Sessanta minuti, più
ringraziamenti alle Organizzazioni “Agapito Gabrielli”, e all’UNIELI, ed ai
presenti, e presentazione della mia ricerca 1859-1900 e del mio attraversare
Firenze e Piazza dell’Indipendenza, per motivi di lavoro, nei primi anni ’70,
quando scoprii la vicenda che vi
riassumerò.
La
storia che vi racconterò si svolge a Firenze tra la primavera e l’autunno
dell’anno 1859, l’anno della “pacifica rivoluzione toscana” che porterà, poco dopo, con il Plebiscito, l’ingresso
della Toscana nel Regno d’Italia.
Il
tema centrale non sarà ripercorrere le vicende del nostro Risorgimento, e
nemmeno l’epopea garibaldina che infiammò tanti giovani italiani, toscani e
massetani, sulle quali si sono consumati
fiumi d’inchiostro, ma quello di soffermarsi su avvenimenti personali,
attraverso gli occhi di un bambino “innamorato”, un bambino di una famiglia
borghese la cui abitazione si trovava e si trova in quella che attualmente
porta il nome di Piazza dell’Indipendenza, dalla quale, il 27 aprile 1859, si dipartì
il corteo popolare che attraversando la città espose il primo tricolore sul
terrazzo di Palazzo Vecchio, mentre sulla via Bolognese il Granduca Leopoldo
II, si avviava a riparare a Bologna,
ancora sotto il dominio dello Stato Pontificio.
C’è
una pagina, nell’autobiografia di Guido, che esula dalla traccia dell’idillio
d’amore nel quale mi addentrerò tra poco, che ripropongo per una sorta di meditazione sui temi della
nostra attualità politica italiana e globale:
“ Il Sovrano è il padre del
popolo, - mi diceva il nonno nelle nostre conversazioni serali, - egli è per
sorte da Dio chiamato a regolare i destini della nazione. Nessuno più di lui.
Nessuno più di lui ha grandi responsabilità di fronte all’Altissimo, come di
fronte alla sua coscienza. Un Sovrano è in una condizione, che può fare molto
bene, come molto male. Leopoldo II il nostro sovrano è un buon uomo, un
esemplare di virtù come padre di famiglia, ed il nostro paese è felice e ricco
per ragione della sua paterna amministrazione come Capo dello Stato. E questo
pare fosse vero. Vi è della gente nel mondo, - mi diceva sempre mio nonno, -
che non può vivere tranquilla; oggi vuole una cosa, domani ne vuole due, poi
tre; infine, siccome questa gente è pigiata dietro da chi ha necessità di
pescare nel torbido, essa vuole ancora, senza capire bene cosa pretendere, e
allora si va alle rivoluzioni, dove la schiuma sociale irrompe, vince la mano,
sparge sangue, e dopo ci vogliono anni ed anni per riprendere il cammino
normale della società umana, che ha le sue leggi di natura. La Patria è tutto; tutto si
deve fare per lei; ma son tempi brutti, Micio caro, - sospirava il nonno, - le
rivoluzioni. Quando decapitarono Luigi XVI, ero un giovanetto; ma me lo ricordo
come se fosse ora, a Firenze si rimase tutti senza fiato quando ne giunse la
nuova.
Converrete
che è un bel fatto, quasi da vantarsene, l’aver sentito dalla viva voce del
nonno narrare l’impressione della decapitazione di Luigi XVI. Eppure è così!
Pur troppo è così!
Anche ora, - seguitava il nonno,
- avrebbero dei sogni da realizzare, vorrebbero fare un’unità d’Italia; ma che
vantaggio se ne avrebbe? Sarebbe una conquista geografica, e nient’altro,
perché bisogna non conoscere né la
Sicilia , né il Napoletano, per accarezzare coteste fantasie.
Fino a Chiusi e alla Nunziatella, col resto dell’Italia settentrionale, le cose
potrebbero andare in buona armonia, ma da lì in giù, con quella gente non siamo
davvero nemmeno cugini, invece che fratelli. Non siamo nemmeno della stessa
razza – noi razza giapetica e loro semitica -; lo portano scritto in faccia il
loro albero genealogico. E poi, sarebbe una bella cosa mettersi a rischio di
rivedere qua i Tedeschi, che, si può dire, sono andati via ieri; oppure,
trovarsi i Russi attendati alle Cascine?
Perché i Russi? Perché ce li ho visti io, nell’epoca napoleonica, i
cosacchi attendati alle Cascine. Mangiavano la carne macerata sotto la sella
del cavallo.”
