La fisarmonica di mio padre.
A Ohran Pamuk
Scrivo
quasi ogni giorno da settanta anni,
e,
se non lo facessi, sarei morto da tempo.
E
dire che scrivo poesie che mi danzano
nella
mente, è bello comunque.
Ho
scritto anche molte altre cose: saggi,
racconti,
articoli politici, e storia locale
del
mio paese natio, ma il vero lavoro
che
mi lega alla vita è la poesia;
e
perché io sia felice è indispensabile
che
io scriva di me e dell’amore,
un
farmaco salvavita che devo assumere
quotidianamente,
rivisitando molte volte
i
poeti già morti, che amo senza gelosia.
E
senza gelosia né rimpianti ritorno
bambino,
a quel tempo magico
della
fisarmonica, nella cameretta del Borgo,
dove
mio padre passava il suo tempo
che
sembrava infinito, ripetendo da capo
la
stessa canzone ad ogni nota storta,
in
attesa della sua amante ed ora è morta.
Mia
madre non c’era più da anni,
ed
io da lei fuggii andando incontro
all’ignoto.
Mio padre fu tutto per me,
insieme
alla nonna amata, che raccontava
storie
di principesse e laghi,
anche
tragiche, ormai fiabe eppur vere.
E
insieme alla fisarmonica, la Soprani,
di
madreperla screziata, che sfiorava
con
delicate mani..
Nel
1952 iniziai su una Remington
dimenticata
dai soldati americani, a battere
le
prime ingenue e sconnesse parole,
di
case crollate sotto le cannonate,
di
ingenui e improbabili amori
per
le viuzze e dei rimpiattarelli
negli
angoli bui, ma anche di serpenti
che
avevano covo tra le fascine
nella
stanza della legna, e di rondini
saettanti
sul tetto della chiesa antica,
di
visioni più lontane, verso i Lagoni,
e
la via di seta di Sant’Antonio, che
scavalcando
la Sedice si gettava
veloce
agli ambiti pozzi del torrente Pavone.
E
mio padre suonava, suonava instancabile,
forse
di me nemmeno si accorgeva, pur dormendo
nello
stesso letto, nudi come a Dio piaceva.
Qualche
volta mi invitava a seguirlo
alle
veglie contadine, dove non mancavano
maliziose
ragazzine, lanciandomi da sopra la madia
un
sorriso e un più sonoro canto della sua fisarmonica!
Tengo
il prezioso strumento come un tesoro,
lontano
dalla luce, dai topi e dall’umidità;
di
tanto in tanto vado a trovarlo, accarezzo
i
tasti e premo i bottoni, come fossero le mani
e
i capelli di mio padre e mi sento felice.