GRAZIE SAMUELE!
Mercoledì 12 dicembre 2018, sono andato a Siena a salutare un
amico artista, un grafico, Samuele Calosi, che ha uno studiolo-expo in Via
della Sapienza, 17. Un poeta che utilizza l’inchiostro di china per il suo “puntinato” ottenuto per mezzo di
penne rapidograph con punte di 0,1 e 0,2. Le forme prendono corpo per effetto
del chiaroscuro. Scene e figure della vita contadina, dal medioevo a quella
delle campagne senesi di appena mezzo
secolo fa, delle quali ha un ricordo diretto dai racconti dei nonni. Mi è
piaciuto il suo lavoro, mi emozionano le sue opere, mi stupisce, nel mondo di
oggi, la sua umiltà ed anche il suo progetto rappresentativo: dare vita e
dignità hai fittavoli e mezzadri, ai loro armenti, agli strumenti dimenticati,
rozzi e arcaici, come il loro dolore. Condivido infine l’anelito, io stesso che
sono poeta, di gettare un fascio di luce a dissipare la dimenticanza,
riportando sul proscenio della storia i nostri antenati. Di questi ultimi mesi
Samuele mi mostra alcune opere, due delle quali ritengo emozionanti: due
maternità, una quella di Gesù, nella sua cruda bellezza senza orpelli, l’altra
quella di una pecora nera che allatta l’agnellino bianco. Parlano più di un
libro di diecimila parole! Grazie Samuele. E grazie per la tua capacità di
ascoltare un vecchio che parla di inaridimento della sua creatività. Mi hai
fatto riflettere a lungo sul tema della solitudine, ossia dell’esaurirsi della
creatività. Riesco tuttavia a non cadere nella tetra malinconia
ripercorrendo la selva di anni che mi
son lasciato alle spalle, ritrovando i sogni, gli amori, le passioni, le
speranze e i dolori della vita, com’è nella realtà della “condizione umana”.
Ripercorro con stupore il mio “canzoniere” che m’accompagna dall’età
adolescenziale, anch’esso testimone del tempo, se non altro, ed anche delle sue
premonizioni che ho cercato di trascrivere
nella poesia “Le tre altezze”, in “Ritratto” ed anche, nel 2007, nei 5
testi incisi su un CD con immagini e musica che guardano al cielo stellato, alle
comete ed alle eclissi, con la speranza del congiungimento impossibile tra
Venere e Giove! Forse, come ebbe a dire Pablo Neruda, anch’io potrò affermare: “Confesso
che ho vissuto!”
Le tre altezze
Non si
tratta dei grandi sovrani
che ne hanno
combinate di crude e di cotte,
e sul
loro sole, che non doveva mai
tramontare,
nulla da
fare, è calata la notte.
Si tratta,
molto banalmente, di una fisica legge
che ho
scoperto, meditando sui destini umani.
Nell’infanzia
i miei sguardi scrutavano
la terra,
sempre bassi per timidezza e paura
di dover
rivelare il segreto che mi affliggeva;
con la
tumultuosa giovinezza,
e la
rivoluzione del testosterone,
la molecola
dell’amore, gli occhi hanno mirato
il piano
orizzontale delle ragazze, per rubare
la
meravigliosa fioritura della loro bellezza;
ed ora, al
declinar della vita,
gli occhi
hanno scoperto il cielo
e il suo
mistero, il desiderio
della
Suprema Altezza,
la più amara
e ambita.
Ritratto [i]
per
Antonio Machado
Ho succhiato
il latte materno con la Cenerentola di Rossini
e appena
svezzato ho masticato il fiele dell’abbandono;
sono fiorito
nella solitudine di una tumultuosa primavera,
tra i paleri
e le ginepraie, mirando nel cielo
il volo del
falco sulle pasture, ascoltando il belar degli agnelli
e il frinir
delle cicale; vicende che non voglio evocare.
Poco più che
bambino son fuggito verso nuovi lidi,
misteriosi
approdi con il tepore di nidi, in cerca
d’amore.
Son
cresciuto troppo presto, nel male e nel bene, un segreto
ho celato
nel cuore d’Arlecchino. Brevi studi non m’hanno
dissetato,
da solo ho scoperto d’esser poeta e delle parole
innamorato,
del pruno e ginestra, biscia e sorgente, mago
e cerbiatto,
dimesso cantore. Una fabbrica m’ha inghiottito
mentre
ancora vestivo i pantaloni corti, le scarpe chiodate,
il cappotto
del nonno morto rivoltato con cura,
e là s’è
acquietata la mia pena, tra gli uomini azzurri
e le rosse
bandiere: con loro ho sfidato l’ansia primigenia
e la paura
di restar solo. Ho amato instancabilmente, e riamato
ho goduto
d’inimmaginata fortuna, sempre la bellezza
ho avuto a
lato e la dolcezza dei baci riassaporo,
ora che
vecchio, delle voci ne ascolto solo una, quella
profonda che
m’appartiene. E’ la voce del canto che
non m’ha
tradito; disgiunta da me stesso e dai
miei
errori
vorrei affidarla pura ai miei bambini. Loro ancora
mi vedono
bello come un dio, e sapiente, ardimentoso,
spada
excalibur e scudo, buffone e invincibile
cavalcare il
tempo, immortale e antidoto d’ogni male.
Verrà il dì
dell’ultimo viaggio - non conosco il come e il quando -
ma non
tarderà, e me ne andrò come tutti,
senza valige
e fagotti, lasciando un’invisibile scia di sogni.
[i]
La poesia si ispira ai celebri versi di Antonio Machado (Siviglia, 26 luglio
1875 – Colliure (FR), 22 febbraio 1939), canto XCVII di Campos de Castilla.
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