ULYSSE.
Non
fa bene, mia cara,
star
seduti su quella pietra.
Provoca
perdite bianche.
Avrei
voluto essere la pietra
su
cui sedevi,
anche
a rischio per le emorroidi.
Piccolo
tesoruccio,
non
sai quant’eri carina!
Cominciano
a piacermi
a
quell’età. Mele acerbe.
Afferrano
tutto quello che capita
sottomano.
Penso
che è l’unico caso
in
cui noi incrociamo le gambe,
stando
a sedere.
Anche
alla Biblioteca oggi:
quelle
laureate,
beate
le seggiole dove siedono.
Ma
è l’influsso della sera.
Sentono
tutte queste cose;
si
aprono come fiori,
conoscono
le ore,
girasoli,
carciofi di Gerusalemme,
nelle
sale da ballo
lampadari,
viali sotto i lampioni,
violacciocca
nel giardino
dove
la baciai
dietro
l’orecchio.
Vorrei
avere un bel quadro
a
olio di lei a quel tempo,
figura
intera.
Era
anche estate
quando
le facevo la corte.
L’anno
ritorna, la storia
si
ripete.
Picchi
e montagne
ancor
sono tra noi.
Vita, amore, viaggio
intorno al piccolo mondo.
E ora? E lei? Triste,
angosciata, naturalmente,
ma occorre stare in guardia
e non intenerirsi troppo.
Ne approfittano quasi sempre.
Un’altra volta,
sempre su quel pezzetto di
sabbia.
Si scendono quattro scaloni.
La musica ti arriva alle
spalle,
quando non te l’aspetti,
l’onda si quieta
nella striscia del faro.
Siamo fuori stagione.
Ettore Socci, ossia,
la sua bronzea testa,
sempre là,
nel giardinetto spoglio.
Sono contento che rimanga
anche dopo che sarò morto.
Lui c’era e dei baci
non lo saprà nessuno.
Certo non lo dirò proprio
ora.
Mi chino e rivolto
un pezzo di carta sulla
spiaggia.
Me l’avvicino agli occhi
miopi e la scruto.
Una lettera? No, illeggibile.
Meglio avviarsi. Meglio.
Ho le gambe indolenzite,
le sere sono frigide,
alla mia età. Circolazione?
Tutti questi buchi
e sassolini, chi ce la
farebbe
a contarli?
Non si sa mai quel che si
trova.
Bottiglia
con dentro la mappa di un
tesoro;
gettata da nave alla deriva?
Involucro di pacco postale?
I bambini vogliono sempre
buttar roba in mare.
Fiducia? Pane gettato
sull’acqua se lo contendono
uccelli bianchi.
Che cos’è questo?
Un pezzetto di legno. Rosso
stinto.
Oh! Mi ha proprio sfinito
quella femmina.
Non son più giovane.
Mio zio s’addormentava
tra due, diceva. Forse.
Non son più giovane.
Tornerà qui d’estate?
Aspettarla per l’eternità
al riparo della duna?
Devo tornare.
Gli assassini lo fanno.
E io?
Qui la marea non sale,
inutile, non sale. La luna
è debole, o, forse,
l’acqua non basta?
Anche l’onda sembra stenta.
La camicia rossa,
il pube verginale intatto.
Vietato depilarsi, solo
ai bordi, un pochino.
Quelli più lunghi, ribelli.
Non son più giovane
e la salsa umidità mi bagna.
No, non è pianto. Davvero.
Nota:
James Joyce, scrittore irlandese (1882-1914), dopo aver scritto un
piccolo libro di poesie, una raccolta di novelle ed un saggio autobiografico,
mise mano all’Ulysse, ardito romanzo psicologico nel quale l’Autore applicò una
nuova tecnica narrativa. Così stava scritto sulla “Piccola Enciclopedia
Mondadori” (PEM) che mi fu regalata nel 1954.
Una sera del 2009, mesto mesto, riportavo il libro, non letto fino in
fondo, alla Biblioteca Comunale. Per la strada mi venne voglia di aprirlo e
leggere qua e là, alla poca luce e senza occhiali. Mi pentii subito di
restituirlo, anche se da sei mesi non riuscivo a superare la
duecentonovantatreesima pagina (con qualche capatina oltre la cinquecentesima)…
uno degli ultimi tentativi dopo una serie di altri innumerevoli insuccessi…
Credo di aver fatto bene a non arrivare
fino in fondo a questo libro meraviglioso, rigenerante, perché mi rimase sempre
qualcosa da desiderare e da sperimentare.
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