lunedì 29 febbraio 2016






Teige Karel (1900 – 1951).

(Prima parte)

Teige, critico letterario, studioso di estetica, traduttore, grafico, e teorico dell’arte e dell’architettura, fondatore del Devetsil, fu una delle personalità più importanti del “poetismo” e quindi del surrealismo ceco.

Devo al volume di Jaroslav Seifert (Vsecky krasy sveta) “Tutte le bellezze del mondo”, la prima conoscenza di Karel Teige. Questo volume, la cui prima edizione in lingua ceca apparve nel 1982, uscì a Roma nel 1991 presso la tipografia AMADEUS per conto di Edizioni Studio Tesi di Pordenone, a cura di Dario Massimi, riprendendo il testo uscito nel 1985 by Editori Riuniti Roma.
Ho la prima edizione e l’ho letto più di una volta, interessandomi in modo particolare del “poetismo”, una corrente letteraria sviluppatasi durante la Prima Repubblica Cecoslovacca, che non ha un equivalente nella storia letteraria del nostro paese, ed alla quale mi sento particolarmente legato.  Alle pagine 298-306, Seifert racconta la morte di Teige partendo dal memorabile soggiorno che egli fece, con lui, a Parigi. “…Era un profumato giorno d’estate e avevamo un appuntamento col pittore Sima. Stavamo cercando rue Ségnier 14, quando dinanzi a noi saltò fuori da un’automobile una meravigliosa, giovane donna. Elegante, naturalmente! Era come se fosse stata ritagliata da un romanzo di Colette. Il velo non arrivava a nascondere gli occhi e al polso le tintinnava l’oro risplendente dei braccialetti. Ci passò accanto tremolando in nuvolette di profumo e ne fummo tanto incantati che ci fermammo per guardarci l’un l’altro. “Peccato che non ho tempo, - mi disse ad un tratto Teige, - con questa avrei fatto volentieri conoscenza!” Ad essere sincero mi sorprese un poco, ma Teige lo aveva detto con una tale naturalezza che me ne rimasi zitto. Del resto, tra noi non avevamo mai parlato di queste e di altre faccende simili. Oggi, dopo cinquant’anni, sono arrivato a capire che mi ero meravigliato senza motivo. Teige aveva ragione! L’uomo è uomo e deve sempre puntare più in alto di dove può arrivare. Del resto, soltanto in questo modo nascono i grandi travolgenti amori di cui i lettori amano leggere. Addio, Parigi! Non sarai mai più così bella!” Alla fine della seconda guerra mondiale Teige lavorava giorno e notte alla stesura del suo famoso saggio “Fenomenologia dell’arte moderna”, una serie di libri che aveva pianificato già durante la guerra. E già allora si lamentava di dolori allo stomaco. Si stava pure curando per questa malattia, ma i tormenti non si placavano. Non era né lo stomaco né il cancro di cui temeva. Era il cuore. A questo non pensava. Teige morì il 1° ottobre 1951. “…dopo la sua morte comparvero molte leggende, favorite anche dal silenzio che di colpo circondò la sua morte, il suo nome e, naturalmente, anche i suoi libri. Nella sua monografia sulla pittrice Toyen, André Breton citò come un fatto reale una di queste leggende, secondo la quale Karel Teige si era avvelenato, nel momento in cui era stato arrestato, e sua moglie si era uccisa immediatamente dopo buttandosi dalla finestra. Bisogna dire che Teige non fu né arrestato. Né sottoposto ad interrogatorio. Gli avvenimenti, ugualmente drammatici, si svolsero in modo diverso...il sipario si alza e sulla scena ci sono un uomo e la sua donna. Si sente bussare ed entra un’altra donna. No, per l’amor di Dio, non state assistendo ad una commedia  sul matrimonio, di quelle che si rappresentano a dozzine sui teatri di tutto il mondo. Anzi, proprio il contrario, inizia un atto unico. La tragedia di un uomo e di due cuori femminili. Come di certo si sa, Karel Teige, nel suo romanticismo, era affascinato dal libero amore. Amava sinceramente sua moglie. E quando all’inizio della guerra conobbe la signorina E., si sforzò di dimostrare a se stesso e alle due donne che il loro rapporto poteva essere felice e armonioso.

                                                                                                                                             (continua) 

sabato 27 febbraio 2016





Qualcosa sul mio nonno Dario.

