giovedì 26 novembre 2015
Sessanta minuti, più
ringraziamenti alle Organizzazioni “Agapito Gabrielli”, e all’UNIELI, ed ai
presenti, e presentazione della mia ricerca 1859-1900 e del mio attraversare
Firenze e Piazza dell’Indipendenza, per motivi di lavoro, nei primi anni ’70,
quando scoprii la vicenda che vi
riassumerò.
La
storia che vi racconterò si svolge a Firenze tra la primavera e l’autunno
dell’anno 1859, l’anno della “pacifica rivoluzione toscana” che porterà, poco dopo, con il Plebiscito, l’ingresso
della Toscana nel Regno d’Italia.
Il
tema centrale non sarà ripercorrere le vicende del nostro Risorgimento, e
nemmeno l’epopea garibaldina che infiammò tanti giovani italiani, toscani e
massetani, sulle quali si sono consumati
fiumi d’inchiostro, ma quello di soffermarsi su avvenimenti personali,
attraverso gli occhi di un bambino “innamorato”, un bambino di una famiglia
borghese la cui abitazione si trovava e si trova in quella che attualmente
porta il nome di Piazza dell’Indipendenza, dalla quale, il 27 aprile 1859, si dipartì
il corteo popolare che attraversando la città espose il primo tricolore sul
terrazzo di Palazzo Vecchio, mentre sulla via Bolognese il Granduca Leopoldo
II, si avviava a riparare a Bologna,
ancora sotto il dominio dello Stato Pontificio.
C’è
una pagina, nell’autobiografia di Guido, che esula dalla traccia dell’idillio
d’amore nel quale mi addentrerò tra poco, che ripropongo per una sorta di meditazione sui temi della
nostra attualità politica italiana e globale:
“ Il Sovrano è il padre del
popolo, - mi diceva il nonno nelle nostre conversazioni serali, - egli è per
sorte da Dio chiamato a regolare i destini della nazione. Nessuno più di lui.
Nessuno più di lui ha grandi responsabilità di fronte all’Altissimo, come di
fronte alla sua coscienza. Un Sovrano è in una condizione, che può fare molto
bene, come molto male. Leopoldo II il nostro sovrano è un buon uomo, un
esemplare di virtù come padre di famiglia, ed il nostro paese è felice e ricco
per ragione della sua paterna amministrazione come Capo dello Stato. E questo
pare fosse vero. Vi è della gente nel mondo, - mi diceva sempre mio nonno, -
che non può vivere tranquilla; oggi vuole una cosa, domani ne vuole due, poi
tre; infine, siccome questa gente è pigiata dietro da chi ha necessità di
pescare nel torbido, essa vuole ancora, senza capire bene cosa pretendere, e
allora si va alle rivoluzioni, dove la schiuma sociale irrompe, vince la mano,
sparge sangue, e dopo ci vogliono anni ed anni per riprendere il cammino
normale della società umana, che ha le sue leggi di natura. La Patria è tutto; tutto si
deve fare per lei; ma son tempi brutti, Micio caro, - sospirava il nonno, - le
rivoluzioni. Quando decapitarono Luigi XVI, ero un giovanetto; ma me lo ricordo
come se fosse ora, a Firenze si rimase tutti senza fiato quando ne giunse la
nuova.
Converrete
che è un bel fatto, quasi da vantarsene, l’aver sentito dalla viva voce del
nonno narrare l’impressione della decapitazione di Luigi XVI. Eppure è così!
Pur troppo è così!
Anche ora, - seguitava il nonno,
- avrebbero dei sogni da realizzare, vorrebbero fare un’unità d’Italia; ma che
vantaggio se ne avrebbe? Sarebbe una conquista geografica, e nient’altro,
perché bisogna non conoscere né la
Sicilia , né il Napoletano, per accarezzare coteste fantasie.
Fino a Chiusi e alla Nunziatella, col resto dell’Italia settentrionale, le cose
potrebbero andare in buona armonia, ma da lì in giù, con quella gente non siamo
davvero nemmeno cugini, invece che fratelli. Non siamo nemmeno della stessa
razza – noi razza giapetica e loro semitica -; lo portano scritto in faccia il
loro albero genealogico. E poi, sarebbe una bella cosa mettersi a rischio di
rivedere qua i Tedeschi, che, si può dire, sono andati via ieri; oppure,
trovarsi i Russi attendati alle Cascine?
Perché i Russi? Perché ce li ho visti io, nell’epoca napoleonica, i
cosacchi attendati alle Cascine. Mangiavano la carne macerata sotto la sella
del cavallo.”
Ed
io allora mi facevo odiatore dello straniero e conservatore rispettoso del buon
Sovrano, che Dio ci aveva concesso, e al quale ero legato da vincoli di
personale riconoscenza….”
Sappiamo che la famiglia di Guido Nobili era da sempre
stata fedele al Governo Granducale e che, anche dopo il Plebiscito e
l’annessione della Toscana al Regno d’Italia, essa vide con un certo disprezzo
l’avvicendarsi dei Savoia e delle loro apparenti novità e modernizzazioni,
rimanendo, come traspare dal pamphlet,
Memorie lontane, “illuminati reazionari”. Tuttavia, con l’incipiente
vittoria dei moti risorgimentali, la
borghesia aveva capito che si stava avvicinando un nuovo regime, dal quale non
avrebbe dovuto essere travolta. Per
questo timore, nei giorni dell’aprile 1859, indugiava a manifestare
apertamente le idee dell’Unità d’Italia, anche se, nella loro casa era stata
preparata la bandiera tricolore, proprio quella che apparirà per prima in
Toscana, a quel balcone il giorno 27 aprile. Guido è partecipe a queste vicende
anche se, come ascolterete, le sue attenzioni saranno completamente rivolte
all’innamoramento per Filli, una bambina, sua coetanea, di una famiglia greca
da poco trasferitasi in città, in una casa sulla stessa Piazza, poco distante
dalla sua.
La
famiglia Nobili, nella descrizione di Guido, piccolo testimone, così visse
l’entusiasmate giornata del 27 aprile 1859:
“…la mattina venne la Teresa a risvegliarmi, aprì la finestra e, con quel
fare compassato da governante inglese, mi disse: -Chi dorme non piglia pesci.
Intanto oggi non si va a scuola. – Ha forse partorito la Granduchessa ? – Altro
che nascite! Oggi vi è qui, proprio sotto le finestre, qui in piazza, la
rivoluzione. – La rivoluzione? Rimasi trasecolato. – Via, si vesta subito, se
vuol vedere! Non sente le grida della folla? In un baleno fui pronto, e corsi
subito in sala, dove trovai tutta la famiglia. In un canto c’era la grande bandiera
tricolore che di nascosto avevo visto
cucire. – Buon giorno Micio, - mi disse piano mia madre accarezzandomi e
facendomi sedere accanto a lei; ma io riscesi subito dal divano e andai a dare
un’occhiata alla piazza. Era un mare di popolo, che ogni tanto urlava a
squarciagola. Si sentiva prima un silenzio, quindi una voce rauca faceva un
discorso lungo una cinquantina di parole; e poi battimani ed un urlio che
arrivava in cielo. – Dunque si mette o non si mette fuori questa bandiera?
Diceva lo zio Niccolò un po’ eccitato. – Tu stesso l’hai detto, - rispondeva lo
zio Guglielmo, - che l’ordine del barone Ricasoli era attendere un capitano,
che avrebbe mandato lui, per poter incoraggiare maggiormente il popolo, che lo
vedesse al terrazzo insieme alla bandiera. – Ma qui si fa tardi, saltò a dire
mio padre, - Pare quasi che si abbia paura…o capitano o non capitano – replicò
lo zio Niccolò risoluto, io la metto fuori questa bandiera; sarà quel che sarà.
