RAINER MARIA RILKE.
I sonetti a Orfeo.
2, XXVII.
L’infanzia, così
profonda, e promettente,
diviene – poi – nelle
radici muta?
Ah, lo spettro
dell’effimero
attraversa come fosse
un fumo
chi in sé l’accoglie
ingenuamente.
Questo noi siamo, come
chi vaga trascinato,
e solo questo noi
contiamo, di presso
delle forze
permanenti, come divino uso.
Ieri, sulle mura di Grosseto,
dopo aver visto partire l’amica Simone dalla stazione ferroviaria di Follonica,
ed aver gustato un delizioso yogurt-gelato, sono salito sulle mura della città ed ho aperto a caso il libro di R.M. Rilke “I sonetti a Orfeo”,
ed. Classici Feltrinelli, traduzione di Franco Rella, 1991, soffermandomi sul
sonetto XXVII, della seconda parte, e, di seguito sugli ultimi due. Come
sappiamo, i critici hanno sentenziato che quest’opera, scritta da Rilke in tre
settimane, nel febbraio 1922
in Svizzera, a Muzod, in quel brevissimo “innominato
turbine” creativo, è forse l’opera più alta, più misteriosa, più complessa e
problematica di tutta la letteratura del ‘900. Sull’ultima di copertina, nella
breve scheda critica, si leggono le parole scritte da Marina Cvetaeva a Rilke:
“Cosa può fare ancora, dopo di Voi, un poeta? Un maestro (Goethe, ad esempio)
lo si può superare, ma superare Voi – significa (significherebbe) oltrepassare la Poesia ”. Naturalmente ho
pensato “alla mia poesia” ed alla sua effimera essenza, che mi invita al
silenzio. Ma non ascolto l’ammonimento. Continuo a dare essenza a quelle
misteriose parole, fumo che sgorga ingenuamente spontaneo dalla mia anima, e
dai suoi ricordi profondi, memoria non solo di me, ma di un luogo e un tempo
irripetibili, per placare un’ansia interna e, allo stesso tempo, costruire
ponti sospesi sul vuoto, sul cammino che ci condurrà all’ultima verità.
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