1956, l’anno della grande neve.
In gennaio
fiorì il ciliegio stento ed i suoi rami s’affacciavano alla nostra
finestra in quella casetta di legno in
affitto inondando la piccola stanza di un dolceamaro profumo, mentre mio padre
lanciava nell’infinito le note della fisarmonica e la nonna preparava la parca
mensa. All’inizio di febbraio il cielo s’imbiancò, e fu l’inizio della grande
neve, come nessuno l’aveva mai vista tra questi monti sfiorati dai venti di
mare, dicevano i vecchi intorno al canto del foco. Quattro famigliole abitavano
al primo piano la casa di Raspino, due stanze per Gelasio, l’anarchico
irriducibile ed i suoi gatti, due stanze per la sorella del prete fresca di
nozze mature, due stanze per noi e quattro per i proprietari: nonno, genitori e
tre figli, un maschio e due femmine. Tra tutti c’era una grande armonia. In
quel candore e silenzio irreale arrivò per me la chiamata tanto attesa,
presentarmi in Fabbrica per iniziare il lavoro dopo i brillanti risultati della
scuola. Avevo ancora i pantaloni corti e alla zuava quando l’età dell’innocenza
si dileguò dalla mia vita. Mi feci uomo presto, tra il male e il bene d’ogni
giorno, nell’alternarsi di passioni e delusioni che tra quelle migliaia di tute
blu si strinsero a me. Imparai a nascondere la verità dei palpiti del cuore, a
voltar giubba, come si diceva, all’occorrenza, e lasciate in disparte le
romanticherie e i languori di fatui amori, gettarmi nel malestrom dei sensi,
allora acuti. Non ho mai fatto il bilancio di quell’anno, perché l’amore non si
misura col metro, come la neve, anche se la neve, come l’amore si scioglie. Ma
so’ che amai e che fui riamato, detti e ricevetti amicizia e carezze, in cambio
delle antiche certezze! Conobbi l’asprezza della “lotta di classe”, in quel
sogno dell’uomo nuovo del comunismo, e l’arroganza, più che degli invisibili
padroni, dei loro servi senza fede e cuore. Chi mi fece le prime domande
ideologiche, che ben ricordo: hai letto Come fu temprato l’acciaio? No, e La strada di Volokomosky, nemmeno, allora devi
leggere il Poema di Lenin ed anche Makarenko…fu licenziato e forse lo voleva. A
quel tempo leggevo Saba, Andersen, Cassola, Per chi suona la campana, facevo il tifo per
Coppi e la Juventus, e come un segugio seguivo le danzanti gonnelline di sorridenti
ragazzine. Fu anche l’anno del sorpasso del sindacato bianco su quello rosso,
dimenticati i valori e i tempi della Resistenza, mentre riaffioravano tristi
figuri nella nomenclatura nazifascista nei posti che contavano. Ministri,
vescovi, preti e politicanti si aggiravano nei luoghi del potere. D’altra parte
non andò meglio alla gente di Ungheria e in quella grande Messa a suffragio
delle vittime, partecipai anch’io in prima fila, cercando di farmi fare una
fotografia, il segno che c’ero. Bassezze, ma in segreto lieto che nel mio Borgo
non fosse esposto il gonfalone col nastro nero a lutto mentre il prete
scampanava a morto. Infine venne il disgelo e sotto la gran neve spuntarono i
timidi crochi. Per me gli amori carnali
e veri, anche se brevi, con servette, fruttivendole e contadine, che nulla
sapevano della lotta di classe, di Carlo Marx, di Stalin e Togliatti, e nemmeno
di entalpia, decremento, rapporto gas vapore, ma non ignoravano, anzi erano desiderose
di apprendere i fatti dell’amore, più delle smorfiose fanciulle chiesa e
famiglia del paese, che tra le gambe avevano alzato il muro di Berlino, e mai
ti avrebbero concesso né una carezza
ardita né un bacino!
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