Giovenale,
Decimo Giunio (Aquino, 50/65 – 140 ca. d.C).
Poeta latino.
Si hanno notizie molto incerte sulla sua vita. Forse
esercitò l’avvocatura e si dedicò alle declamazioni, allora molto di moda. Si
dice, ma le notizie sono poco attendibili, che sia morto in Egitto. La sua
opera giunta fino a noi è formata da 16
satire (l’ultima è incompleta), divise in 5 libri, databili tra il 100
ed il 130, quindi scritte o pubblicate in una età matura., quando nell’Impero
Romano erano palpabili la rilassatezza e la dissolutezza delle classi
dominanti, anticamera della crisi che più tardi lo avrebbe travolto. Giovenale
avvertiva profondamente che il suo tempo non era quello “di una straordinaria
felicità dei tempi”, anzi, percepiva la fine degli antichi ideali etici romani.
La società gli appariva perversa, viziosa,
drammaticamente cruda, se non brutale ed egli ne denunciò tutti gli eccessi, senza
illudersi che la denuncia, seppur violenta e trasgressiva, potesse contribuire
ad un risarcimento morale. Cantò le
perversioni del costume: la vacuità della letteratura alla moda; l’abiezione sessuale; la goffa stupidità della classe politica sotto Domiziano; le
umilianti cene dei clienti; le miserie dei letterati costretti a prostituirsi o
a restare affamati; l’indegnità dei nobili. Celebre per la sua tormentata e
appassionata violenza è la lunga invettiva contro la libertà di costumi delle
donne (satira VI). Il canto di Giovenale è cupo, senza speranza, preveggente anticipatore
della “crisi”. Molti dei suoi esametri son divenuti proverbiali. Leggerlo,
alternando le Vite parallele di Plutarco, riequilibra la visione “eroica” della
romanità, precorrendo altresì, in molte parti, la decadenza etica e la
violenza del nostro tempo. L’introduzione e la versione di Guido Ceronetti, per
I Millenni Einaudi, 1971, sono esemplari, graffianti e straordinariamente
attuali.
Del Libro V, Satira XV, mi hanno
colpito questi esametri:
La natura, al genere umano, ha
dato
Le lacrime. Il più alto bene
In noi, è l’infinita tenerezza.
Naturae imperio gemimus, cun funus
adultae
virginis occorri vel terra
clauditur infans
et minore igne rogi.
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