Del mio nonno paterno, Dario, non ricordo praticamente nulla. In questo preciso momento (ore 17.16 del 27/02/2016) compio uno sforzo eccezionale cercando di andare indietro il più possibile, tentando un improbabile percorso cronologico, non sostenuto da documento alcuno. Fino all’età di cinque anni Dario e sua moglie, Enélide, abitavano in una casa del Borgo diversa da quella dei miei genitori, e perciò io e mia sorella, di tre anni più piccola,  non abbiamo avuto modo di frequentarli. Nell’estate del 1943 (non avevo ancora compiuto i cinque anni) i miei genitori si separarono legalmente, e così, essendo noi bambini troppo piccoli, mia madre ci portò dai suoi genitori che abitavano in un podere molto lontano dal paese. Non si deve dimenticare che in quegli anni l’Italia era in guerra (avevo uno zio materno a combattere sul fronte orientale, e di lui non abbiamo più saputo nulla, né se sia morto o, magari, vivo), e inoltre, proprio dal settembre 1943 alla Liberazione (29 giugno 1944), il nostro territorio delle Colline Metallifere Toscane era attraversato dal “fronte” di combattimento. Era perciò impensabile allontanarsi dal quel podere, così remoto. Fu soltanto nella primavera del 1946 che riuscii a fuggire per andare a cercare mio padre e i nonni paterni che adesso abitavano insieme a lui. Nonno Dario era in pensione credo dal 1944, avendo lavorato alla Società Boracifera di Larderello, per diversi decenni, più un intermezzo di emigrante nelle miniere di carbone della Pennsylvania nei primi anni del ‘900. Ma, oltre ad essere un buon operaio alle caldaie del sal borace, e un tenace lavoratore, aveva anche appreso il mestiere di calzolaio, con una buona fama nel paese e nelle campagne vicine. Certo, la sua vera fama, era affidata alla musica, nella quale eccelleva come clarinettista. Infatti la pensione era misera e nonostante che i suoi due figli lavorassero ed avessero famiglie indipendenti, da sola non sarebbe stata sufficiente per vivere, seppur modestamente in una casetta in affitto. Tutto questo per giustificare, in parte, la sua non presenza nei miei primi ricordi, dato che soleva recarsi anche in poderi molto lontani dal paese, e rimanerci per più giorni. In quella casa, tra la primavera del 1946 e la sua morte nel luglio 1948, io dormivo col babbo e lui e la nonna avevano un’altra stanza nella parte opposta alla nostra. Diciamo pure che i momenti dello stare insieme devono essere stati esigui. Quel poco che so’ di lui si deve a qualche accenno del babbo, ai racconti della nonna, a qualche commento dei padri dei miei piccoli compagni di scuola e delle mie cugine, nonché a rarissime fotografie, soprattutto quelle  del Corpo Filarmonico Principe di Piemonte, nel quale era primo clarino. Dunque sapevo di lui: che era miope, tanto che per leggere gli spartiti musicali si era fatto fare una apposita “prolunga” da applicare allo strumento, ma per lo più suonava tutte le sinfonie allora diffuse in Italia, “a mente”; sapevo anche che era di carattere “burbero” e riservato, e forse di lui rammento che qualche volta  mi abbia minacciato, per aver commesso una monelleria, di “farmi provare il pedale”, cioè la correggia di cuoio che gli serviva per fare il filo ai trincetti per tagliare il cuoio o la vacchetta, sempre appesa ad un lato del piccolo banchetto quadrato di lavoro! Ma ritengo che non l’abbia amai usato sulle mie gambe nude! Questo banchetto, che si era costruito da solo, aveva il pregio di potersi chiudere su se tesso in modo da poter essere facilmente trasportato, a mo’ di zaino, nelle sue peregrinazioni nelle campagne. Qualcuno m’ha raccontato che era un buon mangiatore, quando capitava l’occasione! Naturalmente, quando andava “a opre” presso una famiglia di mezzadri, e ci rimaneva tutto il giorno, la massaia si faceva in quattro per preparargli qualcosa da mangiare. Un giorno questa mezzadra ebbe a chiedergli: “Dario cosa volete mangiare oggi a desina, due uova, due salsicce e pane…” al che Dario rispose pronto “Si, si, due uova e due salsicce!” Della sua vita di emigrante ho saputo che era insieme a molti altri compaesani  (in quegli anni a cavallo del ‘900 si calcola che circa 400 giovani castelnuovini siano emigrati nelle miniere di carbone della Pennsylvania, nel distretto di Pittysburg) e che facesse parte di una band di musica leggera che si spostava nei vari villaggi per suonare