Ed
io allora mi facevo odiatore dello straniero e conservatore rispettoso del buon
Sovrano, che Dio ci aveva concesso, e al quale ero legato da vincoli di
personale riconoscenza….”
Sappiamo che la famiglia di Guido Nobili era da sempre
stata fedele al Governo Granducale e che, anche dopo il Plebiscito e
l’annessione della Toscana al Regno d’Italia, essa vide con un certo disprezzo
l’avvicendarsi dei Savoia e delle loro apparenti novità e modernizzazioni,
rimanendo, come traspare dal pamphlet,
Memorie lontane, “illuminati reazionari”. Tuttavia, con l’incipiente
vittoria dei moti risorgimentali, la
borghesia aveva capito che si stava avvicinando un nuovo regime, dal quale non
avrebbe dovuto essere travolta. Per
questo timore, nei giorni dell’aprile 1859, indugiava a manifestare
apertamente le idee dell’Unità d’Italia, anche se, nella loro casa era stata
preparata la bandiera tricolore, proprio quella che apparirà per prima in
Toscana, a quel balcone il giorno 27 aprile. Guido è partecipe a queste vicende
anche se, come ascolterete, le sue attenzioni saranno completamente rivolte
all’innamoramento per Filli, una bambina, sua coetanea, di una famiglia greca
da poco trasferitasi in città, in una casa sulla stessa Piazza, poco distante
dalla sua.
La
famiglia Nobili, nella descrizione di Guido, piccolo testimone, così visse
l’entusiasmate giornata del 27 aprile 1859:
“…la mattina venne la Teresa a risvegliarmi, aprì la finestra e, con quel
fare compassato da governante inglese, mi disse: -Chi dorme non piglia pesci.
Intanto oggi non si va a scuola. – Ha forse partorito la Granduchessa ? – Altro
che nascite! Oggi vi è qui, proprio sotto le finestre, qui in piazza, la
rivoluzione. – La rivoluzione? Rimasi trasecolato. – Via, si vesta subito, se
vuol vedere! Non sente le grida della folla? In un baleno fui pronto, e corsi
subito in sala, dove trovai tutta la famiglia. In un canto c’era la grande bandiera
tricolore che di nascosto avevo visto
cucire. – Buon giorno Micio, - mi disse piano mia madre accarezzandomi e
facendomi sedere accanto a lei; ma io riscesi subito dal divano e andai a dare
un’occhiata alla piazza. Era un mare di popolo, che ogni tanto urlava a
squarciagola. Si sentiva prima un silenzio, quindi una voce rauca faceva un
discorso lungo una cinquantina di parole; e poi battimani ed un urlio che
arrivava in cielo. – Dunque si mette o non si mette fuori questa bandiera?
Diceva lo zio Niccolò un po’ eccitato. – Tu stesso l’hai detto, - rispondeva lo
zio Guglielmo, - che l’ordine del barone Ricasoli era attendere un capitano,
che avrebbe mandato lui, per poter incoraggiare maggiormente il popolo, che lo
vedesse al terrazzo insieme alla bandiera. – Ma qui si fa tardi, saltò a dire
mio padre, - Pare quasi che si abbia paura…o capitano o non capitano – replicò
lo zio Niccolò risoluto, io la metto fuori questa bandiera; sarà quel che sarà.
Infatti, presa la bandiera la portò al terrazzo e la sventolò. Urli ed evviva
giù dalla piazza accolsero il vessillo tricolore, che si spiegava al sole di
una bella giornata di primavera. Era il vessillo dell’Unità d’Italia, che il 27
aprile 1859 in
tutta Firenze e dalla casa mia per primo compariva alle acclamazioni del
popolo. Poco dopo altre due bandiere sventolavano ai balconi. Dalla via San
Paolo arrivavano frotte di soldati; che, mescolandosi alla turba,
fraternizzavano col popolo in rivolta e quindi, dietro a una bandiera tricolore
portata da cittadini e militari con una carrozza che se ne andava al passo,
tutta la moltitudine si avviò sempre gridando a squarciagola, per la via
Sant’Apollonia, ora via 27 Aprile verso il centro della città e il Palazzo
della Signoria. La rivoluzione aveva trionfato. Ed io? Rivoltai subito giubba
diventando il giorno stesso un giacobino!