Infatti, presa la bandiera la portò al terrazzo e la sventolò. Urli ed evviva
giù dalla piazza accolsero il vessillo tricolore, che si spiegava al sole di
una bella giornata di primavera. Era il vessillo dell’Unità d’Italia, che il 27
aprile 1859 in
tutta Firenze e dalla casa mia per primo compariva alle acclamazioni del
popolo. Poco dopo altre due bandiere sventolavano ai balconi. Dalla via San
Paolo arrivavano frotte di soldati; che, mescolandosi alla turba,
fraternizzavano col popolo in rivolta e quindi, dietro a una bandiera tricolore
portata da cittadini e militari con una carrozza che se ne andava al passo,
tutta la moltitudine si avviò sempre gridando a squarciagola, per la via
Sant’Apollonia, ora via 27 Aprile verso il centro della città e il Palazzo
della Signoria. La rivoluzione aveva trionfato. Ed io? Rivoltai subito giubba
diventando il giorno stesso un giacobino!
Guido
diventò avvocato e visse nella casa dei suoi antenati. Egli affermò che un
giorno sulla facciata del suo palazzo sarebbe stata posta questa iscrizione: “Qui
nacque un illustre ignoto che seppe apprezzare per quel che valeva l’uman
genere”. Ma così non è stato ed i
posteri vi hanno scritto: “Qui visse Guido Nobili che con arte delicata rievocò
la vita fiorentina dell’ottocento”. Se qualcuno di voi passerà da Piazza
dell’Indipendenza, osservi le due statue del Ricasoli e del Peruzzi, due
protagonisti che non si amavano, della nuova Italia ed alzi lo sguardo verso la
casa del nostro eroe, il bambino innamorato, protagonista della storia che mi accingo
a raccontare.
Nella
primavera del 1859, in
Piazza Maria Antonia, come allora si chiamava prima che avesse il nome di
Piazza dell’Indipendenza, era stata da poco messa la ghiaia. Guido e Filli vi
si recavano a giocare, pur non conoscendosi ancora. Un giorno Guido, giocando,
perse un gemello del polsino della camicia e cominciò a cercarlo
affannosamente. In quel momento Filli uscì con la madre dal palazzo e Guido si
sentì in grande imbarazzo in quanto non era cosa educata per un signore
mostrarsi giù piegato e così pensava che un signore perde la roba, ma non la
ricerca, tutto al più mette gli avvisi alle cantonate perché gliela riportino,
mentre lui era costretto a grufolare fra la terra! La bambina che Guido aveva
scorto nel fulgore della sua bellezza era là a saltellare con la corda proprio
vicino a lui, e così non poté fare a meno di guardarla: ella, con un sorriso che era un incanto gli
chiede in francese se ha perso qualcosa…e lui buttandosi a capofitto nel
francese che conosceva appena le dice di aver perso un gemello, cioè un
bastoncino d’oro che stava al polsino della camicia. Filli allora chiama in
aiuto il fratello Giacomo, più piccolo di lei,
poi arriva anche la madre, ed in quattro si mettono a rovistare sotto una
panchina. La madre parla con Filli in un’altra lingua che non era affatto
quella francese e la figlia, seguendo le indicazioni della madre trae da sotto
la panchina il bastoncino d’oro che stavano cercando.
Da
questo momento per Guido inizia una serie di avventure che è impossibile, per
il tempo che occorrerebbe, leggere per intero, come meriterebbero, ma solo
accennare a quelle che ho ritenuto essere le più piacevoli ed interessanti.
Il
giorno dopo il “gemello” Guido e Filli si ritrovano in Piazza e fanno amicizia.
Guido viene a sapere che Filli è greca e che in realtà si chiama Matilde
Elisabetta e lui le dice che in casa anche lui chiamano “Micio”.
Cambiando discorso Guido
aggiunse: Mia madre ieri, quando ti vide, disse che eri molto bella. A te non
sembro? Ahi ahi, ero subito in imbarazzo. Come si fa a cavarsela?
Se
dico di sì, che è bella, dicevo tra me, questa può credere ch’io sia innamorato
di lei, ed io innamorato in vita mia non sarò mai; a dire di no, sarebbe uno
sgarbo, una grossolanità che non voglio fare, e che ella non merita; e per
avere tempo di meditare una risposta che mi togliesse d’impaccio, mi misi a
guardarla per un momento negli occhi.
Che
cosa ci vedessi in fondo a quegli occhi violetti non so; mi parve che,
guardandoli, il collo mi si allungasse, la gola mi si piegasse all’indietro,
provai quel non so che, che mi sono figurato debba provare l’usignolo allo
sguardo della serpe; e per non rompere l’incantesimo mi scossi, e non seppi
dirle altro: - Non sei bella, sei bellissima! E poi con una giravolta, un
salto, una stupida risata, me ne andai via di corsa al largo, girandole
attorno. Lei sciorinò la corda e saltandola mi fu appresso, e Giacomo pure, e
tutt’e tre poi correndo, arrivammo alla cantonata di via Barbano, dove già era
cominciato l’abituale crocchi etto dei monelli.
Guido
combatte sulla Piazza contro una banda di ragazzacci e viene colpito alla testa
da una sassata che al momento lo tramortisce. Condotto in casa e medicato, dopo
due ore non manifesta più alcun malore. Ma la sentenza della madre è rigida e
inappellabile: due giorni chiuso in casa, senza uscire e…a pane ed acqua!
Al
secondo giorno della punizione la madre lo minaccia di metterlo in Collegio a
Volterra, vestito da prete, e lo rimprovera di “non aver cuore”.
Era
una leggenda, che su di me s’era formata in famiglia, che avessi poco cuore.
Essa aveva la sua storia. Una volta negli anni avanti, ero stato condotto al Teatro della Pergola,
dove si rappresentava l’opera di Verdi, il Trovatore. Io, a quell’età, più che
della musica, mi interessavo del fatto dell’opera; e anzi deploravo che gli
artisti, invece di recitare, cantassero, il che mi impediva di raccapezzarmi
nello svolgimento del dramma. Era costume delle persone di condizione di non
stare al Teatro fino in fondo allo spettacolo. Molto prima della fine
dell’ultimo atto, si lasciava il palco, per ritirarsi nel foyer, in attesa che
il chiamatore avvisasse la carrozza di tale o tal’altra famiglia che era alla
porta. Il trattenersi fino alla fine dello spettacolo era da contadini, e non di
buon genere; ma a me interessava di sapere come la rappresentazione andasse a
finire quella sera, e mentre mi infagottavano nella cappa, domandai con premura
a mio padre come andasse a finire per quel Trovatore. Mi rispose: - Ora lo
ammazzano, ed è finita. – Ecco, ho capito! Dissi fra me. – Si va via prima
dello spettacolo per non mi far presenziare a questo strazio. – Ma dimmi, gli
domandai ancora, che ne ammazzano uno tutte le sere dei Trovatori? Mia madre,
che sentì questa interrogazione, ne rimase trasecolata: - Come?, diceva, - Con
tanta tranquillità, con questa serenità, lui ha creduto che veramente
quell’uomo debba venire ammazzato, se ne va a casa senza preoccupazione della
cosa?! Ma questo è un mostro di ragazzo, è un piccolo Nerone, non ha cuore!
La
cosa fu raccontata in famiglia e la sera, sul menù del pranzo uno degli zii,
all’arrosto, invece di rondoni, aveva fatto scrivere: “arrosto di trovatori”.
Finalmente
Guido esce di casa e ormai guarito dalla sassata incontra Filli, va nella sua
casa, conosce il babbo, un omaccione greco senza un occhio che lo accarezza, e
nell’uscire da questa casa, Filli, nell’accompagnarlo alla porta gli sussurra:
- Siamo stati a fare spese in città, ma ora io e Giacomo torniamo un poco in
Piazza; fa d’esserci; sto tanto volentieri in tua compagnia.