alle feste da ballo, e che durante uno di questi spostamenti il treno fosse assalito dai banditi, contro i quali, dai finestrini, i musicanti puntarono quartini e clarinetti, a mo’ di schioppi, mettendoli in fuga. Ma forse questa è solo una vanteria. Rientrato dall’America senza un dollaro, perché rapinato alla vigilia della partenza dai gangester della “Mano nera” (tutti italiani!) che li narcotizzarono nelle camerette dove dormivano l’ultima notte prima di salpare da New York! Fu soltanto grazie alla colletta dei compagni lavoratori che ebbero qualche soldo per affrontare il rientro. Tuttavia, giunto a casa, trovò subito il lavoro alla Boracifera e poco dopo sposò la nonna, allora brava cantante e bellissima ragazza. Si erano conosciuti durante la messa in scena delle operette, lui vi suonava e Enélida cantava! Nel 1906 nacque il loro primo figlio maschio, forse un po’ troppo prematuro per il loro matrimonio, ma di questo simpatico scandaletto, anche la nonna è sempre stata reticente. Nel 1915 nacque il secondo figlio, mio padre, Renzo. Tutti e due i figli assomigliarono hai loro genitori e sono stati eccellenti musicisti, come anche una mia cugina, Jolanda, mentre gli altri nipoti hanno dirazzato! Nonno Dario era figlio di Natale e Rosa Donati, famiglia poverissima. Natale faceva il portalettere ausiliario tra il capoluogo e una sperduta frazione, prima di entrare con il Conte de Larderel alla fabbrica dell’acido borico di Larderello. Ebbero diversi figli ed io ricordo di aver sentito parlare di Maria, Zeffiro (emigrati a Grosseto e Siena) e di Stanislao (frate alla Scala Santa di Piazza Santa Maria Maggiore di Roma), ma forse ce ne furono altri, come ad esempio un Luigi ed una Ottavina…di loro (a parte mio zio Zeffiro che ho conosciuto di persona e gli ho voluto molto bene) ho perduto ogni traccia. Questa famiglia del clan “Groppi” di Castelnuovo, era di idee socialiste, così avevo sentito dire in casa, ma non avevo alcuna certezza. Molti altri, invece, furono anarchici, ed anch’essi emigranti e un Groppi Luigi fu segretario del Partito Comunista dopo il Congresso di Livorno. Il mio babbo, cresciuto sotto il fascismo, non aveva idee precise, sarà arrivato al rango di “avanguardista”, poco più, ma non risulta negli elenchi degli iscritti al PNF né, tantomeno, alla RSI. Anche lui entrato all’età di 12 anni a lavorare sotto la Società Boracifera di Larderello, comandata dal Principe Piero Ginori Conti, lo deve alla sua abilità musicale, e come si nota in una fotografia del famoso “Bandone” di Larderello della fine degli anni ’20, egli è accanto a suo padre Dario, proprio in prima fila! Oggi si direbbe che Dario e Renzo fossero “bigi”, cioè né neri, né bianchi né tantomeno rossi, durante il fascismo e che “stessero al loro posto, senza noiare né esser noiati”. Dopo la Liberazione, nel 1945, mio padre si iscrisse al PCI e in casa cominciò ad arrivare la stampa comunista, sulla quale anch’io posi le prime fondamenta: l’Unità, Il Calendario del Popolo, le opere di Gramsci, Togliatti, Marx, Stalin e Lenin! Poi vennero Il Pioniere, Vie Nuove, Rinascita, Critica Marxista, Il Contemporaneo…ma allora ero già cresciuto. La nonna Enélida è vissuta fino a 90 anni, al 1974. Ha sempre votato per il “suo Dario” diceva, cioè per il PCI!  Però pregava sempre per lui, anche se non l’ho mai vista entrare in chiesa, e per i suoi genitori che mai dimenticava: suo padre Salvadore Benucci e sua madre Angiolina Cascinelli. Era una vecchia laboriosa e simpaticissima, avrebbe fatto qualsiasi cosa per far felici i suoi uomini “Renzo e Carlo” e  qualche volta, guardando verso il cielo mormorava ”Dario, aspettami, per ora non vengo perché sto bene quaggiù, ho la stufa, la lavatrice, la televisione e il caldo in casa…e due nipotine!” Ma insomma, nonno Dario che pesce sarà stato? Mistero. Colpo di scena: ritrovamento di due documenti che ci dicono che Dario era stato iscritto al Partito Socialista prima del 1926, che non era mai stato iscritto al Fascio, che aveva collaborato con la Resistenza e che alla Liberazione aveva fatto nuova domanda per rientrare nel Partito Socialista Itliano! Grande nonno! Grazie per la tua coerenza. Penso che saremmo potuti diventare amici io e te, tu non fossi morto così presto, e non si sa bene nemmeno di che cosa, per le idee, la dolcezza della musica ed anche per le uova e le salsicce!