Guido
diventò avvocato e visse nella casa dei suoi antenati. Egli affermò che un
giorno sulla facciata del suo palazzo sarebbe stata posta questa iscrizione: “Qui
nacque un illustre ignoto che seppe apprezzare per quel che valeva l’uman
genere”. Ma così non è stato ed i
posteri vi hanno scritto: “Qui visse Guido Nobili che con arte delicata rievocò
la vita fiorentina dell’ottocento”. Se qualcuno di voi passerà da Piazza
dell’Indipendenza, osservi le due statue del Ricasoli e del Peruzzi, due
protagonisti che non si amavano, della nuova Italia ed alzi lo sguardo verso la
casa del nostro eroe, il bambino innamorato, protagonista della storia che mi accingo
a raccontare.
Nella
primavera del 1859, in
Piazza Maria Antonia, come allora si chiamava prima che avesse il nome di
Piazza dell’Indipendenza, era stata da poco messa la ghiaia. Guido e Filli vi
si recavano a giocare, pur non conoscendosi ancora. Un giorno Guido, giocando,
perse un gemello del polsino della camicia e cominciò a cercarlo
affannosamente. In quel momento Filli uscì con la madre dal palazzo e Guido si
sentì in grande imbarazzo in quanto non era cosa educata per un signore
mostrarsi giù piegato e così pensava che un signore perde la roba, ma non la
ricerca, tutto al più mette gli avvisi alle cantonate perché gliela riportino,
mentre lui era costretto a grufolare fra la terra! La bambina che Guido aveva
scorto nel fulgore della sua bellezza era là a saltellare con la corda proprio
vicino a lui, e così non poté fare a meno di guardarla: ella, con un sorriso che era un incanto gli
chiede in francese se ha perso qualcosa…e lui buttandosi a capofitto nel
francese che conosceva appena le dice di aver perso un gemello, cioè un
bastoncino d’oro che stava al polsino della camicia. Filli allora chiama in
aiuto il fratello Giacomo, più piccolo di lei,
poi arriva anche la madre, ed in quattro si mettono a rovistare sotto una
panchina. La madre parla con Filli in un’altra lingua che non era affatto
quella francese e la figlia, seguendo le indicazioni della madre trae da sotto
la panchina il bastoncino d’oro che stavano cercando.
Da
questo momento per Guido inizia una serie di avventure che è impossibile, per
il tempo che occorrerebbe, leggere per intero, come meriterebbero, ma solo
accennare a quelle che ho ritenuto essere le più piacevoli ed interessanti.
Il
giorno dopo il “gemello” Guido e Filli si ritrovano in Piazza e fanno amicizia.
Guido viene a sapere che Filli è greca e che in realtà si chiama Matilde
Elisabetta e lui le dice che in casa anche lui chiamano “Micio”.
Cambiando discorso Guido
aggiunse: Mia madre ieri, quando ti vide, disse che eri molto bella. A te non
sembro? Ahi ahi, ero subito in imbarazzo. Come si fa a cavarsela?
Se
dico di sì, che è bella, dicevo tra me, questa può credere ch’io sia innamorato
di lei, ed io innamorato in vita mia non sarò mai; a dire di no, sarebbe uno
sgarbo, una grossolanità che non voglio fare, e che ella non merita; e per
avere tempo di meditare una risposta che mi togliesse d’impaccio, mi misi a
guardarla per un momento negli occhi.
Che
cosa ci vedessi in fondo a quegli occhi violetti non so; mi parve che,
guardandoli, il collo mi si allungasse, la gola mi si piegasse all’indietro,
provai quel non so che, che mi sono figurato debba provare l’usignolo allo
sguardo della serpe; e per non rompere l’incantesimo mi scossi, e non seppi
dirle altro: - Non sei bella, sei bellissima! E poi con una giravolta, un
salto, una stupida risata, me ne andai via di corsa al largo, girandole
attorno. Lei sciorinò la corda e saltandola mi fu appresso, e Giacomo pure, e
tutt’e tre poi correndo, arrivammo alla cantonata di via Barbano, dove già era
cominciato l’abituale crocchi etto dei monelli.
Guido
combatte sulla Piazza contro una banda di ragazzacci e viene colpito alla testa
da una sassata che al momento lo tramortisce. Condotto in casa e medicato, dopo
due ore non manifesta più alcun malore. Ma la sentenza della madre è rigida e
inappellabile: due giorni chiuso in casa, senza uscire e…a pane ed acqua!
Al
secondo giorno della punizione la madre lo minaccia di metterlo in Collegio a
Volterra, vestito da prete, e lo rimprovera di “non aver cuore”.
