QUALCOSA BOLLE IN PENTOLA
Qualcosa bolle
in pentola!
Più che della
“pentola” ho un ricordo lontano del “paiolo” di rame sempre attaccato alla
catena del camino, perennemente in bollore, estate ed inverno, perché nel ciclo
delle stagioni c’era sempre qualcosa da cuocere, ad esempio il latte, le
barbabietole, le castagne, le patate, la polenta…o la carne di pecora e di
maiale… In questo ricordo lontano mi vedo, insieme ad un gruppetto di mocciosi
coetanei, quattro o cinque, tra i quali mia sorella e mia zia, quest’ultima più
grande di me di solo un anno, una volta che dal paiolo tutta la ricotta era
stata estratta e non ci restava che un siero torbido, armati di mestoli pescare
fino all’ultimo residuo solido di cosa restava della bollitura del latte in un liquido
detto “scotta”. Anche la “scotta” si serbava, sia per mescolarla con un po’ di semola
per i maiali, sia per sorseggiarla noi,
moderatamente, dato che
“scioglieva il corpo”.
Ma, credo, che
questi ricordi lontani non interessino a nessuno, troppi anni sono passati da
allora!. Se la pentola o il paiolo si equiparano alla “vita”, che c’è di nuovo,
oggi, che, a fuoco morto o vivo, non si agiti, gorgogli, mandi nell’aria
segnali di vapore ecc. ecc.? Cosa bolle e cuoce in pentola? E’ una domanda solo
apparentemente banale, alla quale confesso di non saper rispondere. Sono “vivo”
(cogito, ergo sum!), quindi il fuoco è acceso e la pentola, con l’acqua che ci
rimane, sta bollendo. Ma cosa ci sia nell’acqua, prodotti vegetali, o
incantesimi e sogni, oppure sostanze commestibili…non lo so’. Non ho parlato di
attese e speranze, che ribollono nella giovinezza. E nemmeno di tristezze,
malattie, solitudini, dell’estrema vecchiezza. Il filo invisibile che lega al
mio numerosi sparsi destini, benché non strappato, non è in tensione, ma
potrebbe tendersi all’improvviso per un volontario o involontario moto. Ed
allora ecco che la pentola delle Parche riprenderebbe vivacità.
Posso dirvi, abusando della
vostra pazienza, la novella della bella Rosina (che nel pentolone ci trovò
l’amore).
Quando i polli ebbero i denti
e la neve cadde nera
(bimbi state bene attenti)
cera allora, c’era…c’era…
…nei tempi passati, un pover’uomo
che rimase vedovo con una bambina di nome Rosina. Per campare e accudire alla
bambina fu costretto a riprendere moglie dalla quale ebbe una seconda figlia,
che fu chiamata, impropriamente, Assunta. Ma dopo poco anche lui morì per il
troppo lavoro e per le cattiverie della nuova moglie. Le bambine crescevano
insieme, ma mentre Rosina era bella, solare e garbata, Assunta era brutta, nera
come un tizzo di carbone e maleducata.
Assunta si struggeva d’invidia vedendo la grazia e la bellezza di Rosina
e non voleva più andare al villaggio insieme a lei. La matrigna, che vedeva la
figlia intristire per la gelosia, pensò di mandare Rosina a pascolare le vacche
sulle remote pasture della montagna. Mentre le parava doveva filare cento
rocche di canapa, e se la sera fosse ritornata senza canapa filata e con le
vacche affamate l’avrebbe picchiata tanto da farla diventare, picchia oggi e
picchia domani, più brutta di Assunta. Lassù alla malga Rosina disse alle
vacche: “Vaccherelle mie, come farò a segarvi l’erba e a governarvi se ho da
filare cento rocche di canapa?” Allora la più vecchia delle vacche così le
parlò: “Non sgomentarti Rosina, tu falcia il fieno per noi e noi ti fileremo la
canapa. Basta che tu ce l’ordini con queste parole”:
Vacchicina, vacchicina,
con la bocca fila fila,
con le corna annaspa, annaspa,
fammi presto la matassa.
