campo o all'animale
improduttivo, alla pecora soda. Nella sua immensa umiltà non riesce a cogliere
il valore del segno che lascia.
Nell'aprile sente i dottori
parlottare tra di loro e carpisce la parola peritonite, che in quegli anni
stava a significare malattia incurabile e mortale. Dina scrive ai genitori: “…ora il male ha vinto. Le cure che mi
vengono prodigate potranno allungare la mia malattia e certo anche un po' la
sofferenza; ma quella è cosa più trascurabile. Quando il dolore è passato,
diceva Socrate, si prova il gran piacere di non soffrir più. Socrate, però, era
il più gran filosofo della colta Atene e poteva dire queste cose ai suoi
scolari poche ore prima di bere la cicuta. Per guardare verso di lui bisogna
troppo sollevarsi, però, ed io sono tanto piccola...farò il possibile per
mantenermi calma. Ne ho il dovere perché voi lavorate e soffrite per me. E'
appunto il vostro affetto che mi guida e mi sorregge. Ormai ogni altro
desiderio è svanito, ogni volontà si è piegata come un giunco, e ciò che prima
era lo scopo della mia vita è lontano ed estraneo da me. Qui, dove la morte
alita il suo gelido respiro, non sento più, come costà, la ribellione della mia
giovinezza e non penso più ai peschi in fiore di primavera. Prima non mi
saziavo di sole e di canzoni; ora mi basta quel raggio che mi tocca la coperta
e mi contento del cinguettio di pochi passeri al mattino...sento di staccarmi a
poco a poco da voi. Quante tempeste sono passate su di me! Fino a ieri ho
resistito, ma ora, caro babbo, la strada è ancora lunga e ripida, mentre io
sono stanca e debole...Davvero, quante speranze, quanti sogni accarezzati nella
stanchezza del sonno, dopo ore e ore di lungo lavoro, sono svaniti nel giro di
brevi pochi mesi! Meglio per me e per tutti non avessi desiderato mai cambiare
la mia posizione! Infatti, se fossi sempre rimasta vicino a voi e avessi
lavorato come da bimba costà, potrei dire di avere impiegato il mio tempo con
resultato; così invece no. Ho saputo solo sognare di rendervi un giorno
contenti, ma non avevo mai pensato che i miei giorni fossero tanto pochi! E'
proprio vero, come dice un verso di cui ignoro l'autore, che "con
vent'anni in cuore/sembra follia la morte,/ e pur si muore”.
E ancora: “...curate ora e sempre i miei libri; anche se io non li adoprerò più,
desidero che siano conservati e bene. Essi sono tutto per me: la gioia semplice
della mia fanciullezza e la speranza della mia gioventù. Tante cose mi avevano
rivelato in silenzio, e io imparavo ad amare e godere le cose belle e buone. Erano
i miei fidi amici e non ciarlieri, e sola con essi vivevo per ore e ore in un
mondo tutto spirituale, pieno di sentimenti e di affetti più belli e più puri”.
Infine
prende il sopravvento lo sconforto e Dina scrive parole di intensa amarezza: “...Quanto è stato fatto per me! Invece io
non ho fatto nulla per nessuno. E allora, cosa è stata la mia vita? Nessuna
utilità è venuta da me, e quindi io sono vissuta per il sacrificio altrui. Però
è triste guardare nel passato e accorgerci che nessuna cosa buona rimane di
noi. E allora perché siamo vissuti? Senza scopo. Ma la colpa è nostra perché la
natura dà ad ogni essere, per basso che sia, la sua missione. Esso sa che il
tempo è breve, deve affrettarsi a ricercarla e compierla con sentimento e
coscienza. Ma a che parlare di ciò?. La mia vita fino ad oggi? E' un libro di
quattro pagine, - scrive Dina - un libro davvero breve, anzi un quaderno
spoglio, semplice, passeggero: Quaderno del nulla!