Era
una leggenda, che su di me s’era formata in famiglia, che avessi poco cuore.
Essa aveva la sua storia. Una volta negli anni avanti, ero stato condotto al Teatro della Pergola,
dove si rappresentava l’opera di Verdi, il Trovatore. Io, a quell’età, più che
della musica, mi interessavo del fatto dell’opera; e anzi deploravo che gli
artisti, invece di recitare, cantassero, il che mi impediva di raccapezzarmi
nello svolgimento del dramma. Era costume delle persone di condizione di non
stare al Teatro fino in fondo allo spettacolo. Molto prima della fine
dell’ultimo atto, si lasciava il palco, per ritirarsi nel foyer, in attesa che
il chiamatore avvisasse la carrozza di tale o tal’altra famiglia che era alla
porta. Il trattenersi fino alla fine dello spettacolo era da contadini, e non di
buon genere; ma a me interessava di sapere come la rappresentazione andasse a
finire quella sera, e mentre mi infagottavano nella cappa, domandai con premura
a mio padre come andasse a finire per quel Trovatore. Mi rispose: - Ora lo
ammazzano, ed è finita. – Ecco, ho capito! Dissi fra me. – Si va via prima
dello spettacolo per non mi far presenziare a questo strazio. – Ma dimmi, gli
domandai ancora, che ne ammazzano uno tutte le sere dei Trovatori? Mia madre,
che sentì questa interrogazione, ne rimase trasecolata: - Come?, diceva, - Con
tanta tranquillità, con questa serenità, lui ha creduto che veramente
quell’uomo debba venire ammazzato, se ne va a casa senza preoccupazione della
cosa?! Ma questo è un mostro di ragazzo, è un piccolo Nerone, non ha cuore!
La
cosa fu raccontata in famiglia e la sera, sul menù del pranzo uno degli zii,
all’arrosto, invece di rondoni, aveva fatto scrivere: “arrosto di trovatori”.
Finalmente
Guido esce di casa e ormai guarito dalla sassata incontra Filli, va nella sua
casa, conosce il babbo, un omaccione greco senza un occhio che lo accarezza, e
nell’uscire da questa casa, Filli, nell’accompagnarlo alla porta gli sussurra:
- Siamo stati a fare spese in città, ma ora io e Giacomo torniamo un poco in
Piazza; fa d’esserci; sto tanto volentieri in tua compagnia.
Girai
tutte le stanze di casa mia, perché i miei mi vedessero, e nessuno potesse
sospettare che d’arbitrio ero andato in “casa terza”, come si usava dire, e poi
tornai sulla Piazza; Filli era là che saltava la corda. Sedutici su di una
panchina, le domandai perché il giorno
di poi, che era domenica, non venisse alla Messa delle undici alla chiesa di
San Marco, dove mi conduceva mia madre; e a quale chiesa andasse. – Ma io,
rispose Filli, - non vado alla tua chiesa; io sono ortodossa.
Se mi avessero in quel momento
strizzato con una mano il cuore, non avrei sentito tanta penosa impressione
quanta ne abbi a quella notizia; e premurosamente mi diedi ad indagare in che
differisse la mia dalla sua religione; perché si trattava di sapere se Filli
fosse dovuta andare o non andare all’inferno, per non essere regolarmente
cristiana. – Ma tu credi in Dio? – le domandai con ansia. – Altro se ci credo.
– E in Gesù tu credi? – Voglio tanto bene a Gesù. – E nella Madonna non credi?
– Come si farebbe a non credere nella buona madre di Gesù? Dello Spirito Santo
me ne ero dimenticato; ma in questo ero scusabile, perché non avevo mai
occasione d’interessarlo dei fatti miei. – E allora in che differiscono le
nostre religioni? – Non lo capisco, - diceva Filli, guardandomi penosamente in
viso. - Forse perché i nostri preti non
dipendono dal Papa come i tuoi. – Già, dev’essere così.
Quando
ci lasciammo, ero di umore malinconico; l’idea che la buona, la bella amica mia
avesse dovuto andare all’inferno mi tormentava l’anima. Avrei voluto essere
bene edotto in cose di religione per illuminarla, salvarle l’anima, e poi
ritrovarsi insieme in Paradiso. Lassù in Paradiso, io e Filli, che corse! Senza
paure di Volterra, senza frustino, e tutto il giorno insieme!