Girai
tutte le stanze di casa mia, perché i miei mi vedessero, e nessuno potesse
sospettare che d’arbitrio ero andato in “casa terza”, come si usava dire, e poi
tornai sulla Piazza; Filli era là che saltava la corda. Sedutici su di una
panchina, le domandai perché il giorno
di poi, che era domenica, non venisse alla Messa delle undici alla chiesa di
San Marco, dove mi conduceva mia madre; e a quale chiesa andasse. – Ma io,
rispose Filli, - non vado alla tua chiesa; io sono ortodossa.
Se mi avessero in quel momento
strizzato con una mano il cuore, non avrei sentito tanta penosa impressione
quanta ne abbi a quella notizia; e premurosamente mi diedi ad indagare in che
differisse la mia dalla sua religione; perché si trattava di sapere se Filli
fosse dovuta andare o non andare all’inferno, per non essere regolarmente
cristiana. – Ma tu credi in Dio? – le domandai con ansia. – Altro se ci credo.
– E in Gesù tu credi? – Voglio tanto bene a Gesù. – E nella Madonna non credi?
– Come si farebbe a non credere nella buona madre di Gesù? Dello Spirito Santo
me ne ero dimenticato; ma in questo ero scusabile, perché non avevo mai
occasione d’interessarlo dei fatti miei. – E allora in che differiscono le
nostre religioni? – Non lo capisco, - diceva Filli, guardandomi penosamente in
viso. - Forse perché i nostri preti non
dipendono dal Papa come i tuoi. – Già, dev’essere così.
Quando
ci lasciammo, ero di umore malinconico; l’idea che la buona, la bella amica mia
avesse dovuto andare all’inferno mi tormentava l’anima. Avrei voluto essere
bene edotto in cose di religione per illuminarla, salvarle l’anima, e poi
ritrovarsi insieme in Paradiso. Lassù in Paradiso, io e Filli, che corse! Senza
paure di Volterra, senza frustino, e tutto il giorno insieme!
Andai
dalla zia Luigia, che era la specialista della casa in materia di religione, e
con tutta la circospetta diplomazia la interrogai circa l’argomento, che tanto
mi stava a cuore. – Dica, zia, - incominciai, - in che differisce la nostra Religione
da quella ortodossa? – Differisce: che la nostra è vera e quella è falsa. –
Come si fa a riconoscere le Religioni vere da quelle false? – Che discorsacci
son codesti? Delle Religioni vere non c’è che la nostra, e tutte le altre sono
false.
Vidi che per questa via non si
sfondava; forse nemmeno la zia sapeva di queste differenze, e cercava di
cavarsela alla meno peggio; e allora la strinsi con gli argomenti un poco più
da vicino. – Ecco, stia a sentire: io ho un amico, al quale voglio molto bene;
ma è ortodosso di religione, perché suo padre e sua madre sono di quella
religione. Che colpa ha lui di essere di quella Religione? Anche se tutta la
vita si conducesse come un santo da altare dovrà andare all’inferno? – Non c’è
remissione, bisogna che vada all’inferno! Questa tagliente sentenza mi si
ripercosse nell’anima come un colpo mortale. Troncai ogni discussione con la
zia, e me ne andai tutto addolorato. – Dica, zia Luigia, - le domandai la
mattina dipoi, - cosa ne penserebbe Dio se uno si offrisse di andare
all’inferno per un altro? – Li manderebbe all’inferno tutti e due. - Come?
Neppure se questo cambio glielo chiedesse la Madonna o Gesù? – Che contano a confronto della
volontà di Dio? Questa sconcertante risposta mi ripiombò nello sgomento, e
tanto mi perturbò, che, lasciata la zia, riparai in camera mia, e voltandomi
verso il quadretto dell’immagine della Madonna, amorevolmente la guardai senza
poterle dire niente. - Guardi, guardi, signorino, lì in Piazza vi è il suo
amico con la sua bella sorellina che guardano il cielo con un canocchiale. Così
mi disse un dopo pranzo la
Teresa , che era andata a chiudere la persiana di sala. Corsi
a vedere, era vero. Ora una ora l’altro, passandosi un canocchiale, guardavano
in su e rimanevano estatici. Guardai in qua e là nel cielo, non vidi niente
d’insolito che meritasse l’uso speciale del canocchiale, per cui la curiosità
viva mi punse di sapere cosa fosse lo scopo di tanta attenzione verso il cielo
e, ottenuto il permesso da mia madre, corsi in Piazza a raggiungerli. – Guarda,
- mi disse Filli, con la sua voce d’argento, - metti questo tubo all’occhio e
vedrai che cosa ha regalato babbo a Giacomo. A me ha comprato una scatola di
tinte a tubetti perché dipingo i fiori. Io tenevo fermo il tubo all’occhio,
mentre Filli cautamente si avvicinava; quando fu presso alla mia guancia, e ne
sentivo l’alito, mi dette un bacio! Stolzai come se fossi stato toccato da un
bottone di fuoco. Se fossi stato un cane, tanta fu per me la sorpresa lì sul
momento, sono certo mi sarebbe incoscientemente scappato di dare un morso a
Filli. Di lampo la guardai con occhio torvo come se si fosse presa con me una
confidenza sguaiata; ma vedendola sorridente, tranquilla, che mi guardava con
quelle sue stele saettanti, abborracciai ancora io un sogghigno sghimbescio, e
per arrivare più presto in fondo a una situazione per me disorientata, tornai
in fretta a guardare nel foro del caleidoscopio.
Rientrato
a casa, andai a guardarmi allo specchio, perché mi si era fitta in mente l’idea
che si dovesse vedere l’impronta del bacio di Filli. Non si vedeva niente, ma
pure ripensando a quel bacio sentivo in me una piacevolezza, che mi ricordava
alla lontana quella dolce impressione già provata qualche volta, quando tutto
infreddolito cominciavo a riavermi in un letto ben riscaldato. – O che sia
questo? – mi domandavo. – O che il bacio di una bambina bella è come il morso
di un can guasto, che si risente dopo? Che io sia innamorato!? Ma i ragazzi,
che sappia, non s’innamorano. Caso volle che la sera la conversazione cadesse
su Dante Alighieri. Lo zio Cesare diceva l’aveva trovata noiosa la Divina Commedia. – A me ne
basta una per rappresentarmelo quel Dante come un legno torto, - insistè lo zio
Cesare, - ed è quella, che a nove anni s’innamorò di Beatrice. – Mamma mia! –
dissi dentro di me con il cuore in grinze. – Che tutto questo rigiro su Dante
sia stato messo su per dare di traverso una bottata a me? Questi zii li
conosco! Sono innamorato davvero! – pensavo, - sento che vorrei poter dare
anche io un bacio sulla gota di Filli, come l’ha dato a me. Non c’è che dire,
lo riconosco, sono innamorato!
Avevo
sentito dire, mi era ronzato agli orecchi, che ci sono degli uomini che mettono
in mezzo le donne, ed io non conoscendo i particolari di questi inganni, temevo
che seguendo questo impulso, mi andassi avviando proprio sulla cattiva via, ed
avrei piuttosto incontrato qualunque sacrificio, di quello che rendermi
colpevole a riguardo di quella povera Filli, ormai diventata il mio pensiero
fisso ed intenso.
Quando
mia madre la mattina si faceva pettinare, qualche volta mi sedevo sopra un
piccolo panchetto presso di lei, e prendendole i lunghi capelli neri che
toccavano terra, mi divertivo a scoscendere la forca che suol fare il capello
lungo; ed in questo tempo, mentre Teresa passava il pettine alla sua
capigliatura, facevo conversazione con mia madre, ponendola bene spesso in
gravi imbarazzi per rispondere agli argomenti che le proponevo. Quella mattina
aspettai di proposito che la
Teresa se ne fosse andata, e poi buttavi là questa domanda: -
Se Dio voleva che non ci fossero altre Religioni, perché fa nascere i figli
anche dai matrimoni contratti con le false Religioni? – Senti, stamani ho poca
voglia di discorrere, - rispose mia madre un poco imbarazzata. – Una volta che
i figliuoli nascono anche a quel modo, è segno che questa è la volontà di Dio.