   

giovedì 25 febbraio 2016








Fiori di fine inverno (e radici).

La natura è maestra e il suo adattarsi alle situazioni più difficili ed estreme, dovrebbe insegnarci molte virtù. La tenacia, l’umiltà, la speranza, la gentilezza: come le radici di un melo cresciuto forte sopra i mattoni di un’aia, o il fungo nella fessura di una strada, oppure i piccoli fiori tra le pietraie e le rive di un torrente, che strappati dalle fragili radici dalle grandi piene, sempre ritornano, quasi immortali, a donarci la bellezza. 


lunedì 22 febbraio 2016


 da  sin a dx: Federico Berlincioni, Francesco Gherardini, Alberto Ferrini


il poeta Federico Berlincioni

Federico Berlincioni, un poeta.

Federico Berlincioni è venuto oggi, da Firenze a Castelnuovo, per parlarci della sua poesia! Lo abbiamo accolto con calore e curiosità. Il sindaco Alberto Ferrini e il presidente dell’Associazione culturale “Il  Chiassino”, Francesco Gherardini, ne hanno tracciato il profilo letterario e umano. Federico ha declamato i versi dei sonetti che fanno parte del suo ultimo lavoro “Poesie” edito nel giugno 2014 sorprendendo tutti per la sonorità e la sapienza della recitazione e suscitando un vivo consenso. Ha risposto con riflessioni mai banali alle domande dei due presentatori ed infine s’è trattenuto a parlare, in modo molto semplice, con molti dei presenti. Anche con me! L’ho apprezzato moltissimo. Gli ho promesso alcuni stornelli della mia raccolta e magari qualche proverbio licenzioso e ci siamo scambiati i recapiti telefonici ed elettronici. Lo farò tra qualche giorno. La sua poesia, essenzialmente sonetti, costruita su rigidi schemi metrici e rime, è molto diversa dalla mia, che si basa su versi sciolti senza rima né ritmo, più prosa che poesia, si direbbe, ed è una forma di “grande racconto” che parte dalla mia prima infanzia e m’accompagna, quasi ogni giorno, sulla soglia della morte. Parafrasando Santa Teresa di Lisieux, il mio canzoniere ha per titolo e sottotitolo “Sono nato nel vicolo del Serrappuccio. Storia di un’anima” (1952-2016). Stasera, a casa, ho riletto alcuni sonetti e tutti gli stornelli, poi ho preso in mano il mio Seifert e sono riandato a cercare il capitolo “Quattro soste sulla tomba del poeta”: “…di solito, agli inizi di marzo mi reco al cimitero di Vyshrad. Vi ho alcuni amici e a volte qui mi sembra di essere ormai rimasto quasi solo. Quest’anno era una fredda giornata di fine inverno e il cimitero era deserto. Per prima cosa mi sono diretto verso Hrubin. La sua tomba era la più fresca. Era morto appena il primo marzo….Dalla giovinezza m’è rimasta una sorta di misteriosa inclinazione per i luoghi dei morti. Vado volentieri nei cimiteri. Ho vissuto l’infanzia e l’adolescenza in intima vicinanza con i cimiteri di Olsany…nei cimiteri di Olsany ho vissuto primavere esultanti e autunni malinconici, senza mai pensare alla morte”.
Così anche io ho ripensato al mio amore per i cimiteri sparsi nelle nostre colline, molti dei quali abbandonati ed altri, per la rarefazione degli abitanti dei piccoli borghi e delle campagne, che si rianimano soltanto all’inizio di novembre. Ne conosco molti: Castelnuovo, Sasso Pisano, Montecastelli Pisano, Leccia, S. Ippolito, Lanciaia, San Lorenzo a Montalbano, Anqua, Belforte, Montalcinello, Chiusdino, Gerfalco, Fosini, Monterotondo, Lustignano, Serrazzano, San Dalmazio…Montecerboli, Pomarance (che è quello più grande di tutti). In essi ho molti amici, e non mi dimentico di loro. Le antiche pietre tombali, la suggestione dei grandi alberi che li circondano quasi sempre, degli svettanti cipressi, ed anche le immagini molto kisch dei tempi recenti, nonché i ricordi dei morti in guerra e nella Resistenza, mi offrono sempre spunti alla poesia, e la mia raccolta ne contiene assai. Ne trascrivo una, di queste nondeltuttopoesie:

Tombe, ricordi e un dubbio.

Il corbezzolo rosseggia tra il verde smeraldo                      
eppure l’autunno tarda i suoi ritmi freddi e nebbiosi,                              
il castagno stanco della lunga attesa apre finalmente
i ricci spinosi, come una sposa il suo grembo, mostrando                      
il frutto saporito, un frutto dolcissimo, mentre  nel cielo
che s’incurva al degradar della collina al mare,
stridono le avanguardie degli uccelli in partenza
verso una terra solatia e lontana…Indeciso se salire
alla camera dell’amica in attesa, che s’è fatta
bella nel buio della vita che d’assedio la serra,
- oh! potessi mandare un tenue raggio oltre l’insondabile
tenebra! – m’inoltro nel bosco stillante brume
al piccolo camposanto dove riposano antichi
amici aggirandomi tra pietre consunte,
evanescente memoria.

Rodolfo veniva
a scuola con me e Lino mi vendeva i primi giornali
dove incontrai la storia, un grande amore a prima vista,
- il Partito Comunista - e talvolta, fingendo,
quando il denaro mancava, si ritirava nel piccolo
ripostiglio per farmeli rubare! Maria mi portava
nelle magre pasture con in mano la vetta del salcio,
stupito imparavo che forze sconosciute legano l’uomo
al mistero dell’Universo, e intanto invocava con ardore
Gesù e la Vergine benedetta; insieme a lei
un’anima eletta mi commuove in un distico:
amai la poesia, amai la vita, così rivedo quegli
occhi penetranti che leggevano le ansie del
                                               nostro cammino…

Tutto è silenzio tra il lieve mormorio
delle foglie e lo squittire dei topi campagnoli
nelle scope, tutti i morti a me che m’avvicino
ora si stringono salutando con sbiaditi biglietti
da visita: anima mite e buona, spargi gemme
e fiori su questa pietra che mi grava
dopo lunga e penosa malattia;
ed io che lasciai la terra per donare la vita,
fulmineamente rapita alla ridente giovinezza,
di rivolgere un pensiero al sorriso che non vidi
soltanto ti chiedo, e una preghiera
a quell’ignoto Dio;
qui giace, ormai polvere e vermi, un giovane pio
e laborioso,  che trovò inattesa morte sul lavoro
nello stabilimento boracifero a ventinove anni;
m’è compagno silente un povero fante
che si coprì di gloria sui campi di battaglia
e nella pace cadde vittima
delle bollenti acque dei lagoni;
infine un’orazione ti rammento
per me che non potei invocare l’Altissimo
nel tragico incidente che mi tolse la vita…

Oh! come grondano dolore due lastre
neglette e scure dimenticate da tutti addossate
al vecchio muro! Folle gelosia  ed un rimpianto
spezzarono i nostri cuori innocenti, noi non abbiamo
croci per piangere in questo luogo santo,
ma dolcissimi baci ci scambiamo
in paradiso, tra lacrime pure. 

Il cancello cigola, geme la stanghetta arrugginita;
il tempo inghiottirà polvere e memoria
di noi tutti, non resterà niente se non qualche
pallida lettera e immagini fredde
su dischi indecifrabili, come lamine
etrusche o alieni enigmi sui campi di grano.
E allora?

Forse è un bene la dimenticanza, un bene il nulla?
un male l’eterno ritorno, un male la passiva beatitudine?

E’ solo un dubbio che improvviso m’è

entrato in quella che viene chiamata “anima”.



Dai proverbi (e da Seifert).

