La
descrizione del fatto (di Niccioleta)
secondo le testimonianze raccolte da Mauro Tanzini,
manoscritto
senza data ed altri resoconti dalle mie ricerche.
«…alle miniere di
Boccheggiano e Niccioleta, già prima del 25 luglio 1943, esisteva un Comitato
Antifascista che tanta parte ebbe nel reclutare nuovi proseliti alla lotta di
Liberazione. Dopo l’8 settembre ’43 l’opera di reclutamento partigiano condotta
senza tregua dai minatori, risultò decisiva ai fini della costituzione dei
primi nuclei partigiani nel Massetano. Bisogna obiettivamente affermare che
tale opera trovò terreno particolarmente fertile fra i giovani. E’ anche
doveroso ricordare che, prima che subentrassero i CLN a dirigere la lotta di
Resistenza, il Comitato Antifascista dei Minatori fu quello che diresse e
sostenne con viveri e mezzi il movimento partigiano operante nel territorio
delle Colline Metallifere.
Nel corso dei dieci
mesi, di durissima lotta partigiana, il contributo dato dai minatori fu
d’estrema importanza. La
III Brigata Garibaldi banda «Camicia
Rossa», e la
XXIII bis Brigata Garibaldi «Guido
Boscaglia» furono sempre assistite quando si trattava di procurare ed usare gli
esplosivi.
I primi di giugno ’44,
in previsione del passaggio delle truppe tedesche in ritirata, i minatori
antifascisti della Niccioleta, stabilirono di organizzare un servizio di
guardia agli impianti della miniera. Vennero compilati degli elenchi con i
nominativi (83 minatori), sui quali erano indicati i turni. In seguito a
delazione dei fascisti della Niccioleta, all’alba del 13 giugno, il villaggio
fu preso d’assalto e accerchiato da reparti delle SS tedesche e da militi
repubblichini.
I militari tagliarono i
fili del telefono e, armi alla mano, perquisirono tutte le abitazioni. Durante
le perquisizioni, dietro indicazione precisa dei fascisti locali, furono
trovati gli elenchi dei minatori che montavano la guardia; pertanto tutti gli uomini
furono fatti uscire dalle case, con le braccia alzate e furono spinti di fronte
allo spaccio aziendale. Dinanzi al gruppo furono piazzate due mitragliatrici.
Chiamati per nome e cognome furono fatti uscire dal gruppo sei uomini, ritenuti
dagli stessi fascisti locali i promotori del servizio di guardia e
collaboratori dei partigiani operanti nella zona.
Tutto il gruppo degli
ostaggi (erano stati prelevati 150 uomini, tra cui alcuni ragazzi), furono
rinchiusi nel rifugio antiaereo, sorvegliato all’ingresso da militi armati con
fucili mitragliatori. Il gruppo dei sei fu condotto dietro lo spaccio aziendale
e quindi fucilato. Tra loro un’intera famiglia: il padre coi due figli. Alla
sera dello stesso giorno gli ostaggi furono fatti uscire dal rifugio e, sotto
scorta armata, portati a piedi sulla strada provinciale e poi fatti salire su
alcuni camion verso Castelnuovo di Val di Cecina. Nessuno degli sventurati
tentò la fuga.
Emilio Banchi, uno dei
150 ostaggi e padre di Eros (assassinato con i 77) mi rese testimonianza: «…dopo
la fucilazione dei sei minatori il comandante ci assicurò che nessuno degli
ostaggi sarebbe stato passato per le armi, ma saremmo stati adibiti come
lavoratori, in parte inviati in Germania ed altri al Nord Italia. Con questa
assicurazione ci facemmo la guardia l'un con l'altro, anche perché ci avevano
avvertito che se uno tentava la fuga saremmo stati fucilati. Pertanto ritenemmo
giusto che per nostra sicurezza non fossero stati avvertiti i partigiani. Ma
purtroppo non fu così. Il giorno 14 giugno, alle ore 18, un tenente delle SS
con il suo interprete entrò nel teatro di Castelnuovo dove eravamo stati
rinchiusi. Furono chiamati i nominativi di coloro che erano inclusi nell’elenco
dei turni di guardia, cioè 77 uomini. Il gruppo dei 77, sotto scorta armata, fu
fatto uscire dal teatro e trasferito nei pressi della centrale
geotermoelettrica di Castelnuovo. Il gruppo fu fatto scendere dentro un
“vallino” a forma semicircolare e, con fuoco di mitragliatrici, furono tutti
barbaramente uccisi. I giovani delle classi dal 1914 al 1927 che non erano
inclusi negli elenchi in loro possesso, furono deportati nei Lager tedeschi, in
Germania. Compiuta l’orrenda strage, il capo degli assassini e l’interprete,
tornarono nel teatro e agli ostaggi rimasti fu detto: “Noi siamo stati avvisati
da persone della Niccioleta che nel villaggio vi era un vasto movimento di
partigiani che tra l’altro rappresentavano un serio pericolo per gli abitanti.