Non ti par chiara la cosa? – O senza punti matrimoni i figliuoli possono
nascere? – Senti, Micio, se non ti levi d’attorno, peggio per te, - mi rispose
un po’ contrariata. – Questi sono argomenti che non ti devono interessare. E’
una noia avere un ragazzo verboso ed entrante come te. – Domandavo questo,
perché avevo curiosità di sapere come aveva potuto fare la balia, che ha preso
la zia Maddalena, a fare un bambino senza aver marito? – Dunque sei maligno?
Chi ti ha detto questo? – C’ero presente quando la procaccina di balie diceva
alla zia: prenda questa che è ragazza. E’ un buon carattere, e così non avrà la
seccatura del balio per casa, e spenderà meno. Fu messa in mezzo da un birbante
con la promessa di sposarla, e poi fu scoperto che aveva già moglie; ma creda è
una buona figliuola. – Tante volte la gente discorre senza badare ai ragazzi!
Ma tutto questo discorso che ti riguarda? Micio, che t’interessa? – E’ perché volevo
sapere come si fa per fare i figliuoli. Una volta che anche te li hai fatti,
devess’ere una cosa da persone perbene.
Ormai
nell’argomento ero entrato sotto misura, come si dice in linguaggio
schermistico, ed era un po’ difficile a mia madre cavarsela con prudenza, e
senza destarmi sospetti, e le convenne torto collo continuare il tema di
conversazione da me proposto. Questo lo saprai meglio quando prenderai moglie,
C’è tempo! Ma poi, se ti preme saperlo, purchè tu non lo racconti a nessuno, te
lo dico in confidenza, perché ai ragazzi fa torto sapere certe cose. Quando un
uomo e una donna sono innamorati, e si baciano, molte volte, ma non sempre
però, un figliuolo è di conseguenza.
Con
questa trovata mia madre credeva finalmente di essere arrivata al punto fermo
della conversazione; ma s’ingannava, non sapendo quale fosse lo scopo della mia
inquisizione. E continuai: - E allora, perché vuoi che io dia un bacio alle mie
cugine quando vengono a farci visita? – Perché né te né loro di certo siete
innamorati. Ma ora basta; delle stupidaggini ne hai dette abbastanza. Vattene!
Voglio finire di vestirmi. Mi prese per una mano, mi accompagnò alla porta e mi
mise fuori di camera.
“Dunque,
- rimuginavo fra me – non sbagliavo nell’essere prudente con Filli. Guardate un
po’ a che rischio si era messa con me quella povera creatura per la sua
innocenza! Fortuna che io sono riflessivo, e qualche cosa sapevo, sebbene in
confusione, altrimenti chissà a quali conseguenze esponevo lei e me. V’era il
caso di vedere qualche giorno il padre di lei venire infuriato a cercare di mio
padre, e allora altro che Volterra! Solamente a pensarci mi si accappona la
pelle. Ci si può immaginare lo scandalo che sarebbe successo, il diavolerio e
le canzonature degli zii, se avessi messo un figliuolo al mondo! Meno male che
fui prudente, e lo sarò. Però sarebbe stato per me un bel balocco avere un
figliuolo proprio vero di carne e ossa; l’avrei condotto alla villa
dell’Impruneta, gli avrei insegnato come si fa nei ruscelli a cavare i granchi
dalle buche senza farsi mordere, lo avrei istruito a salire sulle piante per
cogliere le frutta, e poiché sarebbe mio, quando fosse stato cattivo, l’avrei
frustato. Ma non ci facciamo prendere da fantasie, è meglio, molto meglio non
trovarsi in queste cose”.
Dopo
un periodo di stagionaccia, durante il quale Guido e Filli non si videro più,
al tornar del bel tempo Guido la incontrò sulla Piazza portandole una gardenia.
Mi hai portato un fiore; sapevi allora che era la mia festa? Stasera alle sei
finisco nove anni. Tu verrai? Dimmi che verrai; sii compiacente con me, che ti
voglio tanto bene. A questo punto buttai da parte ogni retro pensiero e con
l’energia di un uomo, di cui non mi credevo capace, le risposi: - Ma ancora io
ti voglio tanto bene! Non ho altro pensiero che di te; tu mi hai presa l’anima
intera; ma penso con dolore che mentre tanti, che son più grandi di noi, hanno
delle speranze nei loro affetti, la nostra minuscola età non ce ne consente
alcuna.
A
questo mio discorso, o presso a poco di discorso, che per la prima volta apriva
l’animo mio a Filli senza veli e senza reticenze, essa si mise a piangere. Io
mi fermai, la guardai e mi avvidi che non dalla cantonata dell’occhio
scendevano le lacrime, ma in assidua fonticina sgorgavano dalla metà della
palpebra, e pensai che quella diversa scaturigine del pianto, dovesse essere
una caratteristica speciale greca. – Ma Filli, Filli mia, non piangere; mi par
di non aver detto cose, che ti dovessero portare fino a codesto. Non piangere,
perché se fai piangere anche me, nel dolore non so essere garbato e carino come
te, quando piango io bercio più forte di un asino che raglia, e allora correrà
tua madre, correranno quelli di casa mia; come si giustificherebbe poi questo
tumulto?
Entrò
Filli nell’atrio di casa mia, le asciugai le lacrime colla pezzuola; non la
baciai, benché mi ci sentissi spinto; però la strinsi al petto un secondo
minuto, e poi le dissi: - Vedrai che stasera verrò da te. – Giuramelo. In vita
mia promettere è stato sempre come giurare, ma in quella circostanza, fuori di
me dall’emozione, non rifuggii dalla solennità del giuramento, e quando ci
lasciammo le ripetei: - Ho giurato che verrò, e puoi contare che qualunque cosa
mi possa accadere, prima delle sei sarò a casa tua; ma tu mi devi promettere di
non piangere più, perché le tue lacrime mi fanno pena quanto e più se vedessi
un poverello morire di fame. Io non ritorno in Piazza, aspettami a casa tua
alle sei; fin d’ora puoi dire a tua madre che ho ottenuto il permesso.
Il
bel gesto l’avevo fatto, con Filli. Alla volata mi ero slanciato; ma ora il
momento serio era quello di chiedere e anche di ottenere questo permesso. Vi
era l’abitudine in casa che, se le persone non si conoscevano per relazione, la
prevenzione era contro, e non si dovevano frequentare. Le famiglie, senza
eccezione, dovevano essere del primo cerchio delle mura di Firenze, oppure che
avesero avuto un antenato alla prima crociata; la seconda crociata cominciava
ad essere sospetta; figuriamoci poi la famiglia di Filli, che erano degli
stranieri di chi sa dove, e non si poteva sapere a far che venuti a Firenze. E
poi, è un’abitudine ormai inveterata nella disciplina di tute le famiglie, il
negare tutto ai ragazzi, anche le cose più futili e innocenti, per solo sfoggio
di autorità.
Ma,
finalmente, attraverso abili sotterfugi, Guido riesce ad andare a casa di Filli
e ci fa tardi. Ne discendono varie conseguenze e situazioni comiche, si
nasconde sotto il letto del nonno, cade uno scudo d’argento, trovano “Micio”
impaurito e così viene preso in giro tra scherzi e risate. Ma ecco che avanza
l’estate! I Nobili decidono di andare in “villa” all’Impruneta e Guido non fa
in tempo a salutare Filli.