La gioventù brama,
la vecchiaia ricorda.

Cos’è l’amore?
Lo sfregamento di due epidermidi.


Non ci sono soltanto i malinconici, mesti e teneri ricordi che si trascinano lenti dietro a un vecchio. Anche la vecchiaia ha desideri. E forse sareste sorpresi dal modo in cui anche i desideri dei vecchi sono intensi. Ed è chiaro, sovente anche vani. La vecchiaia non si contenta della sola attesa della morte, non è più disperata come un tempo. E se è ragionevolmente modesta, si preparerà momenti piacevoli e felici. Potete credermi. Ma ritorniamo ai ricordi ai quali è condannata. Poiché senza di essi la vita sarebbe vuota e sconsolata…Mi diceva un amico, noto cinico: è la stessa cosa se l’amore dura due, tre anni o due, tre minuti. Del resto cos’è l’amore? Un certo francese, del quale ho dimenticato il nome, lo definiva lo sfregamento di due epidermidi! La vita punì terribilmente il mio amico per questi discorsi. Quando si avvicinò al cinquantesimo compleanno, e i capelli cominciarono rapidamente a diventare grigi, s’innamorò in maniera impetuosa e disperata di una ragazzetta diciannovenne. Fu un amore infelice, si sa. Come avrebbe potuto non esserlo? Per alcuni anni fu tormentato da questo desiderio vano ed erosivo, eppoi divenne completamente grigio. E in ultimo provò anche a scrivere versi. Questo fu il peggio. Lo incontrai un giorno, casualmente, in piazza. Aveva lo sguardo triste e la conversazione fu sconsolata.. Da allora non l’ho più visto, né so che fine abbia fatto. Ma adesso penso spesso a lui.

lunedì 15 febbraio 2016


I miei 18-20 anni!



ZIBALDONE.
Poesia, poeti, PIL e me.


“…ciao! Dato che la tua mail arriva proprio mentre ho il PC acceso, tento una risposta immediata. Mandami l’indirizzo postale e ti spedirò l’ultimo dei miei libricini di poesie (in verità ne ho ancora 6 copie delle 344 stampate), perché mi piace che esso vada ad una poetessa. Anche nell’Alta Val di Cecina ci sono numerosi poeti e poetesse. Nel mio paese, ad esempio, posso enumerare Stella, Lorella, Marzia, Sergio, Adolfo (hanno tutti pubblicato), in più ci sono tanti che non hanno ancora pubblicato. Naturalmente c’è anche un passato più remoto, nel quale i poeti hanno scritto, pubblicato e, generalmente sono stati dimenticati. A questi poeti l’associazione culturale Il Chiassino di Castelnuovo di Val di Cecina, da una ventina d’anni, dedica una “giornata della poesia” per farli conoscere. Ho avuto la fortuna di scoprire poeti e poetesse importanti, tra i quali: Asia Castellini di Serrazzano, Giannina Rossi di Sasso Pisano, i Fratelli Bechelli di Monteverdi Marittimo, Florio Gherardi di Lustignano, Giuliano Cheli di Serrazzano, Alessandro Spinelli di Montecerboli, Giovanni Batistini di Volterra, Roberto Veracini di Volterra, Dina Ferri di Radicondoli, Ireneo Pimpinelli di Montieri, Fortunato Milani di Sasso Pisano, Carlo Chiavistrelli di Larderello, Pier Giorgio Bianchi di Massa Marittima, Marta Liti di Belforte, Michela Turchi di Ponteginori  (a parte Roberto, Marta e Michela gli altri sono tutti morti), Dina Ferri addirittura nel 1930 e questa è una delle voci liriche più interessanti del primo Novecento. Un gruppetto di persone amanti della poesia e della letteratura si riunisce, una volta ogni mese, a Belforte (Radicondoli) alla Casa della Memoria “L’Aquilante”, per leggere i propri testi, o testi di altri, oppure ascoltare e poi partecipare al dibattito che segue ogni presentazione fino a concludere con un piccolo rinfresco e sorridente lettura dell’oroscopo…Lassù, a Belforte, borgo di un centinaio di abitanti, sono stato anch’io “incoronato” poeta per il libricino “La cometa Swan”. Le persone provengono dal territorio circostante e negli anni si sono strette molte amicizie, anche importanti. Diversi poeti sono registi teatrali, pittori, poeti, attori, fotografi, cantanti,, alcuni viaggiano in Italia e all’estero, insomma c’è un buon interscambio culturale. In quanto a me lavoro a un nuovo libricino, anzi, a più d’uno, che stamperò artigianalmente in una sola copia, in attesa di tempi migliori per la negletta poesia. Per il resto mi affido all’imprevedibilità della vita seguendo l’insegnamento di Epicuro, e cioè che non siamo mai né troppo giovani né troppo vecchi  per la felicità (e per il suo contrario!) Come Machado ritengo che camminando si faccia il cammino e con Violeta dico spesso “Grazie alla vita che m’ha dato tanto”. Continuo ancora la navigazione verso Itaca…e mi tengo strette la mie tre sante protettrici Giacinta, Teresa e Caterina! Non scrivo poesie ogni giorno…alle volte ci vogliono anni per completare una poesia…ma in più di sessanta anni di scrittura il mio canzoniere è abbastanza ampio e complesso. Spero che esso possa vedere la luce o poco prima o poco dopo la mia morte dato che, pur nella povertà stilistica e creativa, esso è, tutto sommato, un “documento” testimone del suo tempo. Le tue poesie? Non mi sono ancora fatto un’idea certa. E poi cosa cambierebbe? Il fatto che tu ami la poesia è la cosa più importante, anche se dobbiamo rifuggire dalla tentazione di vivere solo in funzione di essa e non, al contrario, che essa sgorghi dalla complessità, dalla passione, dai meravigliamenti e dalla sofferenza della vita. Quand’ero ragazzo ebbi l’impudenza di inviare un quadernetto di poesie ad un grande poeta italiano chiedendogli un parere! Non mi rispose che alla maggioranza delle persone che scrivono versi ed altra pseudo letteratura bisognerebbe tagliagli la mano, no! fu più gentile, mi disse che i miei versi non si distinguevano da quelli di centinaia di migliaia di altri giovani…che poi, ad un certo punto avrebbero smesso di scrivere, scomparendo nel nulla. Però, nelle mie poesie avvertiva un qualcosa di diverso…forse, “in futuro, se incontrerai un grande dolore o un grande amore…” potrai diventare davvero un poeta! E nella mia vita la predizione (a parte quella di diventare un Poeta) s’è avverata. Per questo continuo a scrivere ed a sognare.    