Noi siamo intervenuti prontamente, voi tornate alla Niccioleta, ma ricordatevi
che se venissimo a conoscenza di qualche altro movimento partigiano nel
villaggio, noi interverremo di nuovo, sia tra una settimana sia tra sei mesi e
vi faremo fare a tutti la fine che hanno fatto i vostri compagni».
I primi a recarsi sul
luogo dell’eccidio furono alcuni castelnuovini unitamente al Commissario
Prefettizio del comune, p.m. Nello Fusi, ex cittadino di Massa Marittima, capo
del Servizio Perforazioni della “Larderello SA”. Il giorno 15 si rese urgente
provvedere alla sepoltura delle povere vittime cadute l’una sull’altra in una
bolgia dantesca: dal terreno melmoso uscivano le manifestazioni di vapore
endogeno che addirittura cuocevano i corpi già straziati rendendo ancor più
raccapricciante la scena. Il Commissario Prefettizio si adoperò perché si
approntasse immediatamente una fossa dietro l’abside della cappella del
cimitero comunale per deporvi le salme, tenendo conto anche dei minimi
particolari che, all’indomani dell’esumazione, sarebbero serviti ai familiari
per il loro riconoscimento per ricondurle nei luoghi d’origine. A questo
pietoso lavoro partecipò la popolazione di Castelnuovo che, in questa
circostanza, sotto la sapiente guida della cittadina Bianca Gambacciani Cheli,
si prodigò in una grandiosa opera di solidarietà umana.
Nel tempo si saprà che
la strage degli 83 minatori della Niccioleta consumata dai nazifascisti è stata
forse la più feroce rappresaglia effettuata in Italia contro i lavoratori.
Nella storiografia della Resistenza Italiana è un episodio appena accennato. Certo,
quanto accadde in un villaggio minerario come Niccioleta non destò l’interesse
che suscitarono fatti verificatisi nei grandi centri industriali di Genova,
Milano, Torino, Trieste ecc.ecc. Il sacrificio degli eroici minatori di
Niccioleta è rimasto oscuro come quello del “Milite Ignoto”.
Le parole più belle l’ha
scritte padre Ernesto Balducci, compaesano di molti di quei minatori e
finalmente uno storico di valore, Paolo Pezzino, ha pubblicato recentemente due
volumi sull’eccidio di Niccioleta, frutto di una rilettura degli atti
processuali e di minuziose indagini in Italia e all’estero. I minatori di
Niccioleta sono stati riconosciuti “partigiani combattenti”.Nel capitolo “Stragi, eccidi,
rappresaglie”, in Dizionario della
Resistenza, II, Niccioleta, pp.
393-394, voce firmata s.f. (Sessi Frediano), si afferma che “…la responsabilità
morale viene oggi attribuita ai capi dei partigiani e agli operai…all’arrivo
dei tedeschi i responsabili della presa di Niccioleta non si preoccupano
nemmeno di portar via gli elenchi dei turni di guardia…ed è anche per questi
atti di leggerezza o di vigliaccheria che il massacro di Niccioleta assume
simili proporzioni”.
Tali lapidarie
affermazioni meritano una riflessione: oggi, grazie anche alla penetrante
ricostruzione di Paolo Pezzino, Storie di guerra
civile. L’eccidio di Niccioleta, cit., opera di grande interesse e di forte
impatto emotivo, molti elementi di questo tremendo atto della sanguinaria
follia nazifascista che colpì la
Toscana nell’estate 1944, sono finalmente
chiariti con la rimozione delle innumerevoli stratificazioni depositate sulla
vicenda dalla più o meno interessata cronaca agiografica. Tuttavia, pur svelata
nei suoi fondamenti, la tragedia dell’uccisione degli 83 minatori e della
deportazione di altri 25 giovani, resta in larga parte avvolta nel mistero che
nessuna postuma ricostruzione potrà chiarire in mancanza di documenti nuovi e
probatori. Ci riferiamo, in particolare, al ruolo del comando delle SS
stanziato all’albergo La
Perla (che aveva il compito di
assicurare la produzione di energia elettrica per il funzionamento delle
ferrovie e la produzione delle sostanze chimiche per le industrie belliche
tedesche e della RSI), comando in contatto permanente coi proprietari della
“Larderello SA”, principi Ginori Conti, e dotato di mezzi di trasporto, di
radiotrasmittente, telegrafo e telefono. Anche il fabbricato “La
Villa ” a Castelnuovo di Val di Cecina,
sede del comando tedesco del paese, era proprietà dei Ginori Conti e in
comunicazione con La
Perla e con la
Direzione della “Larderello SA”, il
cui personale godeva in larga misura dell’esonero dal servizio di guerra.