E quella sera le vacche ritornarono
alla stalla contente e satolle e la canapa era tutta filata. La matrigna
digrignava i denti dalla rabbia e l’avrebbe mangiata viva. Ma dovette
rassegnarsi. Il giorno dopo e per altri giorni ancora si ripeté la stessa
storia. Allora Assunta disse alla madre: “madre ho voglia di mangiare
raperonzoli. Stasera mandate Rosina a coglierli nel campo dell’Orco, lui la
scoprirà e la mangerà!” Detto fatto. Così la Rosina si mise ad andare di notte, scavalcò la
siepe ed entrò nel campo dell’Orco. Non aveva fatto a tempo a sbarbare i
raperonzoli quand’ecco l’Orco che arriva,annusando qua e là:
Ucci ucci
sento odor di cristianucci
o ce n’è o ce n’è stati
se li trovo rimpiattati
me li mangio tutti!
E cercava, tirando su con il
naso, cercava, fino a quando, dietro una grossa rapa vide la bambina. Svelto la
chiappò e la mise nel suo sacco. Intanto cominciò a urlare con la sua voce
tonante:
Catera, metti al fuoco la caldera
che la Rosina ho chiappo!
Meglio per noi, perché, come
sappiamo, la storia avrà un lieto fine e l’Orco e Catera, resteranno a bocca
asciutta. Rosina, protetta dalla Fata che già l’aveva aiutata trasformandosi
nella vecchia vacca, aveva con se una
bacchettina fatata, che teneva nascosta nella tasca del suo vestitino e che le
dava coraggio. Intanto nella casa dell’Orco era acceso un gran fuoco e sopra il
fuoco bolliva un enorme pentolone, che Catera rumava continuamente aggiungendo
all’acqua erbe aromatiche per insaporirla. Alla vista di Rosina le venne
l’acquolina in bocca, ma prima c’era da fare il pane, e il forno era acceso da
tempo e i ceppi erano ormai diventati ardenti carboni. “Rosina metti il pane in
forno!” gli comandò. Detto questo la prese sgarbatamente per un braccio e ce
l’avvicinò, fin quasi a farla lambire dalle braci che avvampavano. “Infilati
dentro e guarda se è ben caldo perché dobbiamo infornare il pane!” (Così,
mentre Rosina saliva dentro il forno lei l’avrebbe chiuso facendocela arrostire
viva!) Come si sa alle Orchesse piace molto di più l’arrosto che non il lesso!
Ma con la sua bacchettina fatata Rosina non ebbe paura e gli rispose: “Non so
come fare ad entrarci!” “Brutta sciocca, guarda com’è grande l’apertura, potrei
entrarci anch’io!” E detto questo si avvicino alla bocca del forno: Rosina non
fece complimenti, la prese per il culo e ce le ficcò dentro. Poi chiuse il
forno e tirò il catenaccio. Uh! Che urla orribili uscirono dalla gola della
strega cattiva! Ed ecco arrivare l’Orco richiamato da quelle grida spaventose.
Fece per agguantare Rosina che con in mano la sua bacchettina disse:
Orco cattivo Orco birbone
buttati dentro il pentolone!
A questo comando l’Orco si tuffò
nell’acqua bollente dalla quale tornò immediatamente a galla trasformato in un
bellissimo Principe biondo, tutto vestito d’oro e di broccato. L’incantesimo
che l’aveva trasformato in Orco era svanito con la morte della malvagia strega.