I. B. Singer.
"The Secret", in "Commentary", XL, oct.1965.


"...lei vede un vecchio" gli dissi, "ma quanto tempo è passato da quando ero giovane? In uno dei suoi articoli ha citato un poeta (non ricordo chi) che ha scritto: "I vecchi muoiono giovani". Parole sante. Il vecchio che le siede davanti morirà giovinetto. L'anima non invecchia. In un certo senso la mia memoria ringiovanisce di giorno in giorno: dimentico le cose di ieri, ma quelle accadute sessant'anni fa le ho sempre davanti agli occhi. Avrei una storia incredibile da raccontarle, una storia come ne succede una ogni mille anni...una storia d'amore, come avrà immaginato, alla quale poesero mano e cielo e terra, angeli e demoni. Io stesso, se non l'avessi vissuta, la definirei un sogno. Ma, stia a sentire..." 

venerdì 12 febbraio 2016




Statistiche.

Dal periodico del PCI della Val di Cecina, anno 1981 e altri dati:

Abitanti al censimento (1981) del Comune di Castelnuovo di Val di Cecina: numero 2863.
Abitanti al censimento (2011) del Comune di Castelnuovo di Val di Cecina: numero 2387.

Iscritti al PCI nel 1981:

Castelnuovo di Val di Cecina (Capoluogo):   289
Sasso Pisano e Leccia:                                  146
Montecastelli Pisano:                                       66


Iscritti al PD nel 2014 a Castelnuovo di Val di Cecina (Capoluogo): 18
Iscritti al PD nel 2015 a Castelnuovo di Val di cecina (Capoluogo):  10
Iscritti al PD nel 2015 a Sasso Pisano:                                               9
Elezioni Amministrative REGIONALI 31/5/2016: Enrico Rossi (PD) 42%.

Sindaci del Comune dal 1945 al  2016:

Cascinelli Aldo – PCI
Frasconi Arnolfo – PCI
Ferri Steno – PCI
Conti Alberto – PSI
Tani Gualtiero – PCI
Rossi Michele – PCI
Gherardini Francesco – PCI
Cerboneschi Navarino – PCI
Groppi Carlo – PCI - DS
Ciompi Massimiliano – DS
Muzio Bernardini – PDS
Calzolari Elisa -  PDS
Ferrini Alberto, in carica – Forza Italia

giovedì 11 febbraio 2016










C’era Togliatti!

Non c’era soltanto Togliatti, c’era la mia giovinezza, con le sue pene, le sue gioie e la sua bellezza irripetibile. Quando Togliatti scrisse il suo “testamento” da Yalta, nel 1964, ero già iscritto al suo partito, il Partito Comunista Italiano (PCI). Ho condiviso i suoi successi e le sue sconfitte, i suoi errori, ma anche i grandi slanci umanistici di Enrico Berlinguer. Posso dire che credevo fermamente possibile la “via italiana al socialismo” e che mi ero progressivamente affrancato dalla sudditanza ideologica al Partito Comunista dell’URSS, avendo vissuto molto da vicino gli avvenimenti della Cecoslovacchia e della “primavera di Praga”, soffocata brutalmente con la forza. Allora, nel piccolo borgo dove abitavo ed abito ancora, il PCI era la forza maggioritaria, eletta democraticamente alla guida del Comune, avendosi guadagnato tale primato nella resistenza al fascismo e in tutte le lotte dei lavoratori, per la crescita sociale e culturale del popolo italiano, dalla Costituente alla Costituzione, alle libertà nel campo dell’arte, della scienza, per la laicità dello Stato e contro ogni forma di terrorismo, nero o rosso che fossero, e…per avere e mostrare pubblicamente le “mani pulite” dalle mafie e dal malaffare. Alla fine degli anni ’80 il PCI ha cessato di esistere. Sono nati nuovi partiti, anche alcuni che si richiamano al comunismo o al marxismo-leninismo, ma io sono sempre rimasto fedele alle parole magiche di democrazia e sinistra. L’ultimo approdo è quello attuale, il Partito Democratico (PD), nel quale mi ritrovo quasi completamente, compresi gli atti del suo segretario, Matteo Renzi, che, come sappiamo, ha intrapreso una tremenda lotta per avviare il rinascimento politico dell’Italia ricollocando la nostra Patria nel posto che le spetta in Europa e nel Mondo. Non so se ce la farà, ma vorrei dargli il mio piccolissimo contributo. E’ per questo che sono iscritto al  Circolo PD del mio comune. C’era Togliatti, a Castelnuovo di Val di Cecina  eravamo circa 300 iscritti al PCI e governavamo il Comune dal 1945 (fino alla seconda metà degli anni 2000). Adesso il PD ha soltanto 10 iscritti (e altri 9 a Sasso Pisano), il Comune è governato da una Lista Civica di centro-destra e i tre rappresentanti della lista civica di centro-sinistra, non sono iscritti ad alcun partito! In questa diaspora abbiamo perduto la parte più importante del nostro patrimonio politico e culturale, quello che, pur con gli inevitabili errori, ha realizzato grandi imprese sociali, culturali e umane. Con questi numeri è adesso quasi impossibile pensare a riorganizzare l’attività politica, ed è solo grazie a “Renzino” che mettiamo il quotidiano l’Unità nell’antica bacheca sulla via principale del paese. Eppure credo che una presenza del PD, attiva e partecipata, sarebbe molto utile alla nostra intera Comunità che continua ad impoverirsi. Sono diventato vecchio, c’ero ai tempi di Togliatti, e con pochi altri sono rimasto solo il custode della memoria. Tuttavia aperto al nuovo ed alla speranza. Ricordo la poesia di Brecht, elogio della dialettica:

Il sopruso oggi s’inoltra con passo sicuro.
Gli oppressori fanno progetti per diecimila anni.
La violenza assevera: così è, così rimarrà.
Non risuona voce se non quella dei dominanti
e sulle piazze dice chiaro lo sfruttamento: si comincia solo adesso.
Ma degli oppressi molti ora dicono:
ciò che vogliamo, non verrà mai.

Chi è ancora vivo, non dica: mai!
Il certo non è certo.
Così com’è, non rimarrà.
Quando avran parlato i dominanti
toccherà parlare ai dominati.
Chi osa dire: mai?
Da chi dipende se dura l’oppressione? Da noi.
Da chi dipende se viene infranta? Sempre da noi.
Chi fu abbattuto, si rialzi!
Chi è perduto, combatta!
Chi ha conosciuto la sua condizione, come si potrà trattenerlo?
Poiché i vinti di oggi sono i vincitori di domani

E il mai si muta il oggi: oggi stesso!

martedì 9 febbraio 2016



Una conversazione con Frantisek Hrubin
(che, con il dovuto rispetto, faccio mia).

Domanda: Corre voce che lei stia per scrivere dei ricordi. Non vedo l’ora che escano; negli ultimi tempi leggo soprattutto memorialistica. Come vede lei questo genere letterario? E che sensazioni ha avuto e che cosa le veniva in mente leggendo il libro di Nezval Dalla mia vita? Lei è comunque stato presente a quasi tutto quello che Nezval ricorda, parlando sul periodo degni anni Venti.

Risposta: Come tutti, mi trascino dietro, con una lunga cordicella, ombre di ogni tipo. Qualcuna sorride, un’altra mi ingiuria, e un’altra ancora tace per l’ignominia. Mi piacerebbe sprofondarne qualcuna nella voragine dell’oblio, altre vorrei stringerle di nuovo al mio cuore. Però si tengono tutte saldamente insieme, non si può separarle bene. Mi si presentano tutte. Ma non scriverò delle memorie. No, già perché la mia memoria è dubbia. Non scriverò diari, non conservavo i documenti e buttavo nel primo tombino o nel fiume, dal ponte, i testi delle piuttosto numerose conferenze, fatti a pezzettini subito dopo essermi inchinato davanti agli ascoltatori. Dopo queste conferenze avevo una sensazione fastidiosa di vergogna. Le parole dette volano via, ma il testo rimane. Che andasse via, dunque! Per non essere però sospettato di voler far sparire molte cose spiacevoli che potrebbero smentirmi, ho deciso che con l’andar del tempo scriverò circa venti o trenta lettere abbastanza lunghe ai miei amici e conoscenti, scelti secondo il bisogno e le circostanze, per chiarirmi molte questioni del passato, per riconoscere i miei sbagli e le mie opinioni errate, eppoi anche perché, ricordando i morti intorno a me e dietro di me, possa aggiungere qualcosa alle loro figure che si dimenticano tanto in fretta. Saranno parecchi gli impegni di questo genere. Nella vita si presentano dei momenti in cui di solito diamo la precedenza alla letteratura dei fatti, la prosa ci favorisce perché una cosa la si possa dire semplicemente. I versi mai, dei versi abbiamo bisogno fino alla fine delle cose. Ci piace quindi prendere tra le mani anche i libri di ricordi. Lessi commosso Dalla mia vita di Nezval. E’ in parte una testimonianza anche della mia vita. Tra le parole Wahrheit e Dichtung, (verità e poesia), le lancette dell’immaginario quadrante indicano piuttosto la seconda parola, ma questo non m’importa assolutamente. Nezval non scriveva il suo libro soltanto per gli storici della letteratura, ma principalmente per i suoi lettori. Talvolta ha innalzato una realtà sobria, grigia, su un luminoso piano poetico e ha fatto bene. Del resto, oggi, in genere, ci interessa se i ritratti che si sono conservati degli antichi romani erano abbastanza fedeli?