E’ noto che l’intervento
di rappresaglia doveva essere effettuato contro i fantomatici “ribelli” che
avevano “occupato” Castelnuovo infliggendo “pesanti” perdite ai nazifascisti.
Le vicende del 10 giugno a Monterotondo Marittimo, Suvereto, Massa Marittima e
Niccioleta, permisero la fuga di quasi tutti gli uomini tenuti in ostaggio a
Castelnuovo. La richiesta di aiuto dei fascisti di Niccioleta (che terrorizzati
e carichi di odio avevano abbandonato il villaggio minerario), alla Gendarmeria
tedesca di Pian di Mucini, e, probabilmente, la venuta a Castelnuovo di uno di
loro a chiedere aiuto alle SS, forse i contatti telefonici tra il comandante
del III Battaglione, la gendarmeria di Pian di Mucini e la stessa direzione
della miniera, avranno indotto a compiere l’azione punitiva e dissuasiva contro
i minatori di Niccioleta anziché contro gli uomini di Castelnuovo, ma il luogo
dell’eccidio doveva rimanere Castelnuovo di Val di Cecina, come era stato
pianificato e ordinato. Non avrebbe senso, altrimenti, l’uccisione in questa
località di 81 uomini il 14 giugno; di altri 6 nei giorni seguenti, e il
tentativo, fallito per il cannoneggiamento americano ed altre fortuite
circostanze, di uccidere altre decine di ostaggi catturati nel territorio delle
Colline Metallifere e tenuti prigionieri nei locali del Dopolavoro fascista
compresi altri prigionieri prelevati dal Mastio di Volterra.
L’odio fratricida dei
repubblichini contro i “comunisti” di Niccioleta, i torbidi rapporti di alcune
donne coi soldati tedeschi, meschini calcoli di una relazione extraconiugale,
nonché la paura di dover render conto al giudizio popolare degli abitanti di
Niccioleta per anni ed anni di soprusi, vessazioni, connivenze, sui quali si
basava il “potere” e il “prestigio” di cui godevano i fascisti, portò
all’accentuazione degli avvenimenti e alla denuncia dei propri compagni di
lavoro, dipinti a tinte fosche come “partigiani”. Il ruolo ambiguo, se non di
colpevolezza, della direzione della miniera fece il resto. Gli errori degli
organizzatori dei “turni di guardia”, la precipitazione e il panico di quei
momenti impedirono, come si sa, di distruggere i famosi “elenchi” coi nominativi
preposti ai turni medesimi, anche se c’è chi afferma che non tutti gli elenchi
furono trovati (testimonianza
di Mario Fatarella). Ma, crediamo, nulla avrebbe fermato la mano degli
assassini.
Perché essere
nell’elenco poteva voler dire “obbligato” a fare il turno dai partigiani e non
di essere un componente dell’organizzazione della Resistenza. Un pretesto, e il
più delle volte non c’è stato nemmeno bisogno del pretesto per compiere stragi.
Pare pertanto ingiusta l’accusa che Frediano Sessi rivolge, cioè che
“è anche per questi atti di leggerezza o di vigliaccheria che il massacro di
Niccioleta assume simili proporzioni”.
