martedì 21 febbraio 2012


Con le mani ricolme di fragili sogni…[i]

In un giorno gravido di pioggia e di sottile malinconia, la prima per disposizione del cielo, la seconda per le personali considerazioni sulle vicende degli uomini, la voce dell’amico Piero, che non udivo più da molte stagioni, ma che non avevo dimenticato, mi ha riportato indietro in un tempo più luminoso e pieno di passioni. Un tempo di lotte e di ideali, di slanci solidaristici e di laboriosa creatività. La politica si viveva ancora dentro le “sezioni”, negli incontri tra uomini e donne, le idee maturavano e prendevano corpo nelle nostre menti e nei nostri cuori senza il plagio totale dei mass media. Sono passati quasi trent’anni! Anche la poesia illuminava quei giorni dorati, si faceva arma e scudo contro la banalità e la trivialità, contro la violenza. Talvolta, facendosi essa stessa violenza, era la violenza dell’amore e non dell’odio. Già allora scrivevo poesie. Son tutte più o meno inedite e per un tempo lunghissimo esse si sono accumulate nel mio cuore con lieve peso, come di polvere impalpabile e antica. Non so cosa ne farò, alla fine. Chi scrive di poesia e non è narcisista, e chi persevera così a lungo, fino a trasformare questo esercizio in una “ragione di vita”, è senz’altro meritevole di attenzione: un’attenzione come accade di provare imbattendoci in un albero grande che innumerevoli “tagli del bosco” hanno risparmiato nella selva lussureggiante, ma, ahimè, novella! E questo è anche il limite, la reticenza, dello svelarmi. Tutto o niente? Ma non è anche paura, paura degli altri? Così, vincendo la “timidezza dei vinti”, ho promesso a Piero di preparare una breve raccolta di liriche scritte sulla fine degli anni ’80, con al centro il rapporto con la fabbrica, il luogo di lavoro. Ma rimuginandoci sopra mi sono fatto tentare da qualcosa di diverso, forse più banale, anche se più intimo e visionario: una specie di sinfonia per suoni sostitutivi di immagini, le immagini di una infanzia e dell’incontro di un fanciullo con la Poesia stessa. Dunque, benevoli lettori, accogliete con delicata premura questo frutto tardivo e amatelo, prima che l’inverno geli la vigna e gli alberi. E il suo zucchero, se ancora ne avrà, ci renda meno amari i tempi grigi in cui viviamo e nei quali pare che tutto si trasformi in calcoli meschini di potere e di effimera gloria.

La vita è un grande mistero.
Forse è un sogno di alieni lontani
forse siam fatti dal nostro Dio
come balocchi fragili e vani;
forse siam pezzi sulla scacchiera
nella partita tra Bene e Male, pedoni
da sacrificare alla lotta infinita.

La morte è un grande mistero.
Forse è il ritorno definitivo alla terra
onde nascemmo impuri, noi che non abbiam
volato oltre il tempo e lo spazio
che ci serra; forse morire è come
aprire una porta invisibile sul paradiso:
l’amore, la gioia, la bontà, il sorriso
dei quali il cuore umano fu
troppo presto sazio, là ancora
                               son dono.

La vita, la morte, sono un grande mistero.
Ed io mi chiedo:
                               chi sono?

Qui ci dovrebbero essere due visi,
malasorte presto li ha divisi,
il babbo, la mamma, il rancore,
gli errori e il rimpianto, oggi
come primi memorabili amori        
                li avrei voluti accanto.

Qui c’è il tepore di un seno
che m’ha nutrito soffrendo:
latte e angoscia mi sono entrati
nel cuore da una giovinezza
acerba e senza desiderio.

Item, nessuno mi ha detto
com’era il giorno nel vicolo,
le solite storie: l’andare, il
tornare, l’aspettare per nuovi
dardi velenosi in carni
indifese scagliare. In un angolo
buio due occhi di cucciolo
hanno pianto.

Item, l’albero gramo ha dato il
nuovo frutto. Frutto di una pace
ingannevole?
frutto di una speranza durevole?
frutto d’amore o d’errore?
Io avrò baciato a lungo
il tenero viso. Ma non ricordo
un sorriso.

Item, l’oblio. Non suoni, non voci,
non immagini, né lettere ingiallite
di segreti diari…

Non conosco né il bene, né il male.

Non conosco né il male, né il bene,
non ricordo né gioie, né pene.

Flash back:
la fonte nel fosso cupo,
le capanne di pietre bianche
                               e taglienti,
nella magra pastura,
l’agnello smarrito e il mito
del serpente e del lupo,
del filtro e dell’anello,
dell’eternità e della morte,
del coraggio e della paura:
e la mamma giovane e forte,
coi neri capelli al vento marino
odoroso di sale
e di biancospino fiorito.