Domanda: Apri la porta al lettore, tocca a lui orientarsi poi all’interno. Press’a poco così si espresse il poeta Leon-Paul Fargue. Cosa ne dice delle opinioni che appaiono qua e là, secondo le quali il lettore non ha affatto importanza e il poeta può lasciarlo stare davanti alla porta chiusa?

Risposta: Mi viene in mente F.X.Salda. Purtroppo in questo momento non riesco a ricordare dove ha scritto sulla missione e sullo stato del poeta nella nazione. Una volta fu espresso un aforisma: la poesia di tendenza è buona quando è buona. Sull’abuso della poesia per qualche tendenza, una volta Viktor Sklovskij disse “Col samovar si può piantare anche un chiodino, ma perché proprio col samovar? Le masse dei lettori, come sappiamo, sono piuttosto inclini al conservatorismo e all’agiatezza sperimentata delle vecchie forme. E così il poeta più di una volta scansa i suoi lettori, o addirittura rompe con loro. Ma come potrebbe distaccarsi da loro, quando solamente tramite loro può vivere la sua opera? Penso che potremmo adottare per la poesia la definizione usata da Russell per la storia dell’umanità. La storia della poesia è la storia dei grandi creatori, che creano la propria opera contro la volontà delle più vaste masse dei lettori. Ogni poeta vuole essere ascoltato, anche il più esclusivo. La poesia è un dialogo sulla verità e dovrebbe essere questo un dialogo appassionante, con la porta spalancata.


Accosto, nell’immagine, a questo grande poeta universale, una persona che ho conosciuto, io ragazzo e lui già uomo adulto, e che un giorno mi raccontò la sua esperienza di soldato nell’esercito fascista e poi, passato dalla parte della resistenza (fatto, questo, ignorato da quasi tutti!) Aveva un grande amore: FOLLONICA! Si, proprio la cittadina sul mar Tirreno. E con mia sorpresa mi regalò, con tanto di autografo, un suo opuscolo poetico dedicato proprio a Follonica: “Due ricordi frettolosi ed una fantasia più calma”! Non ci crederete: ma lo serbo tra le cose che più amo, insieme al Nobel  J. Seifert..   

giovedì 4 febbraio 2016






Tutte le bellezze del mondo, di Jaroslav Seifert.

Ieri sera, fino a notte fonda, ho letto il bellissimo libro del premio Nobel Jaroslav Seifert, anzi l’ho riletto perché ormai lo conosco fin dal 1985! Pagine emozionanti, alle quali ritorno incessantemente dato che credo di essere in sintonia con il poeta e, anche se può sembrare  un’affermazione azzardata, dati i tempi, col suo “poetismo”. Il libro è un inno alla bellezza, alla memoria, al coraggio e all’onestà. In più c’è Praga, la città che ho molto amato. E la bellezza. Lo scrivo alzando gli occhi oltre la finestra del mio studiolo, e all’orizzonte, non molto lontano, vedo brillare le cime innevate del Pratomagno sotto un sole splendente! Sono fortunato a vivere proprio qui, dove mi trovo. A pagina 74 ho trovato un passo che devo per forza fissare sulla memoria elettronica. Jaroslav racconta la sua amicizia col grande  poeta e scrittore  Vladislav Vancura, non solo uno dei più importanti scrittori cechi di tutti i tempi, ma anche un eroico resistente contro il nazismo,  assassinato dalla Gestapo nel 1943: “…a quell’epoca, tra le due guerre, in redazione stavano per apparire due importanti opere. “L’anno cecho” di Plicka, con illustrazioni di Karel Svolinsky e i “Quadri della storia del popolo cecho” di Vancura, queste imponenti fedeli narrazioni sulla vita, la realtà e lo spirito della civiltà. Nelle discussioni redazionali sul libro di Plicka, i cui quattro volumi riscossero un immediato successo, Vancura dichiarò di non essere soddisfatto della composizione di questo testo. Il libro, secondo lui, era privo del necessario approccio scientifico al materiale quasi inesauribile dei canti popolari. Ma si riconciliò col libro, poiché il testo aveva fornito a Svolinsky la possibilità di scatenare il suo eccezionale talento di disegnatore. Il libro è pieno di disegni così incantevolmente cechi che non si può fare a meno di innamorarsene…”.

Già negli anni ’70 mi ero messo alla caccia di Cesky Rok (L’anno cecho), pubblicato in quattro volumi a partire dal 1950, in una tiratura elevata, ma subito esaurita! Piano piano, nelle numerose librerie antiquarie di Praga, e grazie a cari amici cechi, ho acquistato separatamente i quattro volumi che compongono l’anno, Estate (1950), Inverno (1960), Primavera (1978) e Autunno (1980). Volumi stupendi ai quali vado incessantemente ed ai quali ho attinto per illustrare copertine e illustrazioni di alcuni dei miei piccoli libriccini! E adesso, con una motivazione ulteriore, quella datami dal mio amato poeta, che fu amico di Vancura e membro della prima redazione che mise mano alla stampa. Già poter condividere un’emozione con Seifert mi riempie di felicità.

lunedì 1 febbraio 2016



Tutte le bellezze del mondo, di J. Seifert.

Se in questo momento avete sentito un leggero sospiro, non fateci caso. Ho sospirato io per la bellezza di quegli anni remoti in cui eravamo felici e non lo sapevamo. Oggi lo sappiamo.