LUIGI SETTEMBRINI.
Nei primi anni ’50 traslocammo
dalla casa del Borgo nella centralissima via della Repubblica, già via Vittorio
Emanuele II, al quinto ed ultimo piano dell’edificio più alto del paese.
Nessuno avrebbe potuto immaginare, osservando dalla strada il minuscolo
portoncino di legno segnato dal tempo, che all’interno esistesse un mondo in
miniatura, con ben sette famiglie per 26 persone dei quali 10 giovani, tra
femmine e maschi. Cinque di queste famiglie erano legate tra loro da vincoli
parentali e l’intimità era altissima. In una delle rimanenti vivevano padre,
madre, con due bambini, una femmina, già grandicella e un maschio nato da pochi
mesi. Il padre, un operaio della “Larderello SpA”, un sondista, si chiamava
Luigi Settembrini. Era, come molti in quel tempo, un comunista. La moglie,
Filomena, aveva talento d’artista, e dipingeva bellissimi manifesti e grandi
cartoni con i ritratti dei filosofi e capi del comunismo italiano e
internazionale. Gente perbene, una stirpe, si direbbe, in via di estinzione.
Avevamo due pezzetti di terra, al di là della chiostra che separava i
fabbricati dal poggio retrostante, i quali vi erano collegati attraverso
pericolanti passerelle in tavole e pali di castagno. Questi pezzetti di terra
erano regno di noi bambini, diciamo pure, un regno felice.
La mia famiglia era formata,
oltre me, di undici anni, da mio padre
di trentasei e dalla nonna paterna, di anni sessantotto, che, rimasta vedova,
vestiva sempre di nero e sembrava ancora più vecchia della sua età. Quei cinque
piani di scale buie e strette costituivano per la nonna una sorta di limite
invalicabile, perciò dopo due o tre anni, cambiammo di nuovo casa andando ad
abitare in due stanzette più comode, da Raspino, proprio di fronte ai giardini
pubblici, il famoso “Piazzone” e finalmente la nonne riprese a circolare per il
paese, per il castagneto e le campagne nelle quali andava ad “opre” dai
mezzadri, cucendo e rammendando. Persi le tracce di Luigi Settembrini ed anche
della sua famiglia, ma il suo nome non lo dimenticai. Forse fu questo ricordo a
farmi acquistare, nell’anno 1964, i due volumi dell’editore Sansoni, le 108
“Lezioni di letteratura italiana”, di Luigi Settembrini! Fu una lettura
appassionante che legai a quella di Francesco Flora, per lo studio, della
letteratura italiana.
Luigi Settembrini (Napoli,
1813-1876), fu patriota e letterato, aderente alla Giovane Italia fu
incarcerato con la proibizione dell’insegnamento, che esercitò segretamente in
sua casa ed in case private, mai trascurando l’attività politica in opposizione
ai Borboni e allo Stato della Chiesa. Condannato a morte nel 1851, la pena fu
commutata nell’ergastolo. Dopo otto anni di prigione a Santo Stefano fu
avviato, con altri patrioti, alla deportazione in America. Riuscì a sbarcare in
Irlanda e nel 1860 potè far ritorno in Italia, dove ottenne la cattedra di
lettere all’Università di Bologna e poi a Napoli fino alla morte nel 1876.
Ho riletto in questi giorni
alcune pagine dei due volumi delle “Lezioni”, tre le quali quelle sulla trama della
Divina Commedia e quelle “L’Italia dopo il Concili. I Gesuiti”, che sono state
entusiasmanti! Ma, in particolare, mi hanno colpito alcuni paragrafi della XXVI
lezione, I trecentisti minori, quelli riferiti a Santa Caterina da Siena,
questa voce “solitaria, vissuta trentatré anni in un’estasi continua
(1347-1380), in un mondo ideale di luce e d’amore, donde ella discendeva su la
terra per insegnare agli uomini come si ama lassù, dove si opera come si parla.
Questa donna singolarissima, che da prima non sapeva scrivere, dettava lettere
a re, a regine, ad imperatori, a papi, a principi della Chiesa, a signori, a
popolani, a verginelle,, sino a una meretrice pubblica…le sue lettere, che ella
dettava a segretari, rimangono come uno dei più belli monumenti della
letteratura nostra. In esse c’è tutta la purezza del cristianesimo; c’è la Chiesa come dovrebbe
essere, santa, superiore alle cose terrene: c’è sdegno senz’ira contro i
cardinali parteggianti, contro i pastori che si ‘veggono in tante delizie e
stati e pompe e vanità del mondo più che se fossero mille volte nel secolo.
Furano il sangue di Cristo; hanno giocato l’anima loro; sono lebbrosi e mandano
una puzza da far quasi morire’. Udite come ella pregava il papa: “Ohimè, babbo,
non più guerra per qualunque modo”. E pregavalo di tornare a Roma da Avignone:
“…e non veniate a Roma con sforzo di gente. Non sarà renduta alla Chiesa la
bellezza sua col coltello, né con crudeltà, né con guerra, ma con la pace. Con
la mano dell’amore stringete la verga della giustizia”.
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