Kafka e “i nonni”.
Dato che erano apparse
precocemente, in lingua italiana, le “Opere” di Kafka mi ci sono imbattuto
prestissimo. Erano gli anni della dittatura staliniana e del caos che seguì
alla sua morte, quando cioè le atmosfere surreali del “Processo” e del
“Castello” si adattavano alla perfezione alla realtà, in particolare a quella
della sua città natale, Praga. Ho visitato quei luoghi aiutato dallo scrittore
italiano Angelo Maria Ripellino, che, in un memorabile libro, “Praga magica”,
mi portò alla loro scoperta. Infine, soggiornando a lungo entro un ambiente
ebraico, tra persone malviste e vessate dal regime, ascoltando le storie delle
infinite angherie (ed anche dei “processi” veri, come a Slansky, già segretario
del Partito Comunista Cecoslovacco, condannato a morte e giustiziato nel 1952,
appreso dalla viva voce di una sua familiare, parente stretta del mio amico
Rudolf), mi ero immerso così tanto nei personaggi di Kafka da averli
costantemente presenti nella mente. Oggi resta il fascino letterario, mentre la
simbiosi romanzo-realtà è più sfumata, direi allontanata dalla mitteleuropa e
nessun viaggiatore occidentale è obbligato a quelle interminabili ed
incomprensibili sedute negli uffici di Polizia per registrare la propria
presenza e perché? dove? con chi? ecc. ecc. Ore di attese in corridoi male
illuminati, in stanze spoglie, tra montagne di carte in disordine, interrogati
da uomini sciatti e, molte volte, avidi, dato che era una interminabile
richiesta di denaro per bolli, timbri, permessi di soggiorno e qualche pacchetto
di sigarette americane! Inoltre un’ombra di sospetto mi accompagnava anche
fuori, camminando nelle vie della città, o nelle strade di campagna: non sapevi
mai se chi incontravi e ti salutava era un curioso, una persona gentile, un
poliziotto o una spia! E così era per le persone da cui vivevo, sempre più
esposte per “fraternizzare” con un occidentale, un “capitalista”. Naturalmente
non c’era parata, corteo, manifestazione politica pubblica di massa alla quale
si poteva mancare! Anzi, era sempre meglio mettersi in vista e salutare col
pugno alzato! Una volta, molti anni dopo, guardando le fotografie di quei
tempi, mia figlia mi disse: “Ma, ci pensi babbo se ora in Italia vedessero
queste fotografie mentre anche tu inneggi al comunismo sovietico ed ai suoi piccoli dittatori?” Davvero atmosfere
kafkiane! Ora a Praga è tutto cambiato, in ogni magazzino si comprano una
infinita varietà di magliette con le immagini ispirate alle opere di Kafka ed
il suo ritratto.
In quanto ai “nonni” mi rendo
conto di aver raccolto poche testimonianze e di aver scritto pochissimo, non
più di tre o quattro poesie. Di loro ne ho praticamente conosciuta soltanto
una, la nonna paterna: Enélida. Gli altri son morti presto, e due, quelli
materni, sono stati degli estranei. La nonna Enélida l’ho conosciuta in seguito
alla separazione dei miei genitori che avvenne quando avevo l’età di cinque
anni. Accaddero allora molte cose importanti. Nonostante che il giudice avesse
assegnato me e la mia sorellina al mio babbo, per circa due anni ho vissuto
insieme alla mamma in un podere lontano dal paese natio. Cominciai ad andare a
scuola, che era distante alcuni chilometri e la strada attraversava un grande
bosco e zone impervie e selvagge. Naturalmente devo esserci andato solo per pochi
giorni, così bocciai e dovetti ripetere la prima elementare. Un giorno dell’anno
seguente decisi di non ritornare più al podere della mamma. Mi presentai alla
casa della mia nonna che mi accolse volentieri. Aveva allora 62 anni, e mio nonno,
Dario, suo marito, ne aveva 67 e morì, non si sa bene di che cosa, due anni
dopo, nell’estate del 1948. Il babbo era giovanissimo, circa 30 anni di età,
andava e veniva dietro alle sue passioni: la musica e le gonnelle! Gli ero un
po’ di impaccio, ma mi voleva molto bene. Un bene che è aumentato sempre più
con il trascorrere del tempo, fino a che i ruoli non si sono invertiti: quando
all’età di 69 anni è morto io ero diventato il babbo e lui il figlio! Ma
torniamo alla nonna: nata nel 1884 è vissuta 90 anni, in buona salute. Per
circa trent’anni abbiamo dormito nella stessa cameretta. Poco prima della sua
morte la intervistai sulle vicende della sua lunga vita e la registrai, un
racconto emozionante, anche se non lineare, ma a sprazzi, che adesso non è
possibile trascrivere. Però m’ha lasciato molti frammenti di memoria nel mio
cervello e nella mia anima, soprattutto andando molto indietro nel tempo
rispetto alla sua data di nascita, fin quasi a due secoli fa. L’ho amata tanto.
Sapeva leggere e scrivere, aveva conoscenza geografica del mondo, curiosità
intellettuale, memoria delle tradizioni, non era religiosa, sapeva raccontare
le fiabe, le filastrocche, ricordava i fatti lontani della sua giovinezza
allorché sedicenne visse più di due anni sull’isola del Garda al servizio
personale di una principessa russa, amava la musica e da giovane cantava
stupendamente, soprattutto sapeva cucinare le cose che più mi piacevano!
Inoltre, mai un rimprovero, mai uno scapaccione, gli piacevano tutti gli amici
che frequentavo e, più tardi, anche tutte le ragazze. Non avendola vista nel
fiore degli anni e non possedendo di lei alcuna immagine, salvo una di quando
era fanciulla e andava a scuola, che mi aveva regalato Cirano Fiornovelli e
adesso ho perduta, ho dimenticato l’immagine della sua bellezza, ricordo solo
la simpatia e l’arguzia. Ho questa rara immagine, scattata sul lungo terrazzo
della antica casa di Raspino il 24 luglio 1957, quando aveva l’età di 71 anni,
l’anno prima dell’ictus che la paralizzerà solo parzialmente, ma senza farle
perdere il sorriso e l’amore per me, mio padre e la vita!
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