Lo storico toscano
Claudio Biscarini, Palazzaccio 4 luglio
1944 la memoria scomoda, Siena, Nuova Immagine Editrice, 1997, afferma
che «…ben pochi pretesti servivano ai reparti di Kesserling per effettuare le
uccisioni dei civili sia in presenza di azioni partigiane o, e questa è la
novità, anche non in presenza di tali azioni. Ovviamente l’organico completo di
una divisione non ha mai partecipato a una strage, ma solo piccoli reparti o
addirittura singoli militari di essa (L. Klinkhammer ha ipotizzato la
partecipazione ai massacri in Italia del 5% dei soldati tedeschi)…La
recrudescenza «delle misure contro i civili» si ebbe, poi, con lo scontrarsi,
dopo l’operazione Barbarossa, con la
Resistenza sovietica e con quella
Jugoslava. In Italia, nell’estate 1944, i comandi delle armate X e XIV non
fecero che applicare le stesse norme che erano di prassi all’est. E quando una
zona veniva scelta dal Gruppo di armate C per organizzare una di quelle linee
d’arresto di cui la
Toscana fu piena, divenne
indispensabile sgombrare il territorio da potenziali quinte colonne, con o
senza azioni partigiane…se la
Magistratura italiana, oggi, dopo Priebke,
ha deciso di riaprire le indagini sui casi di stragi in Italia, questo vuol
dire che, e giustamente, ognuno resta responsabile davanti alla legge terrena e
di Dio, dei propri atti. Lo storico Schreiber, al processo contro l’ex SS
Priebke a Roma, ha dimostrato, sulla base di documenti, come fosse possibile la
disubbidienza agli ordini categorici di Hitler. Tuttavia, anche ammettendo che
ciò non sia sempre stato possibile, specie per un membro delle SS, resta il
fatto che oggi sappiamo come spesso sia stata l’iniziativa personale del
singolo ufficiale o sottufficiale tedesco, sicuro di passarla liscia in base
agli ordini superiori, a scatenare le azioni più terribili…come nel caso del
Padule di Fucecchio (non si dimentichi che il tenente Block, responsabile
dell’uccisione degli 83 minatori di Niccioleta, fu poco dopo promosso di grado!
Nda).
Uno dei problemi che la
Wehrmacht si trovò ad affrontare
durante le sue campagne fu la lotta partigiana diversamente organizzata da
nazione a nazione. Nella Grande guerra gli eserciti combattevano contrapposti,
in trincee poste le une di fronte alle altre, e la popolazione, salvo casi
eccezionali, non era direttamente coinvolta nei combattimenti. Il problema si
pose con l’operazione Barbarossa all’est. L’esercito tedesco si troverà a
contatto con i primi elementi partigiani organizzati in formazioni di notevoli
dimensioni e appoggiate dalla popolazione. Scatteranno così le misure già
studiate per simili evenienze nel maggio 1936
a Potsdam dai nazisti. Il
trattato allora elaborato prevedeva di infiltrare piccole pattuglie o singoli
V-manner (informatori) nel territorio sospetto. “Quanti, nella Toscana
dell’estate 1944, dovranno la loro morte a “tedeschi disertori” chiedenti
aiuto, che riappariranno poi alla guida dei reparti rastrellatori? Quanti, fra
questi, erano veramente tedeschi e quanti altoatesini o peggio italiani spesso
delle stesse contrade dove si sarebbero svolti i massacri? A titolo di esempio
potremmo citare il Padule di Fucecchio (175 morti, 23 agosto 1944) e S. Anna di
Stazzema (oltre 500 morti, 12 agosto 1944).
Altre direttive nella
lotta antipartigiana emanate nel 1941 dai vertici della Ordnungspolizei,
stabiliscono categoricamente: il nemico deve essere annientato completamente.
La continua decisione sulla vita e sulla morte dei partigiani o degli elementi
sospetti che si trova dinanzi è difficile anche per il soldato più duro. Va
fatto. Agisce bene chi prende in mano la situazione senza riguardi e
misericordia trascurando completamente personali impulsi sentimentali di
sorta…in tutti i villaggi o abitazioni, che vengono incendiati in una forma o
in un’altra, bisogna aver cura di catturare al completo la popolazione…ogni
capo reparto deve avere ben chiaro che tutti gli abitanti che sfuggono dopo la
distruzione della loro abitazione, diventano nuovi membri di bande e
contribuiscono notevolmente a minare la pacificazione della zona». Ma queste
popolazioni sono da considerare veramente tutte coinvolte nella lotta
partigiana? Secondo gli estensori dei documenti coevi tedeschi, in Italia
parrebbe di si. In ogni ufficiale e in ogni soldato si insinua questa
convinzione con precise disposizioni. Al Padule di Fucecchio c’erano
sicuramente italiani, anche del luogo, mascherati e in divisa tedesca, a
guidare gli uomini di Strauch. Chi erano? I V-manner volevano ben 200 ribelli
in marcia verso le retrovie della 26^ panzer. Gli esecutori materiali degli
eccidi erano spesso ordinary men, inseriti in reparti della Wehrmacht e non
nelle più tristemente famose SS. Infatti salvo l’eccezionalità della Goring
(16^ Panzer grenadier) e del III Bataillon “Italien”, i massacri furono
eseguiti in Toscana dalla 26^ corazzata a Fucecchio, dalla 305^ e 94^ fanteria
a S. Polo, e dalla 19^ della Luftwaffe a Guardistallo. Tutti agli ordini di Kesselring.