La
carrozza si mosse, ed io allungavo il collo per guardare la Piazza , nella insulsa
speranza di vedere Filli. Quando si voltò in via Sant’Apollonia e che la Piazza si andava perdendo
di vista, mi sentii un groppo alla gola, la bocca mi si storse in un garbaccio,
e cominciai a piangere a dirotto. Ma il tempo passò veloce e il 3 novembre
Guido parte dall’Impruneta e dopo aver passato Porta Roman tra il batter dei
magnani che rintronava le orecchie disusate ai forti rumori; un odore di
castagne arrostite si spandeva nella’ria, e il lamentoso grido del venditore di
stoie e quello degli spazzacamini, che s’incontravano per le vie della città,
facevano piombare l’animo in un mare di tristezza, tetro ed ampio, quanto il
pensiero della morte. Quella volta, per quanto il tempo fosse perfido, e la
vitraggine noiosa come al solito, nella gita di ritorno in città l’animo mio
esultava. Il pensiero di Filli era assorbente. Tuttavia la cattiva stagione non
permette a Guido di uscire dal suo palazzo per alcuni giorni, poi, finalmente,
con la scusa di portar fuori un cane da caccia, comprato in quei giorni dallo
zio Cesare, potei uscire e, non importa dirlo, andai subito a dare una passata
sotto le finestre di Filli. Anche da quella parte tutto come prima; né Filli,
né Giacomo, né sua madre, né suo padre, si facevano vivi. Mentre stavo lì melenso, a guardare porta e
finestra, uscì la loro donna di servizio. Mi si allargò il cuore. Mi salutò, ed
io mi feci ardito di fermarla per domandarle: - I vostri padroni stanno bene? –
Stanno bene; ma io non sto’ più con loro; sono rimasta con la nuova affittuaria
del quartiere ammobiliato, che è una vecchia signora inglese; loro fino dal
primo del mese sono andati a stabilirsi a Prato. Bumh!!! Un’archibugiata carica
a veccioni, che tirata dappresso investisse in pieno un miserello scricciolo
saltellante nella macchia, avrebbe fatto meno strazio del suo corpo di quello,
che fece dell’anima mia la inaspettata notizia. La capinera, che trovi il suo
nido disertato dalla serpe; una madre, che d’un subito si veda spirare la sua
creatura sana e vegeta fra le braccia, possono aver provato quanto provai io in
quel momento. Sentivo come un artiglio di ferro, che ne petto cercasse di
strapparmi i visceri. Corsi via come un pazzo, andai a rimpiattarmi nel luogo
più appartato di tutta la casa mia…e piansi tanto!
Da
quel giorno non vidi più Filli, né seppi nuova di lei. Solamente qualche anno
dopo, non ricordo da chi, mi fu detto che era stata sposa di un ufficiale di
cavalleria. Mezzo secolo e più è passato; una selva di anni si è messa di mezzo
fra quei giorni d’amore e di dolore, e l’oggi; ma l’immagine di Filli, chiara,
colorita e fulgente, è sempre viva nella mia memoria e nel mio cuore.
Questa
è dunque la conclusione melodica di Guido Nobili ed anche la conclusione del
mio racconto. Mi chiedo tuttavia, anch’io, come Pancrazi e Pampaloni, “…ma che
cosa c’è nascosto in quella “selva di anni”? Soltanto altre donne, altri
giuochi d’amore, come sembrerebbe suggerire lo stesso autore? Nella selva di
anni c’è tutto: la delusione politica, l’avvento della mediocrità, la fine di un’epoca
sognata mentre il babbo e gli zii si preparavano ad esporre dal balcone di casa
il bandierone italiano; c’è il ripiegarsi amaro dell’autobiografia dell’uomo
Nobili nelle pieghe d’ombra di una storia non amata. E ciò che punge di più,
nel rimpianto del passato, non è tanto l’infanzia, ma una verità che vi
sentiamo sepolta, un valore dimenticato, un in sé della vita ove era forse il
meglio di noi che è rimasto segreto. Forse è questo l’elemento poetico nuovo di
Memorie lontane: un che di amaro, di incompiuto che sta dietro il sorriso e si
mescola struggente alla dolcezza del ricordo. Proprio come nello nostre Memorie,
ormai lontane.
mercoledì 18 novembre 2015
Geotermia, tecnologia,
futuro sostenibile.
Ecco un pozzo geotermico, nel
Comune di Castelnuovo di Val di Cecina,
della cui ubicazione mi sento un po’ responsabile, sia perché in quegli
anni (1987-1993) ero sindaco, sia perché facevo parte della commissione
preposta alla ubicazione sul terreno, dopo gli studi geominerari,
del pozzo vero e proprio: il pozzo, Bruciano 1. L’iter autorizzativo e
la valutazione d’impatto ambientale non furono rapidissimi, dato che il pozzo
veniva a trovarsi in un’area particolarmente pregiata sul confine di tre
province e di quattro comuni (Pisa-Siena-Grosseto e Castelnuovo di Val di
Cecina-Radicondoli-Monterotondo Marittimo e Montieri). Ma alla fine tutto
risultò in regola, anzi, con gli accorgimenti di poter eseguire più pozzi,
oltre a quello verticale, direzionali, in modo da occupare la più ridotta
porzione possibile di terreno. Il primo pozzo verticale, il Bruciano 1, fu
perforato nel 1988 e raggiunse la profondità di 3344 metri . Risultò
produttivo, ma fu chiuso in attesa della costruzione di una nuova centrale
geotermoelettrica ubicata in località Lungaiano
di Cornia, e dopo la sua entrata in servizio vi fu allacciato mediante un
vapordotto mimetico, senza lamina di rivestimento lucente, ma verde opaco. Da questo
primo pozzo verticale ne furono perforati altri, sempre partendo dalla stessa
piazzola, ma direzionali, con notevoli spostamenti al fondo. La profondità
maggiore raggiunta fu di quasi 4000 metri . Recentemente è stato operato un
ripristino del pozzo, con una trivella di modernissima concezione, dotata dei
più innovativi e sofisticati automatismi, e adesso sono in corso le misure
fisiche e chimiche del vapore geotermico. Stamattina questo era lo spettacolo
del bianco vapore nell’ambiente naturale ancora “intatto”. Grazie geotermia,
per dare alla Toscana il 25% dell’energia elettrica di cui ha bisogno,
alleggerendo la dipendenza italiana dal petrolio e dalle altre fonti
d’importazione. Siamo qui da oltre 200 anni, tra “soffioni”, centrali
geotermiche, CO2, H2S, e vapordotti ed anche crimini (vedi l’uso di
amianto per le coibentazioni di vapordotti ed altri macchinari), ma tuttavia in
buona salute, non minore, statisticamente a quella che si riscontra nelle aree
più “immuni” da tutto, cioè, quasi disabitate!
E l’unica cosa della quale ci si
lamenta è “il progresso tecnologico” che ha introdotto i telecomandi,
l’automazione, la robotica, le telecomunicazioni…in attesa degli eliporti per
le squadre addette alla manutenzione delle oltre 30 centrali e decine di altri
impianti sul vasto territorio. Certo, dai 2000 dipendenti + 1000 delle Ditte
Appaltatrici dell’anno 1963, siamo ridotti a circa 1000, complessivamente e la
fuga dei giovani ci penalizza. Anche il decentramento decisionale non ha
portato utili, semmai ha impoverito quel patrimonio di cultura e di esperienze
maturato a Larderello dal 1818 al 1963. Ma è acqua passata, in attesa di un
“nuovo rinascimento”, difficile, ma possibile.
sabato 14 novembre 2015
GIORNATA
DELLA POESIA
14 novembre 2015, ore 17, c/o la sede del CHIASSINO (Sotto la Voltola ) a Castelnuovo di Val di Cecina
Buonasera
a tutti e grazie per essere presenti! Ringrazio, in particolare, i familiari di
Milani Fortunato e la nuora, signora Nella Bogi, che ha gentilmente collaborato
alla stesura della biografia e del carattere di Fortunato.