Andai
dalla zia Luigia, che era la specialista della casa in materia di religione, e
con tutta la circospetta diplomazia la interrogai circa l’argomento, che tanto
mi stava a cuore. – Dica, zia, - incominciai, - in che differisce la nostra Religione
da quella ortodossa? – Differisce: che la nostra è vera e quella è falsa. –
Come si fa a riconoscere le Religioni vere da quelle false? – Che discorsacci
son codesti? Delle Religioni vere non c’è che la nostra, e tutte le altre sono
false.
Vidi che per questa via non si
sfondava; forse nemmeno la zia sapeva di queste differenze, e cercava di
cavarsela alla meno peggio; e allora la strinsi con gli argomenti un poco più
da vicino. – Ecco, stia a sentire: io ho un amico, al quale voglio molto bene;
ma è ortodosso di religione, perché suo padre e sua madre sono di quella
religione. Che colpa ha lui di essere di quella Religione? Anche se tutta la
vita si conducesse come un santo da altare dovrà andare all’inferno? – Non c’è
remissione, bisogna che vada all’inferno! Questa tagliente sentenza mi si
ripercosse nell’anima come un colpo mortale. Troncai ogni discussione con la
zia, e me ne andai tutto addolorato. – Dica, zia Luigia, - le domandai la
mattina dipoi, - cosa ne penserebbe Dio se uno si offrisse di andare
all’inferno per un altro? – Li manderebbe all’inferno tutti e due. - Come?
Neppure se questo cambio glielo chiedesse la Madonna o Gesù? – Che contano a confronto della
volontà di Dio? Questa sconcertante risposta mi ripiombò nello sgomento, e
tanto mi perturbò, che, lasciata la zia, riparai in camera mia, e voltandomi
verso il quadretto dell’immagine della Madonna, amorevolmente la guardai senza
poterle dire niente. - Guardi, guardi, signorino, lì in Piazza vi è il suo
amico con la sua bella sorellina che guardano il cielo con un canocchiale. Così
mi disse un dopo pranzo la
Teresa , che era andata a chiudere la persiana di sala. Corsi
a vedere, era vero. Ora una ora l’altro, passandosi un canocchiale, guardavano
in su e rimanevano estatici. Guardai in qua e là nel cielo, non vidi niente
d’insolito che meritasse l’uso speciale del canocchiale, per cui la curiosità
viva mi punse di sapere cosa fosse lo scopo di tanta attenzione verso il cielo
e, ottenuto il permesso da mia madre, corsi in Piazza a raggiungerli. – Guarda,
- mi disse Filli, con la sua voce d’argento, - metti questo tubo all’occhio e
vedrai che cosa ha regalato babbo a Giacomo. A me ha comprato una scatola di
tinte a tubetti perché dipingo i fiori. Io tenevo fermo il tubo all’occhio,
mentre Filli cautamente si avvicinava; quando fu presso alla mia guancia, e ne
sentivo l’alito, mi dette un bacio! Stolzai come se fossi stato toccato da un
bottone di fuoco. Se fossi stato un cane, tanta fu per me la sorpresa lì sul
momento, sono certo mi sarebbe incoscientemente scappato di dare un morso a
Filli. Di lampo la guardai con occhio torvo come se si fosse presa con me una
confidenza sguaiata; ma vedendola sorridente, tranquilla, che mi guardava con
quelle sue stele saettanti, abborracciai ancora io un sogghigno sghimbescio, e
per arrivare più presto in fondo a una situazione per me disorientata, tornai
in fretta a guardare nel foro del caleidoscopio.
Rientrato
a casa, andai a guardarmi allo specchio, perché mi si era fitta in mente l’idea
che si dovesse vedere l’impronta del bacio di Filli. Non si vedeva niente, ma
pure ripensando a quel bacio sentivo in me una piacevolezza, che mi ricordava
alla lontana quella dolce impressione già provata qualche volta, quando tutto
infreddolito cominciavo a riavermi in un letto ben riscaldato. – O che sia
questo? – mi domandavo. – O che il bacio di una bambina bella è come il morso
di un can guasto, che si risente dopo? Che io sia innamorato!? Ma i ragazzi,
che sappia, non s’innamorano. Caso volle che la sera la conversazione cadesse
su Dante Alighieri. Lo zio Cesare diceva l’aveva trovata noiosa la Divina Commedia. – A me ne
basta una per rappresentarmelo quel Dante come un legno torto, - insistè lo zio
Cesare, - ed è quella, che a nove anni s’innamorò di Beatrice. – Mamma mia! –
dissi dentro di me con il cuore in grinze. – Che tutto questo rigiro su Dante
sia stato messo su per dare di traverso una bottata a me? Questi zii li
conosco! Sono innamorato davvero! – pensavo, - sento che vorrei poter dare
anche io un bacio sulla gota di Filli, come l’ha dato a me. Non c’è che dire,
lo riconosco, sono innamorato!