Kesserling dichiara, Memorie
di guerra, Garzanti, Milano, 1954, p. 263, che le perdite subite dalle
sue truppe a causa degli attacchi dei partigiani solo fra il giugno e l’agosto
1944 ammontano a 5.000 morti e da 25.000
a 30.000
feriti e dispersi: la forza di alcune Divisioni! Si può dunque tranquillamente
e giustamente affermare che i combattenti alla macchia non potessero esimersi
dall’assalire il nemico ovunque e dovunque, pena lo stravolgimento della loro
volontaria scelta di lotta.
Molte delle azioni di repressione tedesche hanno
soltanto preso a pretesto gli attacchi dei partigiani per terrorizzare la
popolazione. In Frantisek Langer, I
fanciulli e il pugnale, Garzanti, Milano, 2001 (romanzo scritto nell’esilio
a Parigi e pubblicato a Londra nel 1942 ed in Italia nel 1947), si racconta la
storia dell’occupazione tedesca, nel marzo 1939, di un piccolo villaggio della
Repubblica Cecoslovacca, Podolì, ubicato nei pressi della città mineraria di
Kladno.
La maggior parte degli uomini di Podolì erano o erano
stati minatori. Iniziano gli atti di sabotaggio e di Resistenza contro nazisti.
I partigiani agiscono nella clandestinità tessendo una vastissima rete di contatti.
A Kladno esplodono alcune miniere e a Podolì è ucciso misteriosamente un
maestro elementare, tedesco dei Sudeti, fanatico nazista, che era stato
introdotto nel villaggio per conquistare subdolamente la fiducia dei fanciulli
riuscendo in tal modo a carpire informazioni delicate su tutti gli abitanti e
scoprendo i nomi dei partigiani e degli oppositori. Nel momento in cui la rete
si sarebbe dovuta chiudere con l’arresto e la fucilazione di molti paesani,
genitori e fratelli degli scolari così vilmente ingannati, il maestro è trovato
morto all’interno della scuola e le prove, da lui pazientemente raccolte, sono
sparite. Le indagini condotte dalle SS si concentrano sui fanciulli del
villaggio (in realtà è proprio uno di loro che ha ucciso il maestro!), ma alla
fine un vecchio soldato decorato della prima guerra mondiale se n’assume la
responsabilità.
Il colonnello delle SS ordina un “processo regolare”
di fronte a tutto il villaggio, processo che, pur lasciando molti lati oscuri
sulla vicenda, porta all’impiccagione del vecchio soldato che, con il suo
sacrificio, impedisce l’effettuazione di una tremenda rappresaglia contro la
popolazione. I nazisti partono da Podolì per rientrare a Praga:
«…il colonnello se ne tornava verso Praga. La sua
automobile sussultava su di una strada secondaria tortuosa e scavata dal
passaggio dei carri a cavalli, riusciva soltanto ad avanzare lentamente nelle
carreggiate e nelle buche; ci voleva ancora qualche poco, prima di raggiungere
la strada principale. Il colonnello aveva quindi tutto il tempo e la
tranquillità per riandare con la mente alla mattinata e, riflettendoci su, si
sentiva molto insoddisfatto del risultato. Tutto l’avvenimento gli era sfuggito
di mano, diceva fra sé, e, nonostante i bei discorsi con cui aveva motivato gli
imprevisti davanti ai suoi ufficiali e a se stesso, la cosa era finita in modo
contrario alle sue intenzioni. Come mai era potuto accadere un fatto simile? Si
era proposto, e l’aveva creduto molto spiritoso, di ottenere dai ragazzi
notizie su quanto di sovversivo si tramava nel sottosuolo di quella regione;
aveva mandato in mezzo a loro il falso maestro, il tenente Helmuth, simpatico e
promettente giovanotto, e uno di quei bambini lo aveva ucciso. Non era stato
possibile punire il colpevole, un bambino sicuramente, perché non soffrisse il
prestigio della potenza tedesca dimostratasi così vulnerabile…e così si era
dovuto accontentare di un tipo che si era offerto spontaneamente per la forca.
