Nella finestra in alto a dx., sotto la finestra bianca semicircolare, la camera dove sono nato: il mitico Serrappuccio (ossia Serra a Puccio).
Al Serrappuccio,
in un mattino un po’ triste
di fine ottobre.
Vedo
con non l’ho visto mai il mio paese
avvolto
dalle nuvole che vengono
dal
mare, nere, pesanti di pioggia
e
vento, appiccicose,
e di mestizia foriere,
che
il novembre è ormai
alla
porta, coi fiori di plastica, tristi
per
la gente morta.
Anche
stamani
suona
lamentosa la campana,
a
rammentare una partenza amica;
pure
noi siamo in attesa,
noi
che ci sentimmo immortali,
quando
la bellezza ci sfiorava
e
l’amore ogni porta spalancava.
Con
questa donna umile e mite
m’incontrai
alla mensa nuziale
di
un cugino, la vedo ancora,
ridente,
porgermi dal fiasco
il
vino che ancor più faceva divampare
l’amor
che dentro me sbocciava.
Salgo
nel Serrappuccio, dove son nato,
dove
a vent’anni sono ritornato,
io
poeta, il babbo musicista e la nonna
già
vecchia che per amor di noi
la
vita sua allungava. Tutto è silenzio
ora
se non fruscio di vento sulle cime
dei
cipressi, e rauche grida
d’
uccelli, intorno alla torre e in cielo.
Scandaglio
la memoria
alla
ricerca di volti, nomi, parole,
ma
poco affiora dal gorgo della storia.
Lenzina,
Corinna, Teresa, Solidea,
Concetta,
la Manetta ,
Iris, la Tradotta ,
e
Franca, Vittoria, Seconda, Gustavo,
Livio,
Carla, Natalino, ed altri ancora,
che
un tempo amavo.
Chi
condivise i miei giorni felici
della
giovinezza, é partito,
verso
perduti lidi,
altri
dispersi nel mondo,
come
le foglie brune
per
gli stretti vicoli.
E’
l’umano destino che ci attende:
morire
soli e far perdere ogni traccia,
con
la speranza mai sopita,
d’incontrarci nell’eterna vita
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