Avevo
sentito dire, mi era ronzato agli orecchi, che ci sono degli uomini che mettono
in mezzo le donne, ed io non conoscendo i particolari di questi inganni, temevo
che seguendo questo impulso, mi andassi avviando proprio sulla cattiva via, ed
avrei piuttosto incontrato qualunque sacrificio, di quello che rendermi
colpevole a riguardo di quella povera Filli, ormai diventata il mio pensiero
fisso ed intenso.
Quando
mia madre la mattina si faceva pettinare, qualche volta mi sedevo sopra un
piccolo panchetto presso di lei, e prendendole i lunghi capelli neri che
toccavano terra, mi divertivo a scoscendere la forca che suol fare il capello
lungo; ed in questo tempo, mentre Teresa passava il pettine alla sua
capigliatura, facevo conversazione con mia madre, ponendola bene spesso in
gravi imbarazzi per rispondere agli argomenti che le proponevo. Quella mattina
aspettai di proposito che la
Teresa se ne fosse andata, e poi buttavi là questa domanda: -
Se Dio voleva che non ci fossero altre Religioni, perché fa nascere i figli
anche dai matrimoni contratti con le false Religioni? – Senti, stamani ho poca
voglia di discorrere, - rispose mia madre un poco imbarazzata. – Una volta che
i figliuoli nascono anche a quel modo, è segno che questa è la volontà di Dio.
Non ti par chiara la cosa? – O senza punti matrimoni i figliuoli possono
nascere? – Senti, Micio, se non ti levi d’attorno, peggio per te, - mi rispose
un po’ contrariata. – Questi sono argomenti che non ti devono interessare. E’
una noia avere un ragazzo verboso ed entrante come te. – Domandavo questo,
perché avevo curiosità di sapere come aveva potuto fare la balia, che ha preso
la zia Maddalena, a fare un bambino senza aver marito? – Dunque sei maligno?
Chi ti ha detto questo? – C’ero presente quando la procaccina di balie diceva
alla zia: prenda questa che è ragazza. E’ un buon carattere, e così non avrà la
seccatura del balio per casa, e spenderà meno. Fu messa in mezzo da un birbante
con la promessa di sposarla, e poi fu scoperto che aveva già moglie; ma creda è
una buona figliuola. – Tante volte la gente discorre senza badare ai ragazzi!
Ma tutto questo discorso che ti riguarda? Micio, che t’interessa? – E’ perché volevo
sapere come si fa per fare i figliuoli. Una volta che anche te li hai fatti,
devess’ere una cosa da persone perbene.
Ormai
nell’argomento ero entrato sotto misura, come si dice in linguaggio
schermistico, ed era un po’ difficile a mia madre cavarsela con prudenza, e
senza destarmi sospetti, e le convenne torto collo continuare il tema di
conversazione da me proposto. Questo lo saprai meglio quando prenderai moglie,
C’è tempo! Ma poi, se ti preme saperlo, purchè tu non lo racconti a nessuno, te
lo dico in confidenza, perché ai ragazzi fa torto sapere certe cose. Quando un
uomo e una donna sono innamorati, e si baciano, molte volte, ma non sempre
però, un figliuolo è di conseguenza.
Con
questa trovata mia madre credeva finalmente di essere arrivata al punto fermo
della conversazione; ma s’ingannava, non sapendo quale fosse lo scopo della mia
inquisizione. E continuai: - E allora, perché vuoi che io dia un bacio alle mie
cugine quando vengono a farci visita? – Perché né te né loro di certo siete
innamorati. Ma ora basta; delle stupidaggini ne hai dette abbastanza. Vattene!
Voglio finire di vestirmi. Mi prese per una mano, mi accompagnò alla porta e mi
mise fuori di camera.