Quest’anno
parleremo di un poeta-cantastorie, Milani Fortunato, di Sasso Pisano, e del suo
poema Vita e morte del fascismo, del quale riassumeremo le 102 ottave. La
commemorazione cade in un anniversario speciale: il 70° della Liberazione
dell’Italia e dell’Europa dal Nazifascismo, tema al quale Fortunato ha dedicato
il suo più importante componimento dopo una vita intera di duro lavoro, come
fornaciaio, e di composizioni poetiche in ottava rima, che ne hanno fatto, per
decenni, uno dei personaggi più noti delle Colline Metallifere, nonché storico,
e partecipe, con il suo alto senso della verità e della giustizia, delle
vicende cantate.
Nella
biografia di Fortunato ha una grande importanza la figura del padre, Prasildo
Milani, del quale proponiamo una sintetica scheda.
Milani
Prasildo, figlio di Vittore, morto nel 1924, non ha praticamente una biografia
e le testimonianze raccolte tra il 1993 e il 1994 dai parenti furono esigue.
Esse vennero integrate dall’articoletto
di Giliante Baroncini sul periodico della parrocchia di Sasso Pisano nel
novembre 1975 ed anche da qualche ulteriore notizia fornitami dall’amico e
storico etnologo Renzo Brucalassi. Sappiamo dunque che Prasildo era un poeta,
forse più bravo del figlio, anche se non esistono testi scritti, poiché egli
soleva improvvisare alle veglie dove si confrontavano due o più poeti
estemporanei in “contrasti” in ottava rima, una forma poetica allora abbastanza
diffusa nell’Alta Maremma. In qualche occasione Prasildo si portava dietro
Fortunato, avviandolo così alla passione per il canto. Fu così che una sera, a
veglia, Prasildo e Fortunato cantarono tanto a squarciagola per tutta la notte,
con umido e freddo, che la mattina seguente Fortunato si trovò senza un filo di
voce! Andarono dal dottore che gli disse “Fallo cantà meno all’umido e dagli
roba calda!” Baroncini così lo ricorda: “…Prasildo cantava di poesia. Era
quello che si dice un poeta estemporaneo. Le sue ottave erano casarecce,
limpide, spontanee. Per questo piaceva. Abitava alla Burraia. Io, ragazzetto,
gli ero amico e naturalmente lo ammiravo. Egli l’aveva capito e non mancava
occasione di farmi ascoltare i suoi versi. Quando ci incontravamo, se ero solo,
mi si fermava dinanzi, stendeva il braccio
a mò dei trobadores antichi e componeva lì per lì un’ottava che mi
cantava con la sua voce baritonale un po’ roca. Il tema cambiava sempre e
quando l’argomento non poteva essere trattato in una sola ottava serbava il
seguito al successivo incontro! Aveva una memoria eccezionale! Era difficile
che egli ricorresse alle licenze poetiche, ma quando lo faceva tirava fuori
certe parole così aggrovigliolate che quelle di Marinetti erano, al confronto,
espressioni semplici! Alle figlie aveva imposto dei nomi che in qualche modo
avevano a che fare con la poesia e la mitologia: Marfisa e Diomira; al figlio
maschio invece aveva messo il nome più prosaico di Fortunato.. “O Prasildo –
gli chiesi un giorno – o come mai avete chiamato vostro figlio in quel modo?”
“L’ho fatto per portargli bene. Nel mondo se n’ha sempre bisogno!” Io ricordavo
di aver letto qualcosa di un altro poeta sasserino e rammentavo perfettamente
gli ultimi due versi di una sua poesia: “Ponendo fine a questi versetti/di voi
mi firmo Stefano Pighetti”. Fu forse pensando a questo che un altro giorno gli
chiesi perché non scrivesse qualcuno dei suoi canti: “Non posso. I miei versi
mi vengono spontanei, dal cuore, dall’aria, dal sole, dal vino, io cantandoli
li restituisco al sole, all’aria, al cielo, al vino”. Un giorno, di ritorno da
Bruciano, dove avevo portato un telegramma,
lo incontrai nella spianata del castagno primaticcio e “Guarda – mi
disse porgendomi una lettera – mi hanno invitato alla gara provinciale di
poesia che si terrà al Fitto di Cecina” “Ci andate?” “Certo. Partirò domani
dopo desinato, pernotto a Saline e la mattina dopo, col treno raggiungerò
Cecina” “Sono sicuro che vincerete il primo premio! Auguri!” “Grazie – mi rispose,
posandomi una mano sulla spalla – io in queste gare importanti son sempre
arrivato secondo. E ringrazio Iddio, perché tutti i diecini che ho vinto mi
hanno sempre fatto comodo. Ma lo sai che ogni volta che vinco, metà del premio
se ne va per qualche accidente…” Stette fuori tre giorni e quando ritornò era
felice: aveva portato via il primo premio di cento lirone e dieci fiaschi di
vino di quello buono di Riparbella, vino che s’eran bevuti fraternamente vinti
e vincitori! “Questa volta mi sono trattato proprio da signore – mi disse –
sono partito da Cecina per Castelnuovo e da lì il barroccio di Perfetto. Quando
sono arrivato, alle sei, ho trovato il pavimento della cucina tutto rimbarcato.
Che ti dicevo? Mi ci vorranno una trentina di lire per rifarlo nuovo…meno male
che ci sono le cento lirone…”O Prasildo – gli chiesi allora – ma dove l’ha
trovato il vostro poro babbo il nome di Prasildo? Mi guardò sorridendo: “Forse
dove il tuo dei babbi ha trovato Giliante!” E se ne andò canticchiando
un’ottava.
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Milani Fortunato…nasce a Sasso Pisano, il 14 aprile 1889, da una famiglia di
fornaciai. Muore di vecchiaia, nel paese natio l’8 luglio 1973. Vittore, il
nonno di Fortunato, faceva il fornaciaio: nell'estate faceva il fornaciaio e
d'inverno il mugnaio al Molino di Gabbana, dal soprannome che gli avevano
affibbiato, una località sperduta sul torrente Pavone, sotto il poggio di Mutti,
nella proprietà della fattoria di Bruciano. La fornace era vicina al mulino.
Anche il figlio di Vittore, Prasildo, fu avviato al lavoro della fornace e
così, quando venne il suo turno, pure Fortunato diventò fornaciaio. La famiglia
Milani non era né socialista né dichiaratamente di alcun partito, tuttavia fu
sempre antifascista. Fortunato, all'età di nove anni faceva la terza elementare
a Montieri perché Prasildo aveva preso temporaneamente una fornace alle Lame,
vicina a questo paese e andava a scuola quando poteva. Il suo maestro era un
poeta bizzarro ed estroverso e faceva continue scenate agli scolari: durante
uno di questi frequenti episodi Fortunato si rivolse in canto al maestro
dicendo "...e coi ragazzi prendi poca briga/sennò trovi i capelli chi ti
striga !...". Poi fuggì rincorso dal maestro, che non voleva picchiarlo ma
solo abbracciarlo per la inaspettata sortita! Dunque manifestava precocemente
la sua vena poetica che aveva ereditato dal padre, cantastorie in ottava rima
nelle fiere e sagre paesane e nel "maggio". Prasildo cominciò dunque
a portare con se il figlio e cantavano insieme. Una volta cantarono dalla sera
alle nove fino al giorno seguente alle quattro! senza mai smettere! Il ragazzo
perse la voce che ritornò dopo oltre ventisei giorni, ma non ebbe più la
potenza di prima. Molti altri cantastorie l'ebbero migliore, come Ottorino, il
"Nerchia". Ma Fortunato batteva tutti in estro e in cultura:
conosceva i fatti della storia, leggeva i giornali, si informava con la gente.
