sabato 20 ottobre 2012


“Bendonde”.

Ieri mattina ho portato la mia gatta “Cirilla”, nata  marzo 1999, ad una visita medica dalla sua dottoressa a Saline di Volterra. Quando sono arrivato c’era soltanto un cliente con il cane, già dentro. Dopo di me è arrivato un uomo con un gatto anziano. Si pensava di far presto, ma in realtà l’uomo con il cane ne aveva molti, tutti da vaccinare, dato che ormai siamo prossimi all’apertura della caccia al cinghiale, fissata al 1 novembre. Io e l’uomo del gatto anziano abbiamo cominciato la solita conversazione tipica delle sale d’aspetto…dapprima sui nostri gatti, poi sulla bella stagione che quest’anno sembra non aver fine, infine dei nostri paesi, io Castelnuovo e lui Volterra, e, in rapida successione dei cambiamenti avvenuti negli ultimi decenni, del nostro antico lavoro, per approdare ai tipi caratteristici che oggi non esistono più o sono in rapida estinzione. A questo proposito m’ha raccontato di aver conosciuto un vecchio alabastraio che aveva bottega vicino a Porta San Francesco, un certo “Bendonde” (a Volterra tutti avevano un soprannome”), la cui caratteristica era quella di pronunciare sentenze brevissime e acutissime, alcune delle quali passate alla “storia”. Dunque, la storia è stata pressappoco questa: “…nella chiesa di San Francesco, quella della famosa Cappella della Santa Croce, c’è una Madonna veneratissima dal popolo volterrano, la Madonna di San Sebastiano, opera di un pittore locale del Quattrocento, che una volta all’anno veniva portata in città con una importante processione. Due pie donne del Comitato dei festeggiamenti erano incaricate di far questua tra tutte le famiglie e gli artigiani che avevano bottega nel rione di San Felice, nei pressi della chiesa di San Francesco. Giunte alla bottega di “Bendonde”, al secolo Revo Michelotti,  le due signore gli chiesero l’offerta al che, l’interessato, facendo finta di non sapere, chiese il motivo della richiesta. “Fra poco è la festa della Madonna di San Sebastiano e dobbiamo portarla fuori…in processione…” “Bendonde”, come quasi tutti gli alabastri era molto laico, se non anarchico, ed anche questa volta espresse il detto fulmineo: “Care signore, io quando so’ diaccio…sto a casa!” E detto ciò rientrò in bottega lasciandole con un palmo di naso! Anche da noi, quando siamo rimasti proprio al verde, senza un quattrino, si dice “Siamo diacci”, cioè non possiamo nemmeno uscire di casa a prendere un caffè…
La sera medesima, ho preso un libro per leggere qualche pagina prima di addormentarmi, uno uscito alla fine del 2011, contenente storie, storielle e storiacce di Volterra, raccolte da Paolo Ferrini, mio carissimo amico morto qualche mese fa, uomo di grande cultura e di specchiata onestà, molto famoso non solo nella sua città, ma in ben più vasti ambienti culturali toscani e italiani, che prima di morire  ricopriva la carica di “Consolo” (ossia Presidente) della ultracentenaria istituzione volterrana “Accademia dei Sepolti”. Ebbene a pagina 43 cosa ho trovato?  Un breve ritratto di “Bendonde” e del suo famoso detto! Una curiosa coincidenza, essere stato per decenni all’oscuro di questo personaggio e aneddoto, e, improvvisamente, nello stesso giorno ascoltarne il racconto dalla viva voce di un suo concittadino e leggere poi l’episodio sulle pagine di un libro, scritto da un amico.

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