La cosa sembrava del tutto logica, ma il bilancio totale era misero…ma in
qualcosa c’era stato un errore. Dove? Il colonnello se lo confessava: in lui
stesso. Si era allontanato dalla pratica abituale…si era baloccato col
tribunale e con l’accertamento della colpa, perché aveva voluto punire secondo
giustizia e il Reich tedesco era rimasto soccombente nel duello con quel
miserabile villaggio ceco e coi suoi mocciosi. In nome loro aveva vinto
quell’uomo volgare, poco interessante, a cui la morte era indifferente o
rappresentava persino un onore. Per giunta il colonnello ammetteva di aver
sbagliato anche nel farlo impiccare sul grande albero in mezzo al paese. Così
l’esecuzione era diventata quasi un’apoteosi e dell’impiccato egli aveva fatto
un eroe paesano. Era evidente. Errori su errori. E la loro origine? Ora lo
sapeva. Proprio perché aveva cominciato a gingillarsi con la giustizia, il
tribunale, il diritto, la legge e simili concetti... Certo era stato soltanto
un simulacro di giustizia, un tribunale da commedia, un giocare col diritto:
soltanto una parodia e una beffa. Ma in cose quali il diritto e la giustizia vi
è una concatenazione logica che comincia ad agire se tu le metti in moto, fosse
anche nelle loro più povere e ridicole forme. Non ci devi scherzare…Era stata
una mattinata disgraziata, se n’era ripromesso qualcosa di ben diverso. In
avvenire si sarebbe attenuto sempre alla pratica che la potenza del Reich aveva
codificato: in avvenire, se qualcuno dei criminali villaggi cechi avesse
commesso qualunque cosa di punibile, semplicemente, senza investigazioni e
processi egli avrebbe fucilato tutti gli uomini, deportato le donne ai lavori
forzati, avrebbe dato i bambini da allevare in Germania. Questa genia non
bisognava trattarla diversamente…la sua automobile attraversava in quel momento
un villaggio molto lentamente, perché la strada stretta tra le casupole era
dissestata in modo particolare. Il paese era pressappoco uguale, il gemello,
quasi, di quello che aveva lasciato poco prima. Si, fucilare gli uomini,
cacciare le donne, portare via i bambini e quella miserabile borgata
incendiarla, o fracassarla a cannonate e raderla al suolo affinché sparisca uno
dei nidi dove questa plebaglia può vivere e moltiplicarsi e che sono soltanto
ostacoli al nostro cammino tedesco. L’auto passava lentamente accanto all’ultima
casa sulla quale, come dovunque in Boemia, era attaccata una tavoletta ovale
azzurra col nome del paese che aveva appena attraversato. Il colonnello la
lesse. Vi stava scritto: Lidice».
Se la storia fosse stata ambientata in Italia, quando
ormai alla pianificazione del terrore si aggiungevano l’odio e la frustrazione
per l’imminente sconfitta, militare e morale del creduto invincibile Reich
tedesco, sulla targa del villaggio si sarebbe potuto leggere: Niccioleta,
Guardistallo, S. Anna di Stazzema, Forno, Fucecchio, Vinca, Fosse del Frigido,
Civitella di Val di Chiana, Cavriglia, Castelnuovo dei Sabbioni, San Pancrazio,
Boves, Marzabotto, Foiano della Chiana, Castelnuovo di Val di Cecina…
In merito infine alla assenza di indagini per
individuare e processare i colpevoli delle stragi e delle rappresaglie, sia
italiani che tedeschi, vedi la recente opera di Mimmo Franzinelli Le
stragi nascoste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di
guerra nazifascisti 1943-2001, Trento, Mondadori, 2002, pp. 100, 142, 289,
363, che riporta alcune notizie sintetiche dell’eccidio di Niccioleta:
«Castelnuovo di Val di Cecina (Pisa), n. 1201, Tenente delle SS della Turingia
Walter, Rahtman Willy, maresciallo Exner e altri militari tedeschi; violenza con
omicidio; parte lesa: B.R, B. A, P. O, e altri 75 ignoti; ente denunziante:
Tenenza CCRR di Pisa; archiviazione provvisoria 14 gennaio 1960, trasmissione
alla Procura militare di La
Spezia 30
novembre 1994 (Il 13 giugno 1944 reparti italo-tedeschi fucilarono 6 uomini
alla miniera di pirite della Montedison, nel villaggio di Niccioleta (occupato
alcuni giorni prima dai partigiani), conducendo centinaia di rastrellati a
Castelnuovo, dove l’indomani un gruppo di 77 prigionieri fu passato per le
armi».
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