Poi sapeva a memoria l'Ariosto, il Tasso e altri poeti epici che cantava
frequentemente. Li aveva letti mille volte. Componeva le sue canzoni "ad
orecchio", senza nulla sapere della metrica, della rima e del ritmo, eppure venivano fuori dei
perfetti endecasillabi. Ha composto molte "maggiolate" ma i testi
sono andati perduti. Nella grande guerra ha combattuto sul Piave e fatto
prigioniero è rimasto in un campo di concentramento tedesco fino a dopo la fine
del conflitto rientrando al Sasso alla fine del 1918, decorato con medaglia e
croce di guerra. Aveva sposato nel 1909, Asia Nocenti che aveva lasciato con
due figli, Vittore nato nel 1910 e una bambina: quando ritornò dalla prigionia,
senza aver avuto notizie di loro per quattro anni, li trovò entrambi morti per
malattia. Poi sono nati altri figli, sette in tutto. Ritornato dalla prigionia
riprende il lavoro alla fornace insieme al padre, dal quale si separa per
contrasti di carattere all'inizio degli anni '20, prendendo in affitto dal
Trenti la fornace di Cornia dove avvia una notevole produzione di laterizi
assumendo stagionalmente diversi operai. Vita dura, ma economicamente positiva.
Nell'inverno, dato che non ama la stagione fredda, rimane anche 45 giorni a
casa, senza far nulla, coltivando la poesia e accomodando gli orologi che
collezionava. Poi prese una fornace a Serrazzano, all'Acquabona. Si cuocevano
mattoni, embrici e anche qualche conca e catino. Non c'erano le forme e il
lavoro era complicato. Nella fornace entravano 30 mila pezzi e per portarla
alla temperatura giusta occorrevano cinquemila fascine e venti metri di legna
grossa...Questa era la vita del fornaciaio. Fortunato non fumava e beveva solo
nelle comitive: una volta prese una sbornia, era a cantare a Monterotondo e
stette tre giorni fuori casa senza sapere dove fosse. Suonava l'organino, gli
serviva d'accompagnamento. Era un uomo che si presentava bene, buon parlatore,
di manica larga con gli amici, ma aveva il suo carattere deciso.
Le ultime testimonianze l’ho infine raccolte recentemente da
Nella Bogi, moglie di Lidio Milani, uno dei figli di Fortunato, la quale
inserisce alcuni dettagli sulla personalità del poeta: “…cantava e scriveva
sempre in bella calligrafia, ornata, in stile liberty svolazzante, si assentava
spesso da casa, anche dormendo fuori, per cantare nelle saghe e nelle fiere
paesane, nei mercati e in ogni occasione di “confronto” con altri cantastorie.
In casa aveva una grossa cassetta, chiusa, dove custodiva il libri dei grandi
poemi in ottava rima, Tasso, Ariosto, Tassoni, dei quali conosceva a memoria i
brani più salienti. Aveva pubblicato soltanto tre libricini e qualche decina di
fogli sciolti alla tipografia Confortini di Volterra, il resto delle sue
ballate in ottava era manoscritto sempre in bella calligrafia, compresa una
lettera al Papa, nella quale aveva raccontato le vicende della sua vita,
lamentando che dopo aver lavorato duramente fino alla vecchiaia, non avesse
diritto ad alcuna pensione. Il Papa gli rispose con espressioni augurali e di
simpatia. Questa lettera, della quale fu fatta una copia, e così le altre carte
di Fortunato sono purtroppo andate perdute e il ricordo della sua esistenza
appartiene solo, credo, a me vedova di suo figlio Lidio…”.
Due giorni avanti che morisse cantò due o tre ottave al
povero Valdone (Valdo Balestracci, un'altro bravo poeta estemporaneo di Sasso
Pisano) che era venuto a trovarlo. Aveva una memoria eccezionale, si ricordava
tutta la sua vita. Tutti i poeti, anche
i più famosi, sono generalmente morti poveri, ma hanno lasciato una traccia, e
una esile traccia l'ha pur lasciata Milani Fortunato.
Nel 1924 Fortunato Milani compone in 57 ottave il poema: "Il delitto del
Sasso, e il processo Confortini per l'uccisione dell'operaio boracifero
Musi" e lo fa stampare a Volterra dalla tipografia Carnielli. Nel 1925 farà seguire l'altro poema "Il
processo Franchi, per il massacro della famiglia Talocchini con le importanti
rivelazioni di Angiolino riguardanti il Confortini", poema in 31 ottave
terminato di comporre a Sasso Pisano il 19 dicembre 1924. I due componimenti si
intrecciano tra di loro e costituiscono anche un importante documento "a
caldo" di uno dei testimoni diretti dei fatti e delle emozioni suscitate
nella popolazione nel momento in cui essi avvennero. Nel 1924 il fascismo si era ormai affermato e il Milani,
pur di formazione estranea a tale ideologia, ne deve tener conto, moderando i
toni e sfumando le parti controverse, specialmente nel delitto Musi. Inoltre il
fascio aveva sfruttato per fini emotivi e di ordine il delitto "Franchi"
e addirittura aveva fatto del Franchi il principale accusatore del Confortini
nel processo per l'uccisione del Musi. Come poi è stato appurato furono i
fascisti stessi a gettare nella caldaia di acqua borica bollente, per un
tragico errore, credendo di uccidere il Confortini, il
"simpatizzante" fascista Musi. Due delitti che sono rimasti
profondamente impressi nella memoria collettiva della nostra zona, cantati
nelle fiere sulle ottave del Milani. Il poeta-cantastorie di molti altri
avvenimenti, anche a carattere più generale, diremmo moraleggianti, scriverà
alla fine della guerra, un'altro importantissimo poema in 104 ottave, dandolo
alle stampe l’8 gennaio 1946: "Vita e morte del fascismo". Finalmente
il Milani potrà cantare liberamente le proprie idee e i propri ricordi, anche
se con voce più appannata dagli anni, non solo mettendo in evidenza la
malvagità (e la stupidità) di Mussolini, Hitler e dei loro seguaci, ma ricostruendo i principali avvenimenti locali
ed anche rivelando la trama ordita dai fascisti di Sasso per nascondere la
verità sulla morte del padre, Prasildo, investito con la bicicletta da un
fascista e fatto passare morto per una caduta accidentale in preda ai fumi
dell'alcool. Su questo omicidio non verrà mai fatta piena luce e l'autore fu protetto
e allontanato dal paese dai fascisti locali credendo che il fatto portasse loro
discredito. E' un cruccio non secondario per Fortunato, anche a distanza di
tanti anni. La lunghezza del componimento non consente la riproduzione totale
del testo, ma solo parziale, che stasera sarà cantato da Simona Brogi e Riccardo
Galleri. Vi ringrazio per l’attenzione.
martedì 10 novembre 2015
Wermeer (Jan von der Meer, 1632-1675).
No, non si tratta di uno dei massimi pittori d'ogni tempo! Ma di come sia stato possibile godere della bellezza il 7 dicembre di quest'anno, in Piazza del Plebiscito a Castelnuovo di Val di Cecina, grazie a deliziose figure femminili, artigiani e musici e, tra loro, Lola. Ma chi lo sapeva? Siamo stati fortunati, senza curiosi ingombranti. Grazie a chi non ha pubblicizzato l'evento.
No, non si tratta di uno dei massimi pittori d'ogni tempo! Ma di come sia stato possibile godere della bellezza il 7 dicembre di quest'anno, in Piazza del Plebiscito a Castelnuovo di Val di Cecina, grazie a deliziose figure femminili, artigiani e musici e, tra loro, Lola. Ma chi lo sapeva? Siamo stati fortunati, senza curiosi ingombranti. Grazie a chi non ha pubblicizzato l'evento.
domenica 8 novembre 2015
EVEREST (e Colline Metallifere).
Dopo la visione del film "Everest" e le scene mozzafiato dell'ascesa "commerciale" sull'Everest (non sappiamo dove girate, se reali o virtuali...ma molto sapientemente acconciate) sono salito di buona mattina, all'apparir del sole, al Vado la Lepre per scattare qualche immagine delle placide e calde nebbie di questi giorni che precedono "l'estate di San Martino". Niente freddo, né rugiada, né vento (ed anche poche nebbie nelle valli lontane) con temperatura di + 18°C. C'era poco contrasto e la mia piccola Casio Exlim 28 mm. non ha reso la bellezza del silenzio che mi avvolgeva. Ne metto cinque, N-E; N; W. In una si vede spuntare il monte Capanne dell'Isola d'Elba e un po' a destra la lingua pianeggiante del nord della Corsica. Un caro saluto ai visitatori di questo modesto blog!
sabato 7 novembre 2015
Robert Frost.