Si può aggiungere, che il giovane Principe s’innamorò a prima vista di Rosina e
che questo amore venne ricambiato. E quando fu il tempo e i due giovani furono cresciuti,
fu fatto una magnifico sposalizio e un banchetto che durò sette giorni e sette
notti! Pive, fagotti e cornamuse suonarono armoniosamente, e furon servite le
vivande: i quattro quarti del montone che portò Elle e Frisso per lo stretto
della Propontide; i due caprioli della celebre capra Amaltea, nutrice di Giove;
i piccoli di quella cerbiatta Egeria, consigliera di Numa Pompilio; sei paperi
covati da quella degna oca Ilmatica la quale col suo canto salvò la Rocca Tarpea di Roma; i
maialini di Troia; il vitello della vacca Ino, così mal guardata da Argo; il
polmone di quella volpe che Nettuno e Vulcano avevano così mal fatata, a quanto
dice Giulio Polluce “in Canibus”; il cigno nel quale si convertì Giove per
amore di Leda; il bue Api, di Menfi in Egitto che rifiutò di prender cibo nella
mano di Cesare Germanico, e sei di quei buoi rubati da Caco e recuperati da
Ercole; i due capretti che Coridone salvò per amore di Alexis; il cinghiale
erimantico, olimpico e colidonio; i cremasteri del toro tanto amato da Pasifae;
il cervo nel quale fu trasformato Atteone; il fegato dell’orsa Calisto. E poi:
trentasei primi tra i quali i deliziosi “stronzi fini alla sberlottina”, la
“promerdis, vivanda sovrana”, e delle
“cornamcuse, rivestite di brezza”. Come secondo servizio furon portati
cinquanta piatti, tra i quali, particolarmente apprezzati: il “cacciucco di
pecora all’erbe fini”, “la “testina di cinghiale in salmì”, le “budellina
d’agnello alla Marsicana”, le “coglie di vitello trefolate alla maniera antica”, il “lardo
d’asino”, i “lippe-lappe”, e la “marmittaglia in pisciaforte”; per ultimo furon
portati ventinove stuzzichini per
alimentar l’appetito, tra i quali: “la neve dell’an passato”, la “pica
candita”, “l’uccabarucca” e dei “soffiaminculo”. Come dessert giunse,
graziosamente sorretto da due splendide fanciulle, un gran vassoio di merda
coperto di stronzi fioriti: che era un gran piatto pieno di miel bianco,
rivestito d’uno strato di aranci canditi, e come contorno, teglioni di
“Pionono“, giunto per l’occasione dal paesello di Sante Fe nell’Andalusia e
immense zuppiere di “latte alla portoghese”. La bevanda fu servita in
tirlarigotti, bel vasellame antico, e fu un beveraggio assai gradevole e
inebriante. Finito il pranzo furon levate tutte le tavole e allora suonando più
melodiosamente di prima i menestrelli, fu comandato dal maestro delle Feste un
“passo doppio” e dopo, al suono divino delle pive, tutti i commensali danzarono
in vario modo le duecento e più ballate, tutte originali di quel ricco Paese,
tra le quali destarono ammirazione “Si, sono assai procace…”, “qui venite a
toccarmi o buon curato…”, ”all’ombra di
un boschetto, sull’erbetta…”, “Guglielmino vien quà, morbido è il saccone…” e
soprattutto “Pellegrin che vien da Roma…”, la “Ciaccona”, “l’ortolano e le
dolci monacelle…” e infine, per conclusione,
“la mia voglia è sol d’amare!” Si seppe poi che per magia delle danze e
degli abbracciamenti più di trecento giovani e fanciulle convolarono di li a
poco al talamo nuziale.
Così finirono tutti i guai per la
dolce Rosina ed i due principi vissero insieme per tutta la vita felici e
contenti in un reame lontano lontano, mentre di Assunta e della matrigna si
persero le tracce fino a quando non giunse la notizia che erano state
trasformate in un sasso tondo ed in un
osso di morto, per l’eternità, ossia fino a che il mondo dei sogni esisterà.
La pentola bolle,
alla fiamma fiammante,
in attesa noi siamo
quassù all’Aquilante!
La mia fiaba v’ho detto
laggiù corre un sorcetto
prendigli il pelliccione
e fatti un berrettone!
Stretta è la foglia
largo il bocciolo
con la pelle del culo
faremo un bel lenzuolo!
Stretta è la foglia
larga la via
dite la vostra
che ho detto la mia!
NOTE AL TESTO
Testo letto alla riunione del PIL
di Belforte, alla Casa della memoria L’Aquilante, domenica 4 novembre 2007.
Scritto a dieci mani, con importanti varianti e accurato mixage, da: “…Der Bruder Grimm, Freund Karl, Meister
Calvino und Herr Professor Rabelais” e quattro versetti di Guido Gozzano. Spero
che dal Paradiso mi perdonino!
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