“Dunque,
- rimuginavo fra me – non sbagliavo nell’essere prudente con Filli. Guardate un
po’ a che rischio si era messa con me quella povera creatura per la sua
innocenza! Fortuna che io sono riflessivo, e qualche cosa sapevo, sebbene in
confusione, altrimenti chissà a quali conseguenze esponevo lei e me. V’era il
caso di vedere qualche giorno il padre di lei venire infuriato a cercare di mio
padre, e allora altro che Volterra! Solamente a pensarci mi si accappona la
pelle. Ci si può immaginare lo scandalo che sarebbe successo, il diavolerio e
le canzonature degli zii, se avessi messo un figliuolo al mondo! Meno male che
fui prudente, e lo sarò. Però sarebbe stato per me un bel balocco avere un
figliuolo proprio vero di carne e ossa; l’avrei condotto alla villa
dell’Impruneta, gli avrei insegnato come si fa nei ruscelli a cavare i granchi
dalle buche senza farsi mordere, lo avrei istruito a salire sulle piante per
cogliere le frutta, e poiché sarebbe mio, quando fosse stato cattivo, l’avrei
frustato. Ma non ci facciamo prendere da fantasie, è meglio, molto meglio non
trovarsi in queste cose”.
Dopo
un periodo di stagionaccia, durante il quale Guido e Filli non si videro più,
al tornar del bel tempo Guido la incontrò sulla Piazza portandole una gardenia.
Mi hai portato un fiore; sapevi allora che era la mia festa? Stasera alle sei
finisco nove anni. Tu verrai? Dimmi che verrai; sii compiacente con me, che ti
voglio tanto bene. A questo punto buttai da parte ogni retro pensiero e con
l’energia di un uomo, di cui non mi credevo capace, le risposi: - Ma ancora io
ti voglio tanto bene! Non ho altro pensiero che di te; tu mi hai presa l’anima
intera; ma penso con dolore che mentre tanti, che son più grandi di noi, hanno
delle speranze nei loro affetti, la nostra minuscola età non ce ne consente
alcuna.
A
questo mio discorso, o presso a poco di discorso, che per la prima volta apriva
l’animo mio a Filli senza veli e senza reticenze, essa si mise a piangere. Io
mi fermai, la guardai e mi avvidi che non dalla cantonata dell’occhio
scendevano le lacrime, ma in assidua fonticina sgorgavano dalla metà della
palpebra, e pensai che quella diversa scaturigine del pianto, dovesse essere
una caratteristica speciale greca. – Ma Filli, Filli mia, non piangere; mi par
di non aver detto cose, che ti dovessero portare fino a codesto. Non piangere,
perché se fai piangere anche me, nel dolore non so essere garbato e carino come
te, quando piango io bercio più forte di un asino che raglia, e allora correrà
tua madre, correranno quelli di casa mia; come si giustificherebbe poi questo
tumulto?
Entrò
Filli nell’atrio di casa mia, le asciugai le lacrime colla pezzuola; non la
baciai, benché mi ci sentissi spinto; però la strinsi al petto un secondo
minuto, e poi le dissi: - Vedrai che stasera verrò da te. – Giuramelo. In vita
mia promettere è stato sempre come giurare, ma in quella circostanza, fuori di
me dall’emozione, non rifuggii dalla solennità del giuramento, e quando ci
lasciammo le ripetei: - Ho giurato che verrò, e puoi contare che qualunque cosa
mi possa accadere, prima delle sei sarò a casa tua; ma tu mi devi promettere di
non piangere più, perché le tue lacrime mi fanno pena quanto e più se vedessi
un poverello morire di fame. Io non ritorno in Piazza, aspettami a casa tua
alle sei; fin d’ora puoi dire a tua madre che ho ottenuto il permesso.
Il
bel gesto l’avevo fatto, con Filli. Alla volata mi ero slanciato; ma ora il
momento serio era quello di chiedere e anche di ottenere questo permesso. Vi
era l’abitudine in casa che, se le persone non si conoscevano per relazione, la
prevenzione era contro, e non si dovevano frequentare. Le famiglie, senza
eccezione, dovevano essere del primo cerchio delle mura di Firenze, oppure che
avesero avuto un antenato alla prima crociata; la seconda crociata cominciava
ad essere sospetta; figuriamoci poi la famiglia di Filli, che erano degli
stranieri di chi sa dove, e non si poteva sapere a far che venuti a Firenze. E
poi, è un’abitudine ormai inveterata nella disciplina di tute le famiglie, il
negare tutto ai ragazzi, anche le cose più futili e innocenti, per solo sfoggio
di autorità.
Ma,
finalmente, attraverso abili sotterfugi, Guido riesce ad andare a casa di Filli
e ci fa tardi. Ne discendono varie conseguenze e situazioni comiche, si
nasconde sotto il letto del nonno, cade uno scudo d’argento, trovano “Micio”
impaurito e così viene preso in giro tra scherzi e risate. Ma ecco che avanza
l’estate! I Nobili decidono di andare in “villa” all’Impruneta e Guido non fa
in tempo a salutare Filli.