Sempre lavorando al mio
“Canzoniere”, del quale sono perennemente scontento, ho trovato un appiglio
allo sconforto, in un passo di una lettera che nel 1914 il poeta americano
scriveva a Sidney Cox e che Giovanni Giudici riporta nella sua premessa di traduttore a
“Conoscenza della notte e altre poesie”: “Ho
bisogno, per lavorare, di parole non fatte, non di quelle ormai consuete
davanti alle quale chiunque esclama: E’ Poesia! Evidentemente la grande lotta
di ogni poeta è contro coloro secondo i
quali egli dovrebbe scrivere in uno speciale linguaggio gradualmente separatosi
dal parlato a causa di questo processo di ‘facitura’. Suo piacere deve essere
sempre quello di farsi da sé le proprie parole lungo il cammino e di non
doversi affidare all’effetto di parole già fatte, anche se siano le sue”.
Come avrò scritto in un
precedente post, in quest’anno sabbatico non ho pubblicato nulla; ma, per
onorare la promessa, ho stampato privatamente in una sola copia un libretto –
diciamo pure di prosa poetica – con il titolo “Lettere di quasi amore”, che, a differenza di Frost, non ho regalato
alla donna che amo, mia moglie, ma ho riposto nel Museo dell’Innocenza, là dove
vorrei poter mettere la prima raccoltina di poesie (anno 1953) che regalai,
congiuntamente, alle mie indimenticabili cugine, Jolanda ed Eleonora. Ma, forse
no, sarebbe troppo straziante.
The fact is the sweetest dream that labor
knows,
My long scythe whispered and left the hay to
make.
Il viaggio premio.
La mia memoria è una casa torre di circa ottanta
piani, i primi otto sono interrati, adibiti a garage
e vani funzionali, ne ho notizia, ma non sono
mai sceso laggiù,
dov’era un tempo una palude,
mentre gli altri svettano verso il cielo. Li sormonta
una pista per il lancio di una piccola astronave,
quella dell’ultima partenza, dalla quale non si
ritorna. Ad ogni piano ci sono dodici grandi
appartamenti, suddivisi in unità immobiliari,
tutti densamente abitati, si calcolano
trenta famiglie per un totale di ben
diecimilaottocento tra donne, vecchi, uomini
e bambini. Ah! dimenticavo, gatti, cani,
pappagalli ed altri uccellini. Ci son cinque
ascensori a moto perpetuo, silenziosi, che
salgono e scendono, ed anche quello speciale
per l’ultima partenza, da tutti sempre attesa,
ma che nessuno ha programmata:
molte persone sono in sosta lunga, altre
invece ricevono l’ok! senza preavviso.
Una cosa è sicura: non occorre affannarsi
a prenotare questa specie di viaggio premio,
e nemmeno a predisporre valigia, o borselli,
o scarpe di ricambio e fazzolettini di carta,
ombrelli, medicinali consueti, e nemmeno
piccole reflex digitali, tablet, telefonini, mini
computer, santini, medagliette, preservativi,
viagra e foto dei nostri nipotini: la tuta
spaziale che indosseremo non ha tasche.
La memoria di tutto ciò che fummo e di
chi ebbe con noi confidenza, emozioni,
amplessi, tradimenti, speranze, sogni, follia
- si calcolano circa quarantamila persone -
verrà istantaneamente cancellata quando
lo starter premerà il bottone rosso tre volte
di seguito, ciò per evitare ogni falsa
partenza. Dunque, cari amici ed amiche,
e lo dico anche a me stesso, non indugiamo
ad accumulare ricordi o, peggio, ricchezze,
usb, o soprammobili, siamo quaggiù, per caso,
su questo
meraviglioso pianeta
del tutto smemorato. Ciò ci consoli.
venerdì 6 novembre 2015
14
novembre 2015, ore 16,30, c/o Biblioteca Comunale di Castelnuovo di Val di
Cecina
GIORNATA
DELLA POESIA
La
giornata della poesia si svolge ormai da 27 anni. Dapprima come premio
letterario, poi dal 1998, secondo la formula attuale, basata sulla scoperta o
riscoperta di un poeta locale, dove locale vuol dire territorio delle Colline
Metallifere, tra Volterra e Massa Marittima. Alcuni amici ci domandano se ormai
i poeti da ricordare siano esauriti: no, per fortuna. Si tratta soltanto di
ricercarne i testi, le memorie, le immagini; documenti, tutti questi, spesso
rarissimi e, anche quando esistessero sono dispersi in piccole pubblicazioni o
in autografi e in carte di famiglia
difficilmente rintracciabili. Dalla nostra primeva lista ne mancano ancora 8 ed
altri si potranno aggiungere strada facendo. Dunque abbiamo abbastanza materiale da
proporre.
Quest’anno celebriamo un poeta-cantastorie, Milani Fortunato, di Sasso Pisano, con il suo
poema "Vita e morte del fascismo", del quale riassumeremo le 102 ottave. La
commemorazione cade in un anniversario speciale: il 70° della Liberazione
dell’Italia e dell’Europa dal nazifascismo, tema al quale Fortunato ha dedicato
il suo più importante componimento dopo una vita intera di duro lavoro, come
fornaciaio, e di composizioni poetiche in ottava rima, che ne hanno fatto, per
decenni, uno dei personaggi più noti delle Colline Metallifere, nonché storico,
e partecipe, con il suo alto senso della verità e della giustizia, delle
vicende cantate.
domenica 1 novembre 2015
Fosini.
Fosini [i]
Or che dei
cacciatori è spento il grido
e rapide
scendono le brume d'autunno
un gran
silenzio avvolge le vecchie mura
del castello
di Fosini sulla scogliera bianca.
Non una voce,
né un passo, né un lume
per miglia
intorno, la tenebra azzurrina
fredda di
stelle misteriose s'accende:
solo il
Riponti nella valle s'ode.
Sorge la luna
a oriente sui Tre Colli
e il tenue
raggio fluttua tra gli abeti,
batte ai
vetri del cassero,
nell'orto
spoglio indugia,
di lontane
veglie suscita ricordi
di volti e
nomi e baci e canti
che nel fluire
del tempo son spariti.
Il signor
della notte apre nel vento
l'ali piumate
per ghermir la sua piccola
preda; ora è
lui il padrone della torre,
delle memorie
antiche, dei sogni e degli
amori di gioventù,
quando
spensierato con gli amici salivo
al rustico
ballo dei contadini:
e palpitante
e caldo nella timida mano
era il seno
delle ragazze
che bevevano
vino, dolce lo sguardo
che
prometteva amore e ingenuo
il riso,
sincere le parole.
Ora ha rapito
con ben più forti artigli
le immagini
dolcissime e innocenti
il futuro che
precipita e non da scampo
ai mortali, e
il nulla ci spalanca
le sue porte
e intorno a noi, come
a queste
rovine, sarà tenebra e oblio.
Oltre il
muricciolo, oltre la roccia
che domina la
balza,
lancio una
piastrella levigata
e scivolar
leggera l'accompagno
verso il
burrone, che il buio ha colmato.
[i] Fosini, antico
castello fortificato su uno sperone di calcare bianco ai piedi del monte Le
Cornate di Gerfalco, risalente al secolo XII, proprietà dei Conti
Pannocchieschi, oggi nel Comune di Radicondoli (SI), nella prima metà del ‘900
ricca Fattoria con oltre quaranta poderi mezzadrili abitati da circa
cinquecento persone, in rovina dagli anni ‘60. La poesia compare nel volume di
C. Groppi, Il maldocchio ai maialini, Ed. Migliorini, Volterra, p. 5, 1999.
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