In questo tempo breve e mite,
il tempo dell’innocenza perduta,
ho consumato i miei sogni
con la speranza di una nuova vita.

Item, la fuga senza ritorno.
Oh! Vicoli ventosi, ripide scalinate,
comignoli, odori, sapori diversi di
frutti e castagne. Oh! nonni amorevoli,
burberi e buoni, romantici
                e misteriosi!

Sotto archi di pietra,
nelle pigre correnti di
luci e smeraldo, laggiù
nell’incenso bruciato
di malinconiche stelle,
ho cercato il tuo volto
                 a lungo sognato.

Item, la strada gelata e un bambino
che vola alla tiepida casa,
                               alla fiaba,
al suono della fisarmonica antica
                               e lucente
di madreperla screziata,
che colma il crepuscolo di
romantiche attese.
                              
Item, il magico tempo, l’età dove tutto
si scopre e si avvera. Ieri mi
accarezzavi la testa arruffata
e già non ci sei più.
                               Breve
il dolore: la vita è più forte.
L’amore vince la morte.
Il clarinetto suona nella sera
                               viola.

Ma parole, carezze, baci, amplessi
furtivi, sogni, speranze, sguardi
languidi e vivi, penetrano
nei muri antichi: l’anima
sboccia e matura senza timore.

Item, monello tra i monelli,
nella lotta e nella corsa
invincibile, nel gioco, nella guerra,
nei sogni e nella dolcezza,
nel pianto e nella tristezza,
quel piccolo bacio rubato
e i denti e il nome
e l’oro dei lunghi capelli
ho chiuso nella bara di vetro
dell’intricato roseto
e la chiave l’ho gettata
                               al vento

Uno era amore di bambini,
uno era amore
possente e segreto. Entrambi
troppo veri per affrontare le
insidie del tempo hanno suonato
veloci il corno dell’addio.

Forse mio padre ha ritrovato
i suoi occhi,
ora che sono insieme
al cospetto di Dio.

Le fanciulle già vecchie
e dimesse, le donne
con volto di strega,
chiuse in scialli
                               neri e radi,
chiedevano furtive,
con lampi di malizia
dentro gli occhi cattivi:
chi sei?

Chi sei?

Allora son fuggito senza parole
e una barriera di indifferenza
                               e odio
ho alzato intorno all’anima
                               smarrita
fragile e indifesa per cavalcare
sull’aspro sentiero
                               della vita.

Forse è stato il gelo che avevo dentro
invisibile e immenso
a far sbocciare il canto:
io lo sentivo questo dono
sempre inatteso e dolce
accarezzarmi con mani ancestrali.

Una presenza buona era in me
nuova, e alla tremenda prova
umile ho lanciato esili appigli,
senza far resistenza.

Carezza del vento acceso
di porpora, carezza di pianto,
 carezza e certezza
di esistere solitario,
come il pruno, come il pero
triste e nano nell’orto
serrato, che sboccia foglie
d’un tenero verde,
da un unico ramo.

Là dunque sono le radici
se proprio vuoi saperlo!
Ma quando le avrai trovate
ancora non conoscerai il frutto.

Sognerai di godere il sapore
della gioia e del dolore,
un sapore che uguale
                al mondo non c’è
perché il mondo, questo
piccolo che è il nostro
non lo può contenere.

All’aura erano i bei capelli
                               sparsi,
e la bocca le baciai
tutta tremante!
E quel bacio limpido e lieve

noi
    soli
        nel vicolo
                  a sfidare il fato
                                          immortali
                                                               ci rese,
 e non lo sapevamo!

La vita, la morte, lo spazio
e il tempo infinito che a spire
e spire siderali avvolge la notte
stellata, dove i ricordi
rivivono in una luce smagata,
dove ogni sesso
si dona come un fiore
e s’apre tremulo di speranza
non tradita,
dove il sorriso chiaro,
sempre si rinnova
                               negli occhi
tuoi ridenti e fuggitivi,
e casto e forte è l’amplesso
                               degli amanti
stretti al dolce nido
senza paura che il sangue
si scolori in odio:

amore,

l’amor che nella mente mi ragiona,
l’amor che tutto
                               illumina e perdona.

Là dunque ti attenderò,
là dunque ci incontreremo,
viandanti smarriti
sui sentieri del kaos,
con le mani
ricolme di fragili sogni.



[i] Flos Solis Maior, 1993-2003, in “Il Sillabario” – "La Comunità di Pomarance", pp. XV-XVII, 1994.

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