La
carrozza si mosse, ed io allungavo il collo per guardare la Piazza , nella insulsa
speranza di vedere Filli. Quando si voltò in via Sant’Apollonia e che la Piazza si andava perdendo
di vista, mi sentii un groppo alla gola, la bocca mi si storse in un garbaccio,
e cominciai a piangere a dirotto. Ma il tempo passò veloce e il 3 novembre
Guido parte dall’Impruneta e dopo aver passato Porta Roman tra il batter dei
magnani che rintronava le orecchie disusate ai forti rumori; un odore di
castagne arrostite si spandeva nella’ria, e il lamentoso grido del venditore di
stoie e quello degli spazzacamini, che s’incontravano per le vie della città,
facevano piombare l’animo in un mare di tristezza, tetro ed ampio, quanto il
pensiero della morte. Quella volta, per quanto il tempo fosse perfido, e la
vitraggine noiosa come al solito, nella gita di ritorno in città l’animo mio
esultava. Il pensiero di Filli era assorbente. Tuttavia la cattiva stagione non
permette a Guido di uscire dal suo palazzo per alcuni giorni, poi, finalmente,
con la scusa di portar fuori un cane da caccia, comprato in quei giorni dallo
zio Cesare, potei uscire e, non importa dirlo, andai subito a dare una passata
sotto le finestre di Filli. Anche da quella parte tutto come prima; né Filli,
né Giacomo, né sua madre, né suo padre, si facevano vivi. Mentre stavo lì melenso, a guardare porta e
finestra, uscì la loro donna di servizio. Mi si allargò il cuore. Mi salutò, ed
io mi feci ardito di fermarla per domandarle: - I vostri padroni stanno bene? –
Stanno bene; ma io non sto’ più con loro; sono rimasta con la nuova affittuaria
del quartiere ammobiliato, che è una vecchia signora inglese; loro fino dal
primo del mese sono andati a stabilirsi a Prato. Bumh!!! Un’archibugiata carica
a veccioni, che tirata dappresso investisse in pieno un miserello scricciolo
saltellante nella macchia, avrebbe fatto meno strazio del suo corpo di quello,
che fece dell’anima mia la inaspettata notizia. La capinera, che trovi il suo
nido disertato dalla serpe; una madre, che d’un subito si veda spirare la sua
creatura sana e vegeta fra le braccia, possono aver provato quanto provai io in
quel momento. Sentivo come un artiglio di ferro, che ne petto cercasse di
strapparmi i visceri. Corsi via come un pazzo, andai a rimpiattarmi nel luogo
più appartato di tutta la casa mia…e piansi tanto!
Da
quel giorno non vidi più Filli, né seppi nuova di lei. Solamente qualche anno
dopo, non ricordo da chi, mi fu detto che era stata sposa di un ufficiale di
cavalleria. Mezzo secolo e più è passato; una selva di anni si è messa di mezzo
fra quei giorni d’amore e di dolore, e l’oggi; ma l’immagine di Filli, chiara,
colorita e fulgente, è sempre viva nella mia memoria e nel mio cuore.
Questa
è dunque la conclusione melodica di Guido Nobili ed anche la conclusione del
mio racconto. Mi chiedo tuttavia, anch’io, come Pancrazi e Pampaloni, “…ma che
cosa c’è nascosto in quella “selva di anni”? Soltanto altre donne, altri
giuochi d’amore, come sembrerebbe suggerire lo stesso autore? Nella selva di
anni c’è tutto: la delusione politica, l’avvento della mediocrità, la fine di un’epoca
sognata mentre il babbo e gli zii si preparavano ad esporre dal balcone di casa
il bandierone italiano; c’è il ripiegarsi amaro dell’autobiografia dell’uomo
Nobili nelle pieghe d’ombra di una storia non amata. E ciò che punge di più,
nel rimpianto del passato, non è tanto l’infanzia, ma una verità che vi
sentiamo sepolta, un valore dimenticato, un in sé della vita ove era forse il
meglio di noi che è rimasto segreto. Forse è questo l’elemento poetico nuovo di
Memorie lontane: un che di amaro, di incompiuto che sta dietro il sorriso e si
mescola struggente alla dolcezza del ricordo. Proprio come nello nostre Memorie,
ormai lontane.
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