martedì 15 aprile 2014

Siena, d'aprile.

Lo stupore del melo selvatico nato sull'aia di un antico podere, quando si trebbiava il grano battendolo sull'ammattonato (circa 1880), nel suo manto fiorito, e il piccolo e solitario ranuncolo che proprio in una fenditura dei mattoni è sbocciato. Due simboli, non troppo misteriosi, del tempo pasquale. Ed a una Pasqua lontana, della mia inquieta giovinezza, dedico un canto dell'età fiorita: 

Pasqua [

C’erano la stessa aria densa e calda di primavera,
la pigrizia del mattino e i petali perlacei dei ciliegi
che cadevano lenti nel piccolo giardino;

c’erano, ed ora non più, le note della fisarmonica
ammiccanti e tenere, i sorrisi delle donne nelle piccole
stanze di legno, odoranti d’antico;

c’erano gli occhi innocenti e civettuoli delle acerbe
compagne di scuola, nel vicinato raccolto, nell’intreccio
di voci amiche;

c’era nel petto un sommovimento profondo,
un tendere indefinito all’orizzonte
ancora  bianco di neve, un’ansia sconosciuta
nel primo risveglio d’amore, e l’attesa di lei;

lei, la grazia sempre nuova, leggera, liquefatti smeraldi
tra pagliuzze d’oro, frutti acerbi ammiccanti in vaporosi
ricami, melodia delle sciolte campane nell’incedere flessuoso.

Altro non c’era, per me, in quel santo giorno,
in quella resurrezione misteriosa che mi lasciava sbigottito.





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