Là
sono i sogni e gli interrogativi, le incessanti domande, sull'umile vita
dell'uomo, sul ciclo immortale della natura che si rinnova e sulla profondità
dell'universo infinito. La piccola anima pare smarrirsi, non trovare risposte
adeguate, se non proprio sulla soglia della morte, nell'ardente preghiera,
unico profondo moto di fede che sgorga, quasi inaspettato, dalla sua anima,
vero e proprio testamento spirituale quando traccia il cammino percorso sulla
piccola via della sua vita, non temendo, pur avendo peccato, di essere perdonata:
“Dio...dammi
forza per portare la mia croce e gioia nel soffrire. Sostiemmi se vacillo e
rialzami se cado. Disseta nell'agonia lo spirito assetato con una goccia del
sangue Tuo e fammi morire con Te...rafforza di zelo la mia debolezza...chiamami
se ho sperato nella vita che mi segnasti e attendimi...non disdegnare, mio Dio,
i pochi frutti che nel viaggio raccolsi per Te e accogli i pochi fiori esili e
appassiti che son giunti fin qui...il cammino fu lungo, Signore, pieno di sassi
e di spine. Mi riposai all'ombra nel meriggio infuocato, ma il sole mi colpì;
mi rifugiai nelle spelonche quando infuriò la bufera, ma il vento mi
schiaffeggiò. Ora son giunta, Signore, e busso alla Tua porta. Essa si aprirà
perché Tu l'hai promesso, né colpo di bufera, né ardore di sole mai più mi
colpirà”.
E’ in questa preghiera che il
vecchio padre ravvisava l'amarezza della delusione di Dina verso il fascismo
che l'aveva abbagliata e inebriata. Santi non si dava pace a vedere la figlia
entusiasmarsi per un partito e un uomo, Mussolini, che aveva affermato “valgono
più quattro manganellatori che la filosofia di Benedetto Croce!” Anche lui, del
resto, più volte candidato per il partito socialista alle elezioni
amministrative nei comuni di Radicondoli e Chiusdino, aveva subito il livore e
l'odio degli ambienti reazionari.
Ed è forse da questa crisi che sgorga la sua
ardente preghiera; tuttavia ci mancano troppi elementi autobiografici per
poterlo affermare con assoluta certezza. Come ben sappiamo la fine degli anni
'20 segna l'inizio del consenso di massa al Regime fascista e non furono molti
coloro che seppero opporvisi. Lusini e Misciattelli (i mecenati della
poetessa), erano notevoli personalità del fascismo senese, l'ambiente di studio
era permeato, alle scuole elementari, dalla retorica patriottica, e alle
superiori dall'euforia del Patto di Conciliazione tra la Chiesa e Mussolini. Una
pesante cappa di piombo soffocava l'intero Paese: Dina, quasi reclusa nel triste
collegio di S. Caterina (in tre anni, solo due o tre volte uscirà in città),
non poteva certamente godere della condizione mentale dell'imparzialità di
giudizio, se mai la sua giovane età l'avesse consentito. Le parole del padre,
sommesse e timorose, anche rispettose di fronte alla crescita culturale della
figlia, se furono pronunciate, non provocarono clamorose reazioni.
L'amore profondo per la famiglia,
che Dina racchiudeva timido dentro se stessa, si coglie nell'ultimo addio al
caro babbo, agli amati genitori due giorni prima della sua morte: “Addio. Qui tutte dormono. Solo dalle sale
più lontane giungono dei gemiti. Voci deboli di bimbi e voci forti di uomini.
Io penso a voi; il letto mi sembra di pietra perché ho le ossa indolenzite
dalla febbre. Se ci fosse la mamma a farmi i massaggi come costà! Ricordate di
portarmi i fiordalisi”.
Il 18 giugno 1930 Dina Ferri muore, dopo una inutile e tardiva operazione
chirurgica. La voce del “povero rosignolo”
tacerà per sempre e il suo resterà “un
incompiuto canto”, il canto della giovinezza, si, ma solo della giovinezza,
non della vita, quella vita fugacemente intravista all’alba dei suoi 22 anni.
Fu sepolta nel cimitero della
Misericordia a Siena e sulla pietra tombale, finemente scolpita, venne incisa
una brevissima frase latina, riecheggiante un verso della poesia che aveva
composto in quinta elementare per la morte della cuginetta Leontina, versi che
sembrano scritti per se stessa:
E' spenta la querula voce
e c'è questa povera croce.
Adesso la lapide è collocata sul
muro della cappella della famiglia Ferri, che accoglie i suoi resti mortali,
nel camposanto di Chiusdino.
14
maggio 2015